Tu credi che io dorma

29 Marzo 2022

L’ultimo libro di Luca Doninelli è articolato in cinque parti, intitolate rispettivamente Vita straordinaria di Jeremy Spencer, Turbamenti di un editore a Manhattan, La scuola francese, L’ultima casa prima della prateria, Il metropolita Konstantin. Non si tratta di cinque capitoli di un romanzo, perché Tu credi che io dorma (La Nave di Teseo, 2021) un romanzo sicuramente non è. Ma dire che è una raccolta di racconti non dà esattamente l’idea. Come a volte accade con i libri composti da testi distinti eppure coesi, o meglio, convergenti – quali ad esempio le Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani –, si vorrebbe parlare piuttosto di variazioni su un tema, o di episodi di una suite.

Il protagonista del primo racconto è un bambino di otto anni, che con il padre parte in treno da Venezia diretto a Vienna, dove li attendono la madre e la zia Phoebe. A un certo punto del viaggio Jeremy si accorge che il padre non è più accanto a lui; cercandolo, nei vari scompartimenti della carrozza trova due uomini anziani che vanno a un funerale, due ragazze delle quali l’una confida all’altra di essersi innamorata del nipote di una signora che assomiglia molto alla zia Phoebe, poi i suoi stessi genitori, un po’ più giovani di come li conosce, insieme a un bimbo piccolo, che con ogni evidenza altri non è che lui stesso. In sostanza, davanti agli occhi di Jeremy si squadernano in sincrona compresenza varie epoche della sua vita, distribuite fra gli scompartimenti della carrozza. 

 

Nel secondo racconto un editore di New York, Joshua Weisenberg, riceve dal socio la sollecitazione a leggere il romanzo di una giovane italiana residente in città, tale Alessia Monti. La trama del romanzo è simile a quella del primo racconto, salvo che i luoghi sono differenti: il tempo che smette di scorrere e si ripartisce in strati simultanei riguarda ora un ragazzino su un treno suburbano nell’area milanese. Poi la storia procede: l’editore incontra prima l’ex fidanzata della giovane scrittrice italiana, un’affascinante danese di nome Dagmar, poi, appreso che Alessia è rimpatriata, va a trovarla nella sua casa di Cormano, dove dialoga con la madre. Dettagli a parte (di qui in avanti, taccio i finali), l’impressione del lettore è di trovarsi di fronte a una serie di narrazioni interrelate, parzialmente sovrapposte: embricate, per dir così. Forse in sequenza?

Ma le cose stanno diversamente. Il terzo racconto ci porta in Francia, dove un brillante professore, Henri Balard, sospeso fra la (ex?) amante e la mai troppo amata moglie, con cui ha un figlioletto di quattro anni detto Fifi, conduce un lavoro seminariale in cui si costruisce collettivamente un romanzo. L’idea di partenza è fornita da una studentessa berlinese, Monika, che tempo prima in un tragico incidente stradale aveva perso un fratellino, egli pure di quattro anni, ed era riuscita a superare il trauma solo dopo aver scoperto che lo scrittore svedese Stig Dagerman (1923-1954) aveva scritto un racconto che narra la stessa vicenda.

 

La storia proposta da Monika comprende un incontro amoroso e un legame rotto da un tradimento; Balard lo proietta su uno sfondo fantascientifico, in cui compare un editore extraterrestre. 

Nel quarto ci spostiamo nel Midwest degli Stati Uniti. Due fratelli, Donovan e Matt, vivono in una casa isolata. Il primo, maggiore di otto anni, vorrebbe sposarsi, ma non può perché è tenuto a sorvegliare il più giovane, che da ragazzino ha causato la morte dei genitori in un incendio. Al processo Matt è stato assolto; senonché da allora la sua propensione alla violenza, complice l’alcool, si è accresciuta («Spesso un’assoluzione si trasforma nella più geniale e crudele delle condanne»), tant’è che quando il racconto inizia ha appena commesso un omicidio. Tre anni prima, una ragazza dell’Est ha avuto un figlio da lui, ma lui non ha mai voluto vederlo. 

 

Il titolo del libro deriva da una frase di Matt, che a un certo punto dice al fratello: «Io di notte non dormo quasi mai. Tu credi che io dorma, invece sto lì e penso». Matt racconta di aver ideato una specie di «romanzo mentale», in cui traspone alcuni eventi della propria vita, e dove l’infelice rivale del suo alter ego muore bruciato in un incendio. L’ultimo racconto è ambientato invece in URSS, all’epoca di Stalin. Protagonista è lo spietato e sanguinario comandante Gennadj Gavrilovič Rybakov, che dopo un sogno conturbante va in carcere a far visita al metropolita Konstantin, da lui stesso fatto arrestare e condannare a morte.

 

 

Questi gli chiede di poter celebrare una Messa la mattina seguente. Durante l’omelia, nella cella gremita di prigionieri che assistono all’insolita funzione, Konstantin cita un passo di padre Afanasij – salvo errore, dovrebbe trattarsi dello lo starec Afanasij Andreevič Sajko (1887-1967), su cui Maria Pia Pagani ha pubblicato un volume intitolato Starec Afanasij: un folle in Cristo dei nostri giorni (Milano, Ancora, 2005). Il medesimo passo è posto in esergo all’intero volume: «Tutto ha un senso, un significato e uno scopo.

