2013 - 2023: Enzo Jannacci, l'eco di una voce
Chissà come avrebbe raccontato questi dieci anni Enzo Jannacci, scomparso il 29 marzo del 2013. Scomparso è la parola giusta, perché è facile immaginarsi che Jannacci non sia morto, ma semplicemente vaghi sperso per le strade di Milano, fermandosi ogni tanto a un crocicchio con il suo immancabile impermeabile, magari a parlare con un semaforo, come nel libro scritto insieme al figlio Paolo.
Potessimo ancora appoggiarci al suo sguardo sghembo, alla sua natura ibrida di medico e “poetastro”, come amava definirsi, per leggere questa nostra realtà sempre più indecifrabile e imprevedibile. Chissà cosa avrebbe detto della sua Milano, quella dei barboni – anche se ormai nessuno li chiama più così – che continuano a morire per strada (almeno cinque negli ultimi mesi), proprio come quel povero cristo romantico, con le scarpe da tennis ai piedi, che voleva solo andare all'Idroscalo. Ma anche la città dei ricchi, dei quartieri gentrificati e degli influencer, lui che negli ultimi anni aveva puntato il dito con forza contro i nuovi potenti prepotenti e arroganti, con in tasca la pistola e la merda al posto del cervello (dixit in Come gli aeroplani del 2001). E chissà come avrebbe commentato la feroce indifferenza con cui in questi giorni terribili vengono trattati i poveri e i migranti, anche da morti, perché in fondo sono loro che se la sono cercata, salendo col mare grosso su barche così precarie: se ce lo dicevano prima li avvisavamo di non partire proprio, una telefonata e via, tutto risolto.
Ma soprattutto, chissà come avrebbe raccontato Jannacci la pandemia, la paura di quei giorni di silenzio e sirene, le bare e il collasso degli ospedali, ma anche il paradosso di una medicina territoriale che da quella tempesta è stata lasciata colpevolmente in affanno e indebolita. Medico, del resto, Jannacci lo era fino in fondo: chirurgo infantile di alto livello formatosi in Sudafrica e Stati Uniti – dove era fuggito a fine anni ‘60, in auto-esilio dopo la censura RAI, e dove ebbe modo di lavorare con i pionieri dei trapianti Thomas Starlz e Christiaan Barnard – e insieme dottore della mutua e di trincea nell’inferno del Pronto Soccorso. È qui che sperimenta la contraddizione insanabile tra la sofferenza nuda dei malati e l'arroganza mimetica del potere ospedaliero, contraddizione che riesce a rappresentare, esempio unico nella canzone italiana, in una delle sue composizioni più originali: Natalia. Un brano del 1979, che canta di una bimba cardiopatica nel castello kafkiano della sanità italiana.
Natalia, Natalia, Natalia
Natalia che hai solo sette anni e fai la figlia di ferroviere
proprio quello al quale il professore di Torino
ha chiesto venti milioni
ben sapendo che male che vada c'è sempre la colletta
e siamo bei freschi di tasse
è tutto Natalia
Natalia che hai capito che all'ospedale di Milano
sei la numero trentotto giù in lista di attesa
Natalia con la valvola nel cuore messa dalla parte sbagliata
già ma queste son cose che la canzone non dice mai, mah
Come ha notato il poeta Umberto Fiori, attento studioso della parola cantata, qui Jannacci porta all’estremo il carattere di parodia proprio della forma-canzone, scardinando i rapporti canonici tra testo e musica. Se per tutta la prima parte del brano la musica è praticamente assente e in primo piano c’è solo la voce di Jannacci (in sottofondo, significativamente, i bip cadenzati degli strumenti della sala operatoria), nella seconda parte si viene catapultati senza soluzione di continuità in una caricatura folk, con chitarra ritmica, riff country e per accumulazione successiva basso, batteria e persino coretto e armonica a bocca.
“Nella seconda parte la rigida, sclerotica organizzazione della musica cede sotto il peso e l’ingombro di un testo che, all’opposto, sfugge da ogni parte.” – scrive Fiori – “più che poesia è prosa, anzi decisamente discorso parlato, che però subisce inevitabilmente uno scarto dovuto al fatto che viene cantato. L’effetto è un po’ quello dei racconti che i bambini improvvisano su poche note e su un libero flusso di parole, ma nella canzone di Jannacci l’effetto di straniamento è molto maggiore, data la distanza incolmabile, la clamorosa sproporzione tra musica e testo.”
