1930-2020 / Vittorio Spinazzola: maestro
Spinazzola si chiamava Vittorio, sia all’anagrafe, sia sulle copertine dei tanti libri che ha scritto; ma tutti coloro che avevano confidenza con lui lo chiamavano Mario. Noi, suoi allievi, lo chiamavamo «maestro». Sulle ragioni per cui è stato davvero un maestro ci si potrebbe soffermare a lungo; mi limiterò a dire qualcosa più avanti. Prima conviene fare alcune considerazioni di carattere generale. Spinazzola avrebbe compiuto 90 anni fra poche settimane. Una vita lunga, operosa, che lascia alla cultura italiana un’eredità importante. Innanzi tutto, un orizzonte di riflessione: il ruolo del pubblico nella letteratura.
Spinazzola apparteneva a una generazione che per ovvie ragioni storiche si è impegnata a interrogarsi sul rapporto fra letteratura e società. Molto si è scritto, non solo in Italia, sulla capacità delle opere letterarie di rappresentare il reale e sui procedimenti attivati per restituire immagini significative del mondo. Lo stesso Spinazzola ha contribuito a questa riflessione. Ma il suo tratto distintivo è consistito nello spostamento dell’attenzione sulla dimensione pragmatica, anziché su quella simbolica o semiotica, in un’ottica funzionalistica che raccoglieva e sviluppava le lezioni di Jan Mukařovský, di Antonio Gramsci, del Sartre di Che cos’è la letteratura?. Di qui il rilievo attribuito – o meglio, riconosciuto – alla presenza dei lettori: il rapporto fra letteratura e società si esplica in primo luogo nell’attività della lettura. Sulle motivazioni, le dinamiche, il ‘lavoro’ della lettura, su quella che il Manzoni aveva chiamato, con geniale intuizione, la «fatica» di leggere, Spinazzola ha scritto pagine che costituiscono una pietra angolare della riflessione teorica contemporanea, non meno dei contributi sulla ricezione del già citato Mukařovský, di Hans-Robert Jauss, di Wolfgang Iser (ciascuno, va da sé, declinato in maniera peculiare, secondo parabole intellettuali diverse caso per caso).
E non credo di fare della psicologia d’accatto dicendo che alla base di questo interesse per la figura dei destinatari ci fosse un temperamento schivo, introverso, poco comunicativo, e quindi nell’intimo assai sensibile all’esigenza di comunicare e alla difficoltà di farlo.
Oltre a pubblicare volumi dai titoli auto-evidenti, come Critica della lettura (Editori Riuniti, 1992), La democrazia letteraria (Il Saggiatore-Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2001), L’esperienza della lettura (Unicopli, 2010), Spinazzola ha operato in questo campo dando vita a due serie di annuari (intorno ai quali è cresciuta la sua scuola): dapprima i dieci numeri di Pubblico, editi prima dal Saggiatore poi da Milano Libri, fra il 1977 e il 1987, quindi Tirature, avviato nel ’91 con Einaudi, proseguito per qualche anno con Baldini & Castoldi, e dal ’98 in poi incardinato presso il Saggiatore-Fondazione Mondadori. L’interesse per la funzione dei destinatari si è con il tempo infatti allargato, investendo il campo della mediazione editoriale: un aspetto ovviamente decisivo nel mondo moderno, ma a lungo ignorato dagli studi letterari. Spesso gli uomini di lettere, specie gli accademici, sono un po’ lenti a prendere atto di quello che accade ‘là fuori’; tanto per fare un esempio, chi si prendesse la briga di verificare quando è stato davvero abbandonato il vecchio uso di registrare nelle bibliografie la sola indicazione del luogo di edizione, ignorando signorilmente il nome della casa editrice, avrebbe – credo – delle sorprese.
Quanto ho detto fin qui è abbastanza noto. E tuttavia c’è un equivoco che bisognerebbe una volta per tutte dissipare. Capita ancora di sentire dalle labbra di studiosi di letteratura – anche valenti, e stimabili – l’idea che Spinazzola sia soprattutto un sociologo della letteratura, cioè qualcuno che si occupa della letteratura come fenomeno sociale più che estetico, senza entrare nel merito della configurazione formale dei testi, dei connotati stilistici, dei giudizi di valore. Niente di più falso. Primo perché, in linea di principio – teste il già citato Mukařovský – tutto quanto ha che vedere con l’estetica (funzioni, norme e valori, per parafrasare il titolo di un celebre saggio) pertiene alla dimensione sociale. Secondo, perché se c’è un punto su cui Spinazzola dissente dal «suo» Gramsci, è l’idea che i lettori popolari siano inclini a badare ai contenuti più che alla forma, quando in realtà è vero quasi l’esatto contrario. Terzo, perché nella sua prassi critica Spinazzola riserva sempre un’attenzione assai vigile ai fatti stilistici. Provate ad esempio a leggere il capitolo sul Meneghello di Libera nos a malo incluso in Itaca, addio (Il Saggiatore, 2001), magari confrontandolo con altre voci della bibliografia critica meneghelliana al di sopra di ogni sospetto; e poi ne ragioniamo.
