On the road / Via Emilia psichedelica

29 Giugno 2018

Il passato non esiste – si dice – siamo noi a ricrearlo. Sarà anche vero, ma di certo è esistito. E, alla fine, ci sono due modi per incontrarlo: far sì che entri nel nostro tempo, oppure andare noi verso di esso. Sono due metafore che disegnano itinerari simili solo in apparenza, in realtà opposti. 

Un passo di Walter Benjamin spiega in che cosa consista la prima direzione: “Il vero metodo per renderci presenti le cose è rappresentarcele nel nostro spazio (e non di rappresentare noi nel loro). (Così fa il collezionista e così anche l’aneddoto). Le cose, così rappresentate, non tollerano in nessun modo la mediazione ricavata da ‘ampi contesti’. È questo in verità (…) il caso anche della vista di grandi cose del passato – cattedrale di Chartres, tempio di Paestum: accogliere loro nel nostro spazio. Non siamo noi a trasferirci in loro, ma loro a entrare nella nostra vita”.

Siamo dunque davanti al contrario dell’abusato “viaggiare nel tempo”: è l’immanenza del passato nelle sue testimonianze materiali che impatta, per così dire, il nostro tempo e la nostra quotidianità; è a questo punto che il passato, lontano o lontanissimo che sia, rivela la sua fisionomia e, non di rado, la sua sostanziale alterità.

 

Il secondo possibile itinerario, il “viaggio nel tempo” appunto, è ampiamente rappresentato nella storia della comunicazione di massa, a cominciare dalla pubblicità; per la semplice ragione che è quello che ci viene più naturale: rappresentarci nello spazio degli uomini che ci hanno preceduto è un modo per parlare di noi, estendendo ad altri e ad altre epoche la nostra esperienza, l'unica che conosciamo veramente bene, l'unica che ci pare reale. 

In un messaggio pubblicitario del 1952 un giovane marito americano mangia in cucina, mentre la moglie gli prepara un piatto svuotando una lattina; tutti e due sorridono al signore imparruccato in abiti sei-settecenteschi che mangia seduto accanto all’uomo. Che sia un re, lo dichiara la scritta principale: “Today’s Americans eat better than yesterday’s royalty”. Solo in apparenza è “un reale di ieri” a scendere in cucina, in realtà è il presente che tinge di sé il passato.

 

 

Si possono conciliare questi due movimenti, possono convivere questi due diversi sguardi verso il passato? La mostra aperta fino al 1 luglio ai musei di Reggio Emilia – On the road, via Emilia 187 a.C.-2017, a cura di Luigi Malnati, Roberto Macellari ed Italo Rota – ha cercato di tenerli assieme; un esperimento potenzialmente pilota e per questo significativo. 

Gli organizzatori avevano davanti, bisogna ammetterlo, un compito difficile. Allestire un’esposizione su una via consolare dell’antica Roma e aprire su questo tema un dialogo col pubblico non è cosa ovvia, in tempi in cui le mostre richiamano grandi numeri se sono dedicate ai van Gogh, agli Impressionisti, ai Caravaggio, ai “capolavori”, agli “splendori”, ai “tesori”.

 

 

La strada intrapresa dai curatori è la coerente continuazione di quella che ha guidato per una decina d’anni il rinnovamento del museo civico reggiano [vedi i precedenti articoli su doppiozero: del sottoscritto e di Alessandra Sarchi]: “un allestimento di taglio spiccatamente contemporaneo”. Basta poco per capire che siamo davanti al solito, vecchio imperativo alla modernità (senonché “moderno” suona stantìo e allora va usato “contemporaneo”); come non è più di moda parlare di “attualità”, tanto che verrebbe da dire, parafrasando Henri Focillon: la contemporaneità è sfuggente, che cos’è in fondo la contemporaneità? Resta la fascinazione delle parole d’ordine: si legge nella guida di mostra che “la via Emilia è, dalla sua prima pietra, una strada contemporanea”.

Il tema con cui misurarsi va dunque al di là dell’ambito locale: la via Emilia, la grande arteria che il console Marco Emilio Lepido fondò verso la fine del III secolo a. C., una strada che congiungeva e congiunge Rimini a Piacenza. Una via il cui tracciato si è mantenuto sostanzialmente intatto per due millenni, tanto è vero che lungo il suo corso si susseguono i più importanti centri urbani della regione, tutti tranne Ravenna e Ferrara; centri fondati (o rifondati) in età romana.