Ecco, questa sproporzione ci porta al cuore della questione: la voce di Jannacci. Perché in Jannacci – come del resto in qualsiasi artista che s’esprime attraverso il corpo, ma quando si parla di canzone d’autore a prevalere è sempre e solo il “contenuto” – la voce è ciò che rende visibile l’invisibile, ciò che dà sostanza alla fragilissima e miracolosa relazione che permette di tenere insieme musica, testo e punto di vista drammatico, nel senso di quel che la canzone mette in scena.
La sua voce, così poco educata e impostata, miracolosamente in bilico sul filo della disarmonia, è la prima cosa a cui inevitabilmente si pensa quando si pensa a Enzo Jannacci. Personalmente ricordo il felice straniamento che da bambino mi comunicava quella voce, insieme chioccia, calda e stridula, che echeggiava nello stereo, quando mio padre metteva uno dei suoi dischi. Fosse una struggente canzone in milanese, o il racconto malinconicamente ironico di un soldato terrone nella fredda Alessandria, o le grida strozzate dello sfortunato avanguardista ladro di polli – che ignaro mette le mani su un'aquila reale (simbolo del regime fascista) –, in tutti i casi era la voce di Jannacci il filo magico che legava insieme queste caleidoscopiche situazioni. Quella voce era la prova dell’esistenza di quel geniale artista, geniale perché fuori dall’ordinario, era la maschera duttile che, tra risate e drammi, Jannacci portava sempre con incredibile naturalezza.
E non c’è dubbio che Jannacci – proprio per questo suo inconfondibile marchio di fabbrica – è il cantante-autore che ha saputo usare la più ricca palette di registri e modi espressivi: dal comico al patetico, dal nonsense all’impegnato, dal popolare al raffinato, dal gergale al lirico. Basti pensare alla gamma di personaggi messi in scena nelle sue canzoni. In Jannacci troviamo gruisti, telegrafisti, operai in catena di montaggio, ladri e pali, barboni, pendolari, imperatori, re, vescovi, contadini e preti del basso medioevo, cani con i capelli, tassisti, pittori di strada, soldati e ufficiali, fino agli stessi cantautori (“Poveri cantautori, sempre troppe parole nelle loro canzoni”). E naturalmente Vincenzina, colta e fermata per sempre da Jannacci nell’istante di incertezza quotidiana all’apertura dei cancelli della fabbrica, operaia col foulard in attesa d’entrare nel ventre dell’industria, in quel pianeta pulito e alienante (“la vita giù in fabbrica non c’è, se c’è, com’è?”).
Del resto, la presenza fisica di Jannacci sulla scena si giocava su tre registri che oltre la parola e la musica chiamavano in causa la mimica corporea. Ed era questo insieme che rendeva così dirompente e sconveniente la presenza di Jannacci nei teleschermi dell’Italia del boom. Provocavano sconcerto le posture sgangherate, l’agitarsi da marionetta, la chitarra imbracciata all’altezza del collo, la sua voce spaesata in confronto alla sobrietà e alla decenza della maggior parte degli interpreti da canzonetta. Fin dalle prime canzoni Jannacci mostra, anzi si potrebbe dire incarna, l’evidenza che la marginalità sociale e psicologica era irriducibile al progetto lindo e rassicurante del miracolo economico. Il contenuto politico delle sue canzoni, a partire da quelle scritte con Dario Fo, era rappresentato senza bisogno di mediazioni ideologiche. Questa incarnazione così diretta e immediata era certamente rivoluzionaria e di conseguenza censurabile, nel contesto rigido e occhiuto della RAI di quegli anni, come infatti avverrà con Ho visto un re nel 1968; ma, a ben vedere, lo è anche oggi, rispetto alla posa calcolatamente provocante vista a Sanremo.