 

Non riesco a concepire la possibilità che su questa terra esistano persone inutili. Non esiste uomo, ne sono certo, che almeno una volta nella vita non abbia servito qualcuno. Ora, io dico: se ha servito anche soltanto quella volta, bene: è per quest’opera buona che la vita gli fu data. E se qualcuno in tutta la sua vita non ha offerto nemmeno un bicchier d’acqua, non c’è dubbio che prima o poi qualcuno l’avrà offerto a lui! In questo caso, che reputo molto raro, diremo che il senso e l’utilità di quella vita è tutta nel fatto che un altro ha potuto fare del bene grazie a lui».   

 

Dunque, la struttura del libro non è sequenziale; radiale, semmai. Ma senza incaponirsi su metafore visive, potremmo dire che i cinque racconti che lo compongono gravitano attorno a un paio di concetti, e condividono alcuni motivi complementari. Innanzi tutto, il principio della simultaneità dei tempi: come afferma Henri Balard, «La letteratura […] ci insegna questo, che ciò che noi chiamiamo ‘il Tempo’ consiste in realtà in un istante solo. Tutto si trova lì, non esiste né un prima né un dopo». In secondo luogo, l’idea contenuta nella dostoevskijana epigrafe: quasi una parabola, in cui trova espressione un sentimento profondamente religioso della vita, e che suggerisce l’identificazione fra istante e eternità. Ripetuti sono poi gli intrecci fra vita narrata e vita vissuta: esistenza reale e letteratura si specchiano l’una nell’altra, interagiscono, si scambiano i ruoli. A più riprese, e con un drammatico crescendo – dall’infedele professore francese all’assassino americano al feroce ufficiale sovietico – si presenta il tema della colpa, vissuta con lucida e disperata consapevolezza, quasi come un destino ineluttabile: e va da sé che nel «quasi» si cela un’estrema possibilità di redenzione. 

 

Su un’orbita più larga potremmo registrare i motivi della morte nell’incendio (che ricorre anche in un racconto di Stig Dagerman), del viaggio e delle distanze (la storia di Monika comincia con una ragazza spagnola che va in Germania a cercare un uomo incontrato per caso a un concerto), della genesi delle storie, dei libri stampati e non; e un fitto gioco di parallelismi lega sia un racconto all’altro, sia i diversi piani presenti in un medesimo racconto. Infine, non sfuggiranno molteplici allusioni strettamente letterarie, dal nome stendhaliano dell’eroe del terzo racconto, quasi omonimo di Henri Brulard (e non immemore di J.G. Ballard) all’eco hemingwayana del titolo del primo (La breve vita felice di Francis Macomber). Del resto, l’assetto stilistico dei vari brani evoca modelli tratti da ambiti anche geografici diversi: in un’intervista al «Giornale» (Lo scrittore è lo scemo del villaggio che sente la voce di Dio, 31 ottobre 2021) l’autore ha fatto i nomi di Dürrenmatt, Paul Auster, Cormack McCarthy, Bulkagov o Grossman (per la casella francese, al terzo posto, non meglio specificati «grandi scrittori parigini»).

 

Nell’insieme, Tu credi che io dorma può essere definito un libro sul Tempo e sulla Grazia, in forma di omaggio alla letteratura. Impossibile non apprezzarne la studiata raffinatezza, la solidità narrativa, lo spessore culturale. Allo stesso tempo, è impossibile non interrogarsi sulle tante questioni che solleva; e ciascuno giudica secondo i propri orientamenti. Personalmente, non mi riconosco nella tesi che basti un gesto virtuoso – e anche meno: che basti partecipare a un gesto virtuoso compiuto da altri – per dare senso a una vita. Dissento dall’idea, o meglio, ne diffido: e a tale proposito mi sentirei di rinviare a quanto Primo Levi scrive nei Sommersi e i salvati sulla favola della cipollina narrata da Grušen’ka nei Fratelli Karamazov (lì in gioco non è il senso della vita, quanto la salvezza eterna: ma la differenza è solo apparente). Inoltre, l’affascinante idea della simultaneità dei tempi (narrativamente assai efficace) non mi induce a pensare alla concentrazione della durata in un istante (supremo? fatidico?), quanto ad una stratificazione temporale in perenne movimento, a uno scorrimento a velocità differenziate.

 

Più congeniali mi risultano la varietà dei modi in cui la letteratura può intercettare le traiettorie esistenziali, e l’idea degli effetti antitetici che una lettura può produrre (a Henri Balard il racconto che ha salvato Monika ispira solo angoscia). Soprattutto, mi pare funzioni la trama di corrispondenze – alcune evidenti, altre più sottili e nascoste – che caratterizza la percezione del reale che hanno i personaggi. Nell’insieme, tutto questo non fa che confermare i pregi di un libro dalla mole contenuta ma dall’elevato peso specifico: un libro denso, che alterna sottintesi e clamori, e in cui il registro drammatico, pagina dopo pagina, giunge a prevalere.     

 

Luca Doninelli, Tu credi che io dorma, La Nave di Teseo, pp. 142, € 17. 

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