Venezia, la Restaurazione e il libro segreto di Chateaubriand
Caduta la Repubblica Venezia, è una città a prima vista politicamente sfibrata e senza speranza di poter recuperare lo straordinario prestigio che l’ha resa a lungo protagonista di tante vicende europee e mediterranee. La descrizione che dà Nievo di salotti che non capiscono più cosa stia accadendo al mondo e soccombono per insipienza all’urto culturale prima ancora che militare della Francia repubblicana, ne è forse il ritratto più feroce e preciso. Dopo un soggiorno piuttosto veloce e insignificante (1806) il Visconte François René de Chateaubriand vi ritorna a ventisette anni di distanza e cambia opinione su cosa sia questa città. Invecchia, il tempo in cui ha vissuto gli sta cadendo dalle spalle e ne coglie il disastro. “Ricadere da Napoleone e dall’Impero a ciò che li ha seguiti è come ricadere dalla realtà al nulla, dalla vetta di una montagna a un baratro. Non è finito tutto forse con Napoleone? […] come nominare Luigi XVIII al posto dell’imperatore? Arrossisco al pensiero di dover a questo punto farfugliare su una moltitudine di cui io stesso faccio parte, esseri esitanti e notturni di una scena il cui vasto sole si è dileguato”.
Ha una acuta consapevolezza della propria epoca, ha vissuto stagioni e ribaltamenti di fortune. Sono celebri la propria autodefinizione, che copriva tutti gli schieramenti politici del suo tempo: “monarchico per tradizione, legittimista per onore, aristocratico per costumi, repubblicano per buon senso”, e l’altra magnifica definizione di come si abitano i salotti politici che sarebbe piaciuta al Leopardi della “Palinodia a Gino Capponi”: “nella società democratica, basta che voi sproloquiate sulla libertà, la marcia del genere umano e l'avvenire delle cose, aggiungendo ai vostri discorsi qualche croce d'onore, e sarete sicuri del vostro posto; nella società aristocratica, giocate al whist, spacciate con aria grave e profonda luoghi comuni e frasi eleganti preparate prima, e la forma del vostro genio è assicurata”. Ma è consapevole anche del proprio personale crepuscolo e lo intreccia a quello della descrizione che dà di Venezia: “Venezia! I nostri destini sono stati simili! I miei sogni svaniscono man mano che i vostri palazzi crollano; le ore della mia primavera si sono offuscate, come gli arabeschi che ornano la cima dei vostri monumenti. […] gli anni, anziché rendermi savio, sono riusciti soltanto a scacciare la mia giovinezza esteriore, a farmela rientrare in seno”.
Ripubblicando le pagine di questo soggiorno veneziano, così interessante anche per il modo in cui viene nascosto nel suo percorso editoriale, Giandomenico Romanelli dedica un ampio saggio introduttivo (Dopo Napoleone. Venezia, la restaurazione e il libro segreto di Chauteaubriand, Wetlands, pp. 227, €20) che illustra i tanti protagonisti e le diverse interpretazioni della città che si dispiegano dalle brevi note del politico e scrittore francese. Da Silvio Pellico, e quindi dell’Italia risorgimentale, ai disegni per la città di Napoleone e degli austriaci, agli scorci che ci offre lo sguardo di Byron, soprattutto in Childe Harold, che inaugurano la visione romantica e decadente della città. Ma soprattutto ad Antonio Canova e Cicognara, a Isabella Teotochi Albrizzi, alla Benzoni, insomma a una città che per quanto sconfitta militarmente e sfinita, resta comunque una città che esercita un’attrattiva su tutti quelli che a lungo o occasionalmente la visitano.
Forse è proprio il modo in cui Chateaubriand cambia opinione e, dopo averne dato un giudizio superficiale e sprezzante nel primo viaggio, si abitua ai ritmi della città che divengono l’occasione per un tono che sembra sia per Chateaubriand che per Romanelli autobiografico. Così anche Romanelli, scrivendo di Chateaubriand, si avvicina a un’anima della città in cui ha ricoperto incarichi importanti con una voce che a sua volta ha venature sentite, personali. Può una città diventare una biografia? Vengono in mente le variazioni su Venezia che sono Le città invisibili di Italo Calvino, o i magnifici versi di Ezra Pound “E la bellezza di questa tua Venezia/m'hai rivelata/Che la sua grazia è divenuta in me/una cosa di lacrime”.
