Victor Stoichita: l’ombra dell’altro
Umbratile, ombroso. Se detti di un luogo indicano frescura, riparo dal caldo e dai raggi del sole, distensione. Se usati per una persona no, il significato di questi aggettivi diventa per lo più riprovevole: si tratterebbe di qualcuno che, amando l’ombra, appare triste, melanconico, spesso scontroso; certamente asociale, schivo. Sta al riparo dalla luce, da solo, e non vuole nessuno con sé. È come se l’ombra costituisse un muro, un recinto che, isolando maldestramente dagli altri, trasforma alla radice il carattere dell’individuo, la personalità, rendendolo suscettibile, irritabile, permaloso. Il soggetto ombroso trova rifugio, certo, ma per questo s’inguaia ancora di più.
Le metafore, sappiamo, non sono quasi mai innocenti; coltivano un retropensiero, magari del tutto casuale, e lo usano per proliferare, per conoscere alla loro maniera il mondo, offrendo, se non spiegazioni, elucubrazioni narrative, ipotesi valoriali. Come mai, allora, questo spostamento di senso dalla rasserenante frescura all’inquieta solitudine, a quella che, argutamente, gli psicanalisti chiamano perturbante estraneità? La risposta sembra ovvia – l’oscurità è infida, pericolosa, forse cattiva – ma non basta per chiudere la questione.
Non solo potremmo moltiplicare la domanda – perché mai il buio è disforico? – ma, peraltro, non siamo affatto certi che sia sufficiente ricondurre l’ombra e le sue metafore al mero fenomeno dell’oscurità. Non foss’altro perché l’ombra non è un dato ma un risultato, ovvero l’incontro del buio col suo opposto, la luce, e soprattutto con un terzo incomodo, quel qualcuno o qualcosa che – corporeo, materiale, compatto, pesante – impedisce il passaggio della luce proiettando dall’altro lato della fonte del bagliore una nerezza più o meno fitta. Ecco insomma un fenomeno fisico che, per mitismo diffuso, si fa meccanismo semiotico, articolazione complessa di un certo numero di attori non umani che rinvia, slittando e cambiando a ogni passo, a un’altrettanto intrecciata serie di significati umani e sociali. Un sistema di segni, insomma.
Lo dimostra con sagacia, intelligenza e immensa erudizione uno dei migliori storici dell’arte del nostro tempo, il rumeno Victor I. Stoichita, a lungo professore a Friburgo, nella sua Breve storia dell’ombra che Il Saggiatore ha appena riproposto in versione italiana (pp. 255, € 22). Autore di scritti importanti che scavano alla radice nel dispositivo occidentale della rappresentazione mimetica, artistica o meno (L’invenzione del quadro, L’effetto Pigmalione, L’ultimo carnevale, Cieli in cornice, L’invenzione dell’Altro), Stoichita è stato ed è, non a caso, un volenteroso fiancheggiatore della scienza della significazione: essendo convinto (insieme a Marin, Damisch, Fabbri, Calabrese, Arasse, Careri e tanti altri) che i quadri, le incisioni, le fotografie, le sculture, i fotogrammi, le immagini insomma, siano oggetti teorici, e cioè forme testuali che tengono coi propri specifici mezzi espressivi, di natura visiva, veri e propri discorsi, parlando di sé, del loro farsi, del loro relazionarsi al mondo, dei loro produttori e osservatori e così via. L’immagine pensa e dice in modi propri, tanto ricchi e complessi quanto non sovrapponibili a parole e frasi delle lingue verbali. E, tutto ciò, sin dalle sue origini storiche, e fors’anche preistoriche, dai suoi primi passi entro le prime società umane.
L’ombra, da questo punto di vista, è dispositivo originario. O, meglio, è sempre stato pensato, vissuto e interpretato come uno dei primi strumenti mediante cui l’uomo ha prodotto qualcosa come un’immagine rappresentativa, una cosa visiva che, prendendo le sembianze di qualcos’altro intorno a sé, sta al suo posto. E, così facendo, non soltanto ne fa a meno ma inizia a operare in vece sua, fa e fa fare, provoca ma anche subisce, venendo trattata per quel che non è ma si crede che sia. L’ombra non è il corpo che ostacola la luce, ma di esso riprende i contorni proiettandoli su pareti o selciati, schermi, mura, facciate, tele. L’ombra ha del corpo, dunque, una proprietà molto precisa, la sagoma, e, pur mancando di tutto il resto, a iniziare proprio dalla corporeità, dalla pesantezza materiale, finisce per significarlo alla riversa. Segno negativo, insomma, che secondo molti teorici (da Platone a Plinio il vecchio, da Vasari a Cennini etc.) starebbe alle origini della pittura, del gesto di voler riprodurre un oggetto ridisegnandone i bordi su un qualche supporto. L’immagine nasce cioè, per esempio secondo la Naturalis Historia, da una duplice rappresentazione – l’ombra dell’oggetto proiettata sulla parete, la mano che la ricalca rendendola duratura –, cui seguirà poco a poco una terza operazione mimetica, quella del riempire l’ombra alla ricerca di un qualche volume, facendo del chiaroscuro (e cioè dell’incontro ancestrale tra luce e buio) il linguaggio basilare d’ogni produzione di immagine.
