Turismo di comunità

11 Dicembre 2012

Un campo pianeggiante in montagna è eccezione e anomalia geografica, rarità che diventava fortuna per chi lo possedeva o per chi lo lavorava; un tempo qualcosa da custodire con attenzione.

Un campo pari significa infatti un’esposizione alla luce più favorevole, meno fatica e soprattutto un maggior rendimento per ciò che vi viene coltivato, tanto piùquando quel campo “da sempre” è stato seminato a cereali, grano e farro in particolare. Grano e farro per la possibilità della vera farina, vale a dire il pane autentico, lontano da quello di farine di orzo o di castagne, di scandella, di segale: “farine del freddo”, della povertà, anche solo di un suo ricordo lontano…Pani lontani nel tempo, lontani e inconcepibili ma solo per chi è nato negli anni del benessere…

Così è stato anche per la montagna appenninica, vista e abitata da tutte le sue comunità per soli cinque o sei mesi all’anno, gli altri spesi in pianura o in Toscana dietro il gregge, due volte all’anno su e giù per le vie della transumanza.

 

La notizia che la C’China era andata perduta arrivò probabilmente in una giornata di primavera del ‘48 o del ‘49, in quel primo dopoguerra dove il boom economico era da venire, le rovine belliche ancora evidenti mentre le consuetudini di un’economia agraria stentavano a ripartire, appesantite da un paese in ricostruzione, appese al filo incerto di mutamenti vicini.

Il campo della C’china – di proprietà della Chiesa – era andato perso all’asta su in paese, nell’Appennino Tosco Emiliano, passato dalle mani di mio nonno materno a quelle di Clemente Sentieri, cognato di Cesare Zavattini, che proprio in quegli anni aveva ripreso a venire con una certa regolaritàin paese, ospite della sorella; soggiorni, quelli di Zavattini, in cui cercava e trovava conforto dalle fatiche o dalla delusioni romane, tregue di vita spese a pensare e lavorare…

 

Mia madre bambina ricordava quel campo come se fosse sempre appartenuto alla famiglia, così come ancora ricorda lo stupore amaro di suo padre e di suo nonno per l’esito di un’asta che aveva visto assegnare il campo a una famiglia che di suo ne aveva già in abbondanza.

Probabilmente solo due o tre anni di semine segnarono il confine tra la delusione e la soddisfazione di quei nuclei familiari. Già i primi cambiamenti erano alle porte: la nuova strada che collegava il Cerreto alla Statale 63, – e che proprio Zavattini contribuì con la sua influenza a far costruire – eliminando la vecchia mulattiera aveva reso più facile il commercio, più convenienti gli acquisti, farina di grano inclusa. Il pane cominciò ad essere venduto in paese, nella bottega-cooperativa, proveniente da oltre crinale, affiancandosi cosìa quello prodotto nei forni privati che in quasi ogni aia o casamento erano presenti.

 

Nei primi anni 50 poi, la transumanza degli uomini mutava rapidamente aspetto diventando per sempre emigrazione senza più gregge, trasferimento stabile di gente, lavoratori attratti e trattenuti nelle città del triangolo industriale. Al lavoro stagionale si andavano sostituendo i contratti nell’industria, mentre dalle città partivano le rimesse economiche – si chiamavano vaglia postali allora – verso i paesi sul crinale; un denaro non piùraro consentiva più facilmente l’acquisto dei beni materiali, quelli alimentari per primi: la farina e il “pane compro” appunto, il caffè, l’olio, lo zucchero, la pasta…

 

Pochi anni e il campo della C’china aveva perso gran parte del suo valore. In quegli anni – e fino ai primi anni 60 – continuava a resistere in montagna l’allevamento animale, forse per una tradizione difficile a morire e anche per utilizzare terreni finora riservati al seminativo, quelli più comodi e più vicini al paese. Chi avesse fotografato allora la C’china, lo avrebbe perciò visto ancora saldamente recintato ma al posto dell’oro del grano, il verde intenso dell’erba medica: leguminosa necessaria per l’allevamento di pochi bovini da latte in una zona che era posta al limite del territorio di produzione del grana reggiano. Nel paese vicino, fino alla fine degli anni 60, restò in qualche modo attivo un caseificio addetto alla produzione del grana.