Vero è che Spinazzola si è dedicato a lungo a quella che un tempo si usava chiamare, con termine sintomaticamente improprio, «paraletteratura», cioè alla produzione letteraria destinata a un pubblico largo e culturalmente poco attrezzato, così come alla letteratura (narrativa, essenzialmente) di successo. Sull’utilità di applicare gli strumenti dell’analisi letteraria anche a testi che non incontrano i favori dei lettori più colti non credo sia necessario spendere molte parole. Vorrei però soffermarmi su un aspetto dell’insegnamento di Spinazzola che ritengo decisivo. Quando un romanzo incontra un grande favore di pubblico, ebbene, lì c’è qualcosa da capire, c’è una questione critica da affrontare, a volte un enigma da risolvere. Dare risposte spicce, sommarie e stereotipe, come troppo spesso i letterati tendono tuttora a fare, significa peccare di superficialità e presunzione. Di libri di valore mediocre o modesto se ne pubblicano tanti, ma solo alcuni hanno successo; perché questo accada, è compito della critica chiarirlo (di chi, se no?). Del resto, se fosse facile prevedere i gusti del grande pubblico, fare l’editore sarebbe il mestiere più comodo e remunerativo del mondo: cosa che, con ogni evidenza, non corrisponde a verità.
Se una parte cospicua dell’attività critica di Spinazzola è rivolta alle zone (per dir così) di frontiera del campo letterario, dalla narrativa di genere (come il romanzo rosa) ai classici della letteratura per ragazzi (Pinocchio & C., Il Saggiatore, 1997), dalla letteratura umoristica (L’immaginazione divertente, Rizzoli, 1995) alle forme miste come il fumetto (non a caso all’inizio della sua carriera, negli anni Sessanta, si era occupato a lungo di cinema), fondamentali sono i suoi contributi su autori canonici, a cominciare da Manzoni (Il libro per tutti. Saggio sui Promessi sposi, Editori Riuniti, 1993), Federico De Roberto, Emilio De Marchi, per comprendere quasi tutti i maggiori narratori del Novecento, da Calvino a Bassani, da Carlo Levi a Elsa Morante. Esemplari vanno poi considerati i volumi che contemperano approfondimento monografico e apertura a prospettive storico-culturali più vaste, come il già citato Itaca, addio sui «romanzi del ritorno» (Meneghello, il Vittorini di Conversazione in Sicilia, il Pavese della Luna e i falò) o Il romanzo antistorico, Editori Riuniti, 1990 (su De Roberto, Lampedusa, il Pirandello dei Vecchi e i giovani, Il giorno del giudizio di Salvatore Satta); o come la più recente raccolta L’egemonia del romanzo (Il Saggiatore-Fondazione Mondadori, 2007), che fornisce un quadro complesso e articolato del sistema letterario del secondo Novecento.
Questo discorso sta sfumando, mi rendo conto, nel regesto bibliografico, anche se numerosi sono i titoli che si potrebbero aggiungere, e le considerazioni d’ordine prospettico che se ne potrebbero ricavare. Ad esempio, certe apparenti predilezioni geografiche: oltre a Milano e alla Lombardia, la Sicilia e la Sardegna. A questo proposito va ricordato che Spinazzola è stato anche un attento studioso di Grazia Deledda, oltre che del già citato Satta (autore molto apprezzato anche da un altro grande studioso mancato in questi giorni, di tempra che più diversa sarebbe arduo immaginare, George Steiner). Più in generale, Spinazzola ha incarnato una figura di studioso insieme rigoroso e spregiudicato, del tutto alieno dalle tendenze elitarie, aristocratiche, antimoderne e difensive così diffuse nella tradizione letteraria italiana, e non di rado rinverdite dalla stessa cultura di sinistra. La posizione che prese all’epoca della polemica sulla Storia della Morante, da questo punto di vista, è oltremodo istruttiva.
Ma oltre a questo Spinazzola è stato anche, nel senso più pieno della parola, quello che si usa definire un maestro. E qui non posso non fare riferimento alla mia personale esperienza, che peraltro so essere condivisa da tanti, amici prima che colleghi (amici tuttora: cosa non scontata, che pure va in massima parte a suo merito), contemporaneisti in attività, incluso uno storico del cinema che ora è Rettore di un ateneo e l’attuale direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Spinazzola era, in primo luogo, un ascoltatore attento e un lettore solerte e partecipe. Le sue osservazioni sulle pagine che gli facevo leggere – e per molto tempo gli ho fatto leggere pressoché tutto quello che scrivevo – erano sempre acute, spesso rivelatrici. Perché questo è il punto: il suo atteggiamento nei confronti degli allievi era innanzi tutto di rispetto per gli orientamenti e i gusti di ciascuno. Se sul rigore del metodo non transigeva, sulle scelte dei temi di ricerca era quanto mai aperto: il suo modo di interpretare il ruolo che gli competeva mirava a far sì che i giovani esprimessero al meglio le proprie personali potenzialità. Al tempo stesso, li coinvolgeva nelle riflessioni che veniva svolgendo, sul piano teorico e critico, trasmettendo senza alcun artificio didattico il senso di un impegno intellettuale profondamente vissuto, che univa alla serietà e sincerità degli intenti una sorridente, impareggiabile ironia. Così è avvenuto, nell’ultimo quarto del secolo XX, che un seminario per laureandi diventasse un seminario di laureati, poi un gruppo di lavoro, e infine una scuola. E così è avvenuto che spontaneamente cominciassimo a chiamarlo «maestro». Non so di preciso chi e quando abbia cominciato. So che continueremo a chiamarlo così, perché questo è stato: con la serena semplicità di chi non se l’era proposto, ma non ha mancato di rimanere tale, fino alla fine.