 

 

Il visitatore di On the road viene accolto dal calco di un bassorilievo proveniente dalla Basilica Aemilia di Roma sovrastato dalla fronte di tempio (più o meno) dorico a quattro colonne; sull’architrave, retroilluminato, campeggia rossa la scritta AEMILIV’S (“da Aemiliu”); si immagina insomma un ristorante “da Emilio” sulla SS9 (la via Emilia appunto), un locale che potrebbe anche essere sulla Route 66 o su un’altra grande strada americana, on the road appunto (ma lì avrebbero scritto Aemilius’ o Aemilius’s).

Saliamo le scale ed ecco l’apertura vera e propria dell’esposizione. Accanto al titolo della mostra, a sinistra leggiamo un passo di Omero, “A volte i carri strisciavano sulla terra feconda …”; sono versi del XXII canto dell’Iliade, in cui gli Achei ingaggiano una gara durante i funerali di Patroclo: sono cocchi da guerra che si sfidano lungo una pista. Dalla parte opposta, invece, l’inizio di una canzone di Guccini, “Lunga e diritta correva la strada …”. Né la road di Kerouac, né i carri omerici, né l’autostrada di Guccini hanno a che fare con la via Emilia (c’è bisogno di dirlo?); a maggior ragione, a che cosa si deve la presenza di alcuni vasi attici del V sec. a. C. “con scene dell’epica omerica” (ma senza neppure i carri)? 

L’apertura è l’annuncio dello spirito della mostra, rimescolare senza problemi tempi e spazi, seguendo fili conduttori come quello del mezzo di trasporto. I carri da guerra di Omero non hanno mai sfilato sulla via Emilia; ma se l’obiettivo è montare uno spettacolo vanno benissimo, come del resto va bene Charlton Heston nel film Ben Hur (1959) come manifesto della mostra.

Al piano superiore, il grande corridoio ospita una serie di vetrine; ognuna contiene elaborate microarchitetture di legno (ben altra cosa rispetto alle tradizionali vetrine di derivazione, diciamo così, ottocentesca). In ognuno di questi complessi, piccoli teatri lignei, vanno a disporsi piccoli oggetti antichi, scritte, monitor. Ogni vetrina diviene il perno attorno a cui si sviluppano sette temi, quasi tutti legati a un luogo delle città antiche (il ponte, la locanda, il limite, la casa, le sepolture, il commercio, il foro).

 

 

Come vengono trattati questi temi? Nella prima vetrina c’è la pila di un ponte, su cui sono fissati una statuetta di Mercurio, una di amorino, amuleti fallici, una moneta; sotto al ponte, tra la sabbia, alcuni minuscoli frammenti, la ruotina (di un triciclo), il tappo di una bottiglia di plastica. In alto la scritta: “Fin che la barca va… lasciala andare”, la canzone di Orietta Berti.

Celebri hit della musica leggera emiliana sono infatti impresse su tutte le vetrine: “E poi ci troveremo ... al Roxy Bar" e “Certe notti…” (quella sulle locande), "Non ti potrò scordar casetta mia …" (la casa romana), "non piangerò mai sul denaro che spendo ..." per il commercio; e quindi Zucchero, Dalla, CCCP, Giuseppe Verdi (“Di quella pira…”), i Pooh... 

Il percorso delle vetrine si raccorda poi alle pareti, dove sono fissate grandi foto tratte da film peplum dagli anni ’50 in poi, e colorate alla Warhol; ciascun attore impersona un abitante della città romana, quelli che conosciamo tramite antiche iscrizioni su pietra. Ogni cartellone ne riporta il testo originale e in traduzione, mentre accanto viene invece scritta la “storia” del personaggio. Che i film peplum siano stati un elemento di mediazione tra la cultura di massa e il mondo classico è un’intuizione già sviluppata brillantemente in Tutto quello che sappiamo su Roma, l'abbiamo imparato a Hollywood di Luisa e Laura Cotta Ramosino, con Cristiano Dognini (Bruno Mondadori, 2004). 