 

Fine di un altro decennio e la C’china cambia nuovamente: la recinzione di pali di castagno si fa più incerta e il colore dell’erba medica lascia il posto a quello più vario delle erbe spontanee, un taglio di foraggio una sola volta d’estate, due nelle stagioni migliori, nutrimento per chi ancora aveva qualche rara bestia nelle stalle ma piùper abitudine e per utilizzo personale che per guadagno. A volte neanche il taglio, solo per un paio di giorni il pascolo dell’unico gregge rimasto in paese. Sono gli anni del più forte spopolamento della montagna, dove si sommano gli effetti di due decenni di immigrazione e dove, paradossalmente, l’ambiente sembra mostrare il meglio di sé…ma solo perché ora occorrono occhi estranei di villeggiante per poterlo apprezzare. Panorami in cui i faggi di alto fusto si alternano a quelli più giovani, conseguenza del taglio per il legname e prima ancora per il carbone, castagneti ancora puliti come giardini, campi che mostrano contorni netti sui boschi mentre ogni luogo produttivo resta allacciato al paese da strette strade selciate, un tempo solo per bestie e cristiani, ora bellissime da vedere e da percorrere con scarpe sportive…

 

Il bello da vedere sono i segni di un equilibrio instabile dove è evidente la cura dei decenni precedenti ma sul limite certo dell’abbandono…

Un equilibrio instabile che si mantiene tale fino oltre la metà degli anni 70 per poi entrare sempre più decisamente nell’abbandono; nel frattempo, sui lati della nuova strada variante, asfaltata e a due corsie, a poche decine di metri dalla C’China compaiono alcune costruzioni monofamiliari a due piani, quello superiore ad assi di legno: villette è il nome che da subito impongono i paesani. Nessuno tra loro acquisterà una di queste nuove costruzioni, fabbricati che resteranno appannaggio di qualche villeggiante…case da villeggiatura, economia ed abitazioni importate “di fuori”, villette appunto più che case.

 

Una di quelle estati, poco lontano, un “evento” a suo modo rivelatore di tempi diversi: a Castelnovo nè Monti – vero e proprio capoluogo di quella parte di montagna – Joe Sentieri, nativo del Cerreto e famoso cantante dei primi anni 60, per alcune sere è impegnato in una vendita di tappeti persiani. Le certezze e l’oro di quel decennio, tutto sembra ormai decisamente lontano...

 

 

In quegli anni, i tempi dell’abbandono si accavallano e confondono con quelli della nostalgia, una nostalgia non figlia del luogo ma propria di una nuova generazione cresciuta ed educata altrove: sono i figli degli immigranti degli anni 50 e 60, ora adulti, che scoprono e riscoprono il valore della natura... Concetto astratto, quest’ultimo, perché in realtà fatto di essere viventi e non, piante e animali, fiumi, montagne, rocce, prati e foreste ma anche e soprattutto uomini e persone.

 

Uomini e persone... ma con quali occhi guardavamo quella natura…? Gli anni 80 sono gli anni del Parco regionale, prima immaginato, dibattuto e poi nel 1988 finalmente istituito. In quegli anni, il Parco Regionale del Gigante, come molti in Italia, vivrà di aspettative deluse: troppo vicina la memoria di un territorio realmente vissuto, troppo artificiali le imposizioni e i limiti imposti agli abitanti sull’utilizzo delle risorse boschive, della caccia, della pesca, della propria terra. È, infatti, una natura pensata con occhi troppo urbani, filtrata attraverso le aspettative dei cittadini e dei turisti – paradossalmente sempre pochi – e tutto intorno le ansie verdi di una società che alla gente della montagna appaiono ancora lontane, intorno certo, ma ancora lontane e non loro...

 

In quegli anni il campo della C’china non c’è più, spianato perfettamente e ricoperto di tartan, un’alta rete metallica intorno e una di nylon in mezzo, all’altezza di 0,914 m. È diventato un campo da tennis, frequentatissimo per due settimane d’agosto, completamente deserto per dieci mesi all’anno. Una decina di agosti di tardivi furori agonistici, racchette di metallo e persino di carbonio, tornei, lezioni in cittàprese di nascosto, insegnanti, impiegati, operai, improbabili manager e ancor più improbabili tennisti per labili supremazie ferragostane. Solo baby boomers figli di emigranti, mentre restano sempre altrove i turisti veri…

 

Dieci anni, dieci agosti e ancora una volta tutto cambia… per il cedimento del fiato e di qualche legamento, per interessi e mode diventate altre ancora. Il tennis negli anni 90 è ormai un ricordo, il cancello d’accesso al campo perennemente aperto… e non ci sono più giocatori. Così, uno strato di asfalto scuro copre il tartan logoro; per poche estati la C’china diventa un campo da calcetto, pericoloso per le articolazioni quanto poco praticato: per carenza di ragazzi, per le poche sere d’estate, per gli infortuni…ancora pochi inverni e la ruggine si mangerà definitivamente l’alta recinzione mentre la C’china diventa terra di nessuno… asfalto di nessuno.