Sulle capacità musicali di Jannacci non servono molte parole. Basta riconoscere la sapienza con cui metteva insieme la solida formazione del Conservatorio (nel quale si diplomò nel 1954 in armonia, composizione e direzione d’orchestra), la gavetta di razza con giganti del jazz come Bud Powell – conosciuto a Parigi negli anni cinquanta, il grande pianista gli insegnò l'utilità di esercitarsi sulla mano sinistra, tenendo legata quella destra – e la curiosità con cui approcciava strumenti e linguaggi, assimilando con naturalezza nuovi stili. È il caso in particolare delle composizioni a cavallo degli anni settanta, quando Jannacci tornato in Italia lascia la Ricordi e pubblica alcuni dischi, in piena libertà creativa, con l’Ultima Spiaggia (casa discografica fondata da Nanni Ricordi). Questo periodo sperimentale arriva fino all’album Ci vuole orecchio del 1980. È contenuta in questo disco una canzone poco nota, ma che rappresenta appieno quanto detto sino ad ora.
Si vede sull’unico spiazzo semi-erboso che c’è rimasto nel mio rione,
dalla ringhiera del garage, si vede una 500, brutta,
di un colore citrino, ancora più brutta per i riflessi
che oggi le dà il cielo, non allineata, chissà perché.
Si vede una processione di calze e mutande, ma lavate,
si vede la gru che oscilla verso me, chissà perché si è fermata.
Si vede la sterpaglia muoversi
sussultare, quando la pioggia picchia più forte,
chissà se le fa male, chissà se le fa male.
Si vede un uomo, appoggiato al balcone, togliersi il mozzicone,
buttarlo fuori, ma male, chissà cosa pensa,
mah, penserà poi se è vero che fumare fa male.
Ed è già tardi e sei sempre in
ritardo e mi vieni incontro con un ombrello
che non è quello che ti ho regalato io.
Anche da lontano si vede,
anche da lontano si vede,
anche da lontano si vede che
non mi vuoi più bene.
Sul piano della scrittura, Si vede è un esempio emblematico della capacità di Jannacci di rappresentare quel paesaggio interstiziale della periferia metropolitana, insieme umano e materiale. In una sorta di lungo piano-sequenza cinematografico Jannacci arriva a mettere a fuoco, nell’ultima parte della canzone, il cuore narrativo della messa in scena, portando finalmente in primo piano l’oggetto transizionale in mano alla ragazza, l’interlocutore fino ad allora nascosto della canzone, svelando quindi contemporaneamente il punto di vista del narrante. Il giro armonico in Re minore crea un andamento ciclico di caduta, fino al climax della modulazione in Sol – che viene introdotta con l’emergere del primo personaggio umano: l’uomo che fuma sul balcone. Tutto questo è sostenuto da un notevole arrangiamento progressive e dall’interpretazione di Jannacci, che sovvertendo le regole adagia il testo scritto alle esigenze ritmiche, accentuando artificiosamente le sillabe finali di ogni verso.
Jannacci se n’è andato da dieci anni, ma la sua presenza è più forte che mai. Omaggi e riconoscimenti continuano ad arrivare anche dai colleghi cantautori. Francesco De Gregori, ad esempio, apparentemente lontanissimo dal mondo antropologico di Jannacci, non perde occasione per indicarlo come uno dei padri fondatori della canzone italiana. E anche Guccini, che per superare la ritrosia di un nuovo album da studio ha scelto con coraggio di reinterpretare canzoni poco note al grande pubblico, in Canzoni da intorto (2022) ha inserito ben tre pezzi riconducibili al cantante milanese: Ma mi di Strehler e Fiorenzo Carpi, Quella cosa in Lombardia (testo di Fortini, musica sempre di Carpi) e la struggente Sei minuti all’alba, dove Jannacci impasta le memorie del padre aviatore antifascista nella storia di un partigiano che in carcere aspetta le prime luci del giorno per essere fucilato.
D’altronde, tutto ciò che passava da Jannacci ne usciva irrimediabilmente trasformato. È il caso di Via del campo, canzone notissima di Fabrizio De Andrè pubblicata nel 1967 dal cantautore genovese e che Jannacci fa sua, in una struggente interpretazione. Non tutti sanno, però, che il pattern melodico di Via del campo De André l’aveva preso proprio da Jannacci, in particolare da La mia morosa la va alla fonte, una canzone simil-popolare scritta con Dario Fo nel 1964. E qui il cerchio si chiude.
La mia morosa la va alla fonte
Via del campo