Così, con grande arguzia, Stoichita accosta il racconto di Plinio (e con esso le innumerevoli figure che nella storia dell’arte si sono prese il carico di visualizzarlo) a quel passo della Repubblica platonica in cui – venti o trenta righe al massimo – viene fuori il celeberrimo mito della caverna. Laddove il naturalista latino dice della nascita dell’arte, il filosofo greco si preoccupa di quella della conoscenza. Ma entrambi passano per l’ombra, per questo dispositivo generatore di innumerevoli storie, leggende, allegorie, parabole, miti appunto. Per Plinio l’ombra ha un che di magico, quasi rituale, orientaleggiante, come quando da essa fuoriesce il ritratto dell’amato che, partendo, s’era smarrito per sempre. Platone, tenendo a mente questa leggenda, insiste a sua volta sul fatto che le immagini cui essa dà luogo sono imitazioni di imitazioni che, però, decine di schiavi incatenati (gli ignorantoni) comunque credono vere. Come dire che l’ombra dell’amante è la fugace presentificazione di un’assenza duratura.
A un certo punto tuttavia, osserva Stoichita, questo meccanismo originario viene a perdersi, o quanto meno a ritirarsi in secondo piano, sostituito da quello, ben più noto, della riflessione: dal momento che, come è ovvio, quest’ultima non rimanda solo contorni ma anche volumi. E arriva quello stupidone di Narciso che, non capendo d’esser lui il personaggio riflesso nello specchio d’acqua, ci casca dentro per sempre. Come dire che nessuno è così poco narcisista quanto Narciso, come ricorda Ovidio nelle Metamorfosi e come sanno bene quei pittori che, dovendo rappresentare visivamente il fattaccio, non disegnano il riflesso dell’eroe (che più nitido sarebbe stato) ma la sua ombra (per giunta sfocata). Come dire che la fase dell’ombra è una specie di palinsesto di quella dello specchio, cosa che Lacan a suo modo aveva intuito. Se l’ombra si incarica in vari modi di porre il problema dell’alterità, lo specchio si intestardisce invece su quello della identità. La dialettica tra i due dispositivi è costitutiva.
Insomma, a dispetto dei pochissimi scientifici lavori su questo tema (segnaliamo un libretto di Ernst Gombrich, curiosamente assente nelle fitte note di Stoichita), l’ombra (proiettata, portata, integrata, incorporata…) non è un motivo pittorico come qualsiasi altro poiché funziona nella storia dell’arte e dell’estetica – per dirla con gli epistemologi – come un vero e proprio esperimento mentale. Sia essa ombra dei personaggi rappresentati (molto spesso statuette che ricordano quelle dell’antro platonico), di oggetti di sfondo, del pittore al lavoro (dunque della mano e del pennello), di qualcosa che nel quadro non c’è (poiché fuori cornice); oppure ombre proiettate e ricalcate, distorte e ingigantite, ripetute o deformate, ferme o in movimento, dall’antica ceramica greca fino a De Chirico e la metafisica, Warhol e la pop art, Courbet e Beuys, passando per Monet e Picasso, Poussin e Kersetz, Man Ray e Brancusi, come anche da Walt Disney e molta pubblicità, nel gioco fra materiale e immateriale, presenza e assenza, visibile e invisibile, quel che emerge sempre e comunque è l’idea di un’alterità possibile di cui non si ha piena contezza, se non, paradosso costitutivo, la sensazione ha a che vedere proprio con noi stessi. E non è affatto una condizione pacifica.
Torna così, al fondo, l’idea del perturbante su cui Freud, gran lettore dei romantici, ha a lungo insistito. Questo perché l’ombra, pur nella sua assoluta visibilità, per quanto in negativo, dal Seicento in poi finisce per diventare il segno di una tripla distanza, di ordine geografico, storico e culturale: qualcosa che ha a che vedere con altri paesi, altre epoche, altre antropologie. Ancora una volta i pittori, pur riproponendo le solite canoniche scene (l’origine della pittura, il pittore al lavoro, i simulacri di Pigmalione e simili) finiscono per disegnare coi contorni dell’ombra una strana figura: quella del demonio, per giunta in attività, con tanto di zoccoli e di corna.
L’ombra è inferno, la luce paradiso (e già Dante, come si ricorderà, entrando in Purgatorio s’accorge come Virgilio, su cui pure batte il sole, non produca ombra). È tutto un proliferare di automi, bambole, burattini, manichini malefici che materializzano ognuno a suo modo la negatività, il rimorso, il peccato, il desiderio mal tenuto sotto controllo. E che va a formare, sans le savoir, il meccanismo semantico di una metafora: essere umbratili. Pensiamoci quando vantiamo la nostra immensa sensibilità, la nostra spocchiosa suscettibilità. Ombrosi sì, ma con un po’ d’ironia.