Aveva dunque un senso, all’interno di una mostra in cui l’archeologia fa da sfondo, riparlare di peplum, ma per smontarne il meccanismo (il presente che si maschera da passato). Invece si fa il contrario: la “storia” che viene raccontata accanto a ciascun personaggio è, volutamente, di fantasia. Ecco che Marlon Brando diventa il decurione C. Iulius Valens, ma non quello vero, quello finto che avrebbe deciso la costruzione di un imponente ponte coi suoi colleghi di magistratura; una liberta (cioè una ex schiava) diventa la tenutaria di una locanda-bordello; un soldato viene ricollocato come agrimensore; e poi un accigliato Laurence Olivier, Bekim Fehmiu, Irene Papas, George Clooney che fa Marco Emilio Lepido.

 

 

Il linguaggio di queste “storie” d’invenzione ha un’aria più da anni ’50, che “contemporanea”: il “fiore degli anni”, i “luoghi sperduti, ricettacoli di belve ed uomini nefandi”, le “feroci genti barbare”, il “diletto sposo”, il “volto, chiaro e lucente come la luna, nel quale brillano due stelle verdi”, e – va da sé – “il nostro eterno amore”.

Tra queste narrazioni più hollywoodiane che padane, tra gli oggettini antichi che fanno da comprimari nelle vetrine, tra gli attori-icone dei film “spade e sandali”, i materiali antichi fanno da ospiti non troppo desiderati; e le stesse belle e attente ricostruzioni (un carro da trasporto antico, la tecnica costruttiva di una strada romana) vengono risucchiate nella sequenza generale, spettacolare e (volutamente) caotica. Ed è così anche per la pagina più efficace dell’intera mostra, il magnifico sinottico in cui si tenta di rendere graficamente la nervatura antica e moderna dell’intera regione Emilia.

Come si vede dalle prime battute della mostra, i percorsi sono due: quello degli archeologi e degli storici (l’antico che si affaccia sul nostro oggi nella sua potenziale, irriducibile diversità), e quello dell’allestimento (il presente che finge di “viaggiare” nel passato). Curatori e comitato scientifico hanno creduto, o hanno voluto credere, che i due itinerari potessero intrecciarsi senza condizionarsi, ma le cose non sono andate così: è il secondo a mettere di continuo in ombra il primo.

La ragione è semplice: non siamo davanti solo e tanto a “scelte espositive innovative”, ma alla traduzione concreta di una visione (non importa quanto consapevole e non importa se ancora poco organizzata come teoria): dato che ci muoviamo in un “eterno presente” (cito Guy Debord), si può pure concedere qualcosa alla storia e analizzarne qualche aspetto, ma quello che conta è suggerire analogie, offrire suggestioni, impressioni, piroettando su nessi logici e storici; un tempo si sarebbe usato il termine “fantasmagoria”, oggi va ancora bene “psichedelia” (parola usata da uno dei curatori). Eccoci nel dominio dell’indistinto, in cui tutto è in rapporto con tutto, e perciò con niente; ci si muove all’insegna del “tutto è contemporaneo” (niente altro che uno slogan).

Lo si vede a pochi metri dal sinottico: la centuriazione romana, il grande processo di trasformazione del paesaggio strettamente connesso alla via Emilia (e poi in tutta l’Italia del Nord e non solo) – viene evocata più che spiegata. Troppo banale una foto aerea delle campagne attorno a Carpi o Forlì? O è più chiara la scritta a caratteri cubitali sul pavimento: “RATIO PULCHERRIMA = COLONIA + AGER COLONIARIUS = HARMONIA”? Qui capiscono (qualcosa) solo gli addetti ai lavori; e a volte neanche quelli: ROAD + TOWNS + LEGIONS = LIMES. Ironizzare non serve a nulla.

 

Del resto come possono, i non addetti ai lavori, capire quale sia il ruolo dei volti (veri) di Gustave Eiffel, Frank Gehry, Kevin Lynch, Robert Venturi e altri ancora che troviamo a questo punto? La risposta è alla portata di tutti, e sempre a caratteri cubitali: LANDSCAPE, LANDART.

Dal ristorante “di Aemiliu” (sic) alla reverente celebrazione di architetti e di artisti di oggi: è probabile che i curatori non sentano alcuna frizione, che non avvertano l’irrisione (se non il disprezzo) espressi da tanti passaggi della mostra verso il modello culturale (per semplificare) umanistico; tanto è forte la convinzione che l’alleanza di ferro marketing-spettacolo debba essere il sistema operativo generale, valido per la pubblicità come per la cultura, per i social come per la politica. A proposito, la prossima fase della “valorizzazione” del nostro patrimonio archeologico e artistico percorrerà strade come questa, all’insegna di un’archeologia psichedelica?

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