Mi ha detto mia figlia che quando sente dire ma come si fa a vivere a Venezia? Le viene in mente: ma come si fa a non vivere a Venezia? Per quello che c’è, e per quello che manca. Ogni pietra scolpita, ogni panno steso attraverso una calle, ogni sciabordio una storia. Certo ogni luogo ha un suo carattere e quello di Venezia è simile a un sogno. Se ne accorge Chateaubriand e Romanelli, pur non sottolineandolo, ci accompagna a capire come. Eppure i veneziani non sono cordiali con i turisti, non lo sono neanche nei Rusteghi di Carlo Goldoni. Una città nata da una fuga dai barbari, levantina e commerciale, ha spesso i tratti ostili di un aristocratico distacco.
Atteggiamento sempre ingiustificato ma oggi, che non ha nessun potere politico, dove persino la sua politica locale è finita a Mestre ed è quasi ostaggio di disegni che non la capiscono, questa altezzosità appare davvero fuori luogo. Ma non sono i veneziani a essere fuori luogo, anzi, alla fine come in Goldoni sono personaggi spesso bonari e solo esteriormente ostili, appunto come Sior Todaro o Pantalone; è piuttosto l’attesa di grazia e di lacrime di cui parla Pound, che viene nel camminarla a lungo, che si vorrebbe ritrovare nelle persone, e questo è ovviamente impossibile. Oggi che è spesso affollata di turisti, a volte guardo i visi sorridenti, incantati con cui guardano l’acqua e le pietre e mi chiedo: potrà Venezia mai essere all’altezza di questo sguardo? Cosa ci si attende? Come una donna o un uomo giovane e attraente, a cui ci si avvicina sperando in una maggiore vicinanza. Ma vicinanza a cosa? E perché? Possono i veneziani o gli abitanti di qualunque città esaudire questa speranza?
A Chateaubriand non fa piacere andare nei salotti e si incuriosisce piuttosto della Zenza, la secondina che accudisce Silvio Pellico e che l’autore francese riesce a scovare per farsi raccontare una storia ruvida e adulta, molto diversa da quella piuttosto sentimentale che appare in Le mie prigioni. È proprio in questi strani scorci, che sembrano aprirsi come campielli imprevisti in una camminata, che Venezia apre a Chateaubriand le prospettive che lo conciliano con la città. Socialmente, prima di tutto, perché non è tipo da accontentarsi di un salotto buono. Ha conosciuto tanti personaggi che ancora frequentiamo nelle letture, non ha bisogno di stupire o pavoneggiarsi.
Piuttosto è curioso perché attraverso le persone i luoghi acquistano una vita che non è solo il loro ritratto estetico o funzionale, ma la loro storia nel senso migliore del termine, dove si mescolano aneddoti e vicende personali, osservazioni che cercano di cogliere il carattere della città, ci fanno sentire a casa. Lo fa con le grandi pennellate disinvolte di cui sono capaci sia un politico che ha visto di tutto sia il suo interprete, Romanelli, che conosce a fondo e da sempre Venezia, gli ha dedicato lavoro e studi.
Inseguendo Chateaubriand, in una erudita carrellata dei personaggi del primo ottocento che si incrociano nelle pagine del Séjour che, nonostante il crollo della Repubblica, è ancora frequentata (e lo resterà fino a oggi) da scrittori e artisti, i due autori riescono a darci l’emozione di qualcosa che viene inseguito, cercato, e che si mostra in filigrana, con un qualche pudore. Cosa ci sia nel tramonto di un’epoca, nel sorgere di un mondo diverso che ci si immagina stia galoppando altrove, veloce e misterioso, e che scorre sullo sfondo di una città ricca di passato e presente, bella e viva per quello che oggi vi si svolge.