 

La parabola sembra inevitabilmente completarsi, una logora striscia di asfalto nero destinato a deteriorarsi sotto il gelo dove per secoli è cresciuto il grano, sulla terra un derivato del petrolio al posto del pane, epilogo di scelte economiche sbagliate, frammento trascurabile di storia materiale uguale a quella di tante comunità sparse nel nostro paese.

In concreto, una striscia di asfalto che diventa parcheggio saltuario di macchine e trattori, per larga parte dell’anno slargo abbandonato.

 

Fino a quando anche questa fase ha termine; nell’estate del 2003 una cooperativa di ragazzi chiede al Comune e ottiene l’utilizzo di quello spiazzo: questo e un capanno prefabbricato sono la sede della Cooperativa dei Briganti. Un nome “economicamente strano” ma che faceva riferimento ad un antico passato, su strade di incerta fortuna per viaggiatori e mercanti in transito tra le terre di Lombardia (cosìa lungo sono state chiamate le terre sul versante padano) e quelle toscane.

Tutela del territorio, lavori forestali e di manutenzione degli edifici, i campi di azione prevalenti per un pugno di ragazzi. Primi anni difficili e di entusiasmi, primo nucleo di giovani che tentano di invertire la tendenza all’emigrazione che negli anni era sempre, seppur lentamente, continuata. Ma lentamente anche la storia mostra un altro lato di sé, con la città non più in grado di imporsi come inevitabile attrattore di vita e di destini, con la montagna e piùin generale ogni territorio integro a costituire elemento di richiamo e non più solo in campo naturalistico come in fondo questo era sempre stato.

 

 

Quello che questi anni raccontano è che sono cambiati i nostri occhi, che alla nostalgia della natura abbiamo affiancato un bisogno più profondo, che l’appartenenza a una comunità è importante come quella di un territorio e che i luoghi in cui comunità e territorio si sono conservati sono luoghi di identità e di cultura, dove è desiderabile poter vivere aldilà di ogni avversità climatica, di ogni difficoltà materiale. Questi luoghi e queste comunità sono parco a tutti gli effetti e lo sono innanzi tutto agli occhi di chi ci è nato e che ci vive. Terreno marginale da sempre, la montagna meglio di altri territori ha potuto mantenere – suo malgrado – l’integrità del proprio ambiente e dei propri modi di vivere, qualcosa di autentico che è sopravvissuto e si è mantenuto attraverso il tempo e le generazioni, qualcosa in grado di essere avvertito più che capito, e sempre vissuto attraverso i giorni...

 

È probabilmente questo il motivo dell’attrattiva che occhi cittadini avvertono per questi luoghi, riscoperta di modi di vita in cui l'equilibrio e qualche forma di armonia sono ancora evidenti, esperienza che attraversa natura e cultura, antiche strade selciate, chiese di pietra, cibo e tradizioni, pranzi e cene comuni, vecchi mulini parzialmente riattati ad ostelli, camminate con le racchette a tracciare la neve fresca. Turismo di comunità è il nome che viene dato a questo modo di vivere per alcuni giorni un luogo e un borgo, turismo di comunità come un nuovo interesse, forse un modo nuovo e sostenibile in cui la montagna – almeno parte di essa – potrebbe parzialmente rivivere.

 

È quello che certamente quest’estate è accaduto sulla C’china: per oltre un mese sulla sua spianata un grande scivolo gonfiabile e una piscina circolare a disposizione gratuita di tutti i bambini. Alla sera, spesso, la C’china diventava poi piazza, luogoincuiincontrarsi, chiacchierare e tirare tardi. Il capanno della cooperativa e parte del piazzale come punto di ristoro vicino a una cucina da campo all'aperto, la polenta rossa (di castagne) o la polenta gialla (di mais) a cuocere dentro paioli di rame, vini toscani secondo tradizione, formaggio pecorino, salumi o altro per companatico secondo l'ispirazione dei cuochi, sempre volontari, come volontari erano i camerieri improvvisati.

 

Turismo di comunità è anche quello di cui vivono oggi questi ragazzi e attraverso loro maggiormente ancora vive un paese, comunità residuale di soli settanta residenti – quasi tutti pensionati - all’interno di un parco che nel frattempo è diventato nazionale, il Parco nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano - e che finalmente è stato accettato come una parte della propria storia. Estate breve quella della montagna ma la maggior parte dei fine settimana invernali sono già sold out, e per la cooperativa un denso programma di progetti e iniziative per l’immediato futuro.

Oggi sulla C’china vive un tentativo economicamente e culturalmente sostenibile, in cui una comunità manifesta una propria originalità e una propria residua forza, testimonianza anche solo di una sua idea di vita. Saranno probabilmente i prossimi dieci anni a raccontare se questa idea ha avuto un futuro.

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