Ucraina dieci anni dopo
Ricordo benissimo il momento in cui varcammo il confine tra Polonia e Ucraina. Era l’ottobre del 2004 e con Marco Belpoliti stavamo facendo il primo sopralluogo per quello che sarebbe diventato La strada di Levi. Sapevamo che quel confine – pur dopo l’esperienza forte della visita ad Auschwitz – significava il superamento di un limite. Di là ci aspettava qualcosa che non era ancora l’Oriente, ma non era più l’Occidente: una terra di mezzo. Sospesa non solo tra i punti cardinali, come avremmo scoperto, ma anche tra presente e passato.
Ricordo, per esempio, come subito il traffico si diradò e come, dopo la prima curva, ci apparve, in mezzo alla strada, una mandria di mucche. La conduceva una contadina larga come la stessa Ucraina sulla carta geografica, la faccia gioviale e rubizza, per nulla preoccupata del fatto di bloccare il traffico. Capimmo al volo che quelli fuori posto eravamo noi: la nostra fretta, il nostro “avere una missione”, il nostro senso del tempo. Lungo il viaggio, che si snodò poi attraverso una natura maestosa e serena (quella che, secondo le sue parole, rappacificò Primo Levi col mondo dopo 18 mesi di lager), ne avremmo incontrate altre di mandrie; e intorno a loro una umanità lenta, affabile, nella quale non era difficile indovinare una tendenza fantastica e sognatrice.
Anche le città, a cominciare da L’viv (per noi Leopoli), la prima in cui soggiornammo, si presentavano insieme simili e diverse dalle nostre. La cosa che ci colpì la prima notte fu il buio. L’illuminazione pubblica era ridotta al minimo, per scarsa efficienza della rete o per risparmio (o tutte e due): e l’esperienza della notte senza luce artificiale, ma in un contesto urbano, fu all’inizio davvero disorientante. L’Ucraina si rivelò tutta così: un paese così vicino, in fin dei conti; e così lontano, per ciò che concerneva usanze e aspettative quotidiane. Un paese che praticava istante per istante l’ibridazione tra due opposti, il cui sintomo più evidente era l’uso della lingua che è semplicistico dividere geograficamente tra ucraino a ovest e russo a est.
Come potevo capire dalla mia infarinatura di russo e dall’osservazione dell’interprete, le due lingue si alternavano a seconda dell’occasione e del momento, negli stessi luoghi e durante la medesima giornata.
Così le immagini simbolo dell’Ucraina come la vedemmo dieci anni fa restano due, ovviamente contrastanti: quella della campagna immobile, da Grande Madre Russia; e quella della costruzione dell’inquietante Casinò “Freedom”, a Kiev. Già, Kiev. Lì più che altrove si vedevano bene le forze che tiravano in direzione opposta creando un’identità schizofrenica, che metteva insieme la riconquistata indipendenza con l’orgoglio di appartenere, contestualmente e inestricabilmente, alla storia dei popoli russi.
Venimmo a conoscenza di storie periferiche, poco note a noi occidentali. Di come, per esempio, i movimenti anticomunisti seguiti alla Rivoluzione leninista diventarono i naturali alleati dell’invasore nazista, con il terribile corollario dei massacri ebrei. Di come questo fronte, poi, si spezzò a sua volta, e di come le parole “indipendenza” e “libertà” finirono per significare una cosa diversa per ciascuno di quelli che le pronunciavano.
A questo pensavo in questi giorni, leggendo che gli ucraini dell’ovest definiscono “fascisti” gli insorti di Kiev, già sponsorizzati aprioristicamente dalle cancellerie occidentali come combattenti della libertà. O che le organizzazioni ebraiche si dicono estremamente preoccupate dalla piega degli eventi. In Ucraina è difficile tracciare una traiettoria dello sviluppo e del progresso come piace a noi. Le cose si avviluppano in spirali difficili da districare. Ricordo, per esempio, lunghe discussioni con Sophia, la nostra interprete. Lei era una indipendentista convinta e, qualche anno dopo, dato che rimanemmo in corrispondenza, mi scrisse che si schierava con la Timoshenko. Io capivo la sua passione ma molto spesso mi spaventavo del radicale astio espresso nei confronti di qualsiasi cosa si richiamasse alla Russia.
Impostammo il pezzo del film dedicato all’Ucraina proprio su questo tema, raccontando la storia di Igor Bilozir, una specie di Fabrizio De André locale ammazzato da due figli di papà russi in una rissa da bar, perché cantava in ucraino. Raccontammo i fatti e la rivolta che ne seguì. Ma chiudemmo la sequenza con le immagini di una “Festa della gioventù” globalizzata, tanto simile agli MTV Days di casa nostra.
Dieci anni dopo, mi sembra che le tre forze che insieme convivono e si oppongono sullo scenario ucraino siano ancora quelle: un indipendentismo legittimo ma con un’anima nera; la pax putiniana con il suo corollario di mitologie inconfessabilmente nostalgiche; e, non dimentichiamolo, un’occidentalizzazione che si nutre degli inganni del consumismo più banale.