Al di qua e al di là degli schermi

16 Settembre 2024

Se avete imparato con l’isolamento per il Covid a usare il computer per collegarvi con parenti e amici; se siete di quelli che passano svariate ore davanti allo schermo del computer; se avete dello schermo un’idea di superficie di proiezione; se avete guardato con scetticismo la scomparsa dello schermo nella immersività e come fantascienza prematura aggeggi come i Google glass e la skinput technolgy; e ancora: se nelle vostre letture avete visto con sospetto espressioni come “quasi-oggetto” o “quasi-soggetto”, considerandole forme di imbarazzo ontologico, avete sottovalutato il cambiamento sopravvenuto nelle funzioni degli schermi e i suoi effetti e il libro di Mauro Carbone e Graziano Lingua Antropologia degli schermi (Luiss University Press, Roma 2024) vi è necessario. 

Il libro tira le fila di una ricerca pluridecennale. La chiave è indicata nel titolo: il passaggio dagli screen studies a una antropologia degli schermi. È un passaggio determinante e, variato secondo le differenze, comune ormai a molti ambiti di studio. Significa non considerare l’oggetto di analisi in sé ma sempre in rapporto all’uso che ne facciamo, alle esperienze a cui ci espone, alla posizione in cui ci mette; significa considerare a loro volta oggetto, uso, esperienze, posizione come poli non di una azione unidirezionale ma di una interazione. La conseguenza macroscopica è che cambia la concezione dell’oggetto, non più visto come a funzione unica – la proiezione, dicevamo, per lo schermo – ma multifunzionale e dialettica. È quanto indica il sottotitolo del volume, apparentemente criptico, invece fulcro dell’argomentazione degli autori: “Mostrare e nascondere, esporre e proteggere”, cioè non l’uno senza l’altro: lo schermo non mostra senza nascondere qualcos’altro, mentre espone, e ci e si espone, protegge, secondo il doppio significato del termine anche dal dizionario. I quattro verbi sono da porre sui vertici di un quadrato i cui lati e diagonali disegnano i loro rapporti e intrecci. 

Questo quadrato metodologico è importante prima di tutto, avvertono gli autori, per far uscire lo schermo dalla dimensione puramente visuale e farlo entrare in quella mediale, sia nel senso della mediazione del nostro complessivo rapporto corporeo con l’ambiente, sia nel senso del suo carattere non di pura superficie ma di interfaccia, e non solo di interfaccia ma anche di protesi, altro termine che entra in dialettica “quadrata”, se così possiamo chiamarla a questo punto, invece che triangolare, con il corpo, il soggetto e l’oggetto. La tecnologia infatti ha operato un ulteriore cambiamento passando dal suo essere protesi del corpo al fare del corpo stesso a sua volta una protesi necessaria per il suo funzionamento. Ecco i Google glass e la skinput technolgy, dove è il corpo stesso, l’occhio, la pelle, a diventare schermo-protesi della tecnologia. Lo stesso vale – e questo ci ricollega allo spunto di partenza dell’isolamento da Covid – per la tecnologia della comunicazione e per le applicazioni, non pure estensioni di una funzione già esistente, ma trasformazione che cambia i ruoli e la natura stessa degli elementi in gioco.

È l’impostazione di base: ciò che è in atto va guardato nei suoi aspetti di cambiamento, rispetto ai quali dobbiamo saper elaborare un pensiero rinnovato, sia per affrontarne i pericoli – e ce ne sono, tutti sanno quanti e la loro gravità: perdita di alcuni aspetti dei rapporti umani, controllo, sfruttamento a fini commerciali, persuasione, falsificazione, finalità politiche – sia per mettere in azione risposte, comportamenti resilienti, controffensivi, virtuosi.

Perché, se così è, non reggono più le categorie tradizionali, perfino quelle radicatamente filosofiche, come soggetto e oggetto in primis. Siamo infatti qui di fronte a situazioni e condizioni di mezzo e di diversità che inducono a usare, eccone il senso, espressioni quali “quasi-oggetti” e “quasi-soggetti” – come già di “quasi-protesi” nel rovesciamento appena descritto –, dove il “quasi-” sta a indicare lo statuto di mediatori che questi termini assumono, statuto particolare perché all’interno di relazioni – per esempio tra organico e inorganico, umano e non-umano – in cui il primo termine tende a perdere la propria centralità a favore del secondo.

Carbone e Lingua svolgono a 360 gradi il portato dell’antropologizzazione. A proposito, prima di tirare le fila, gli autori non parlano più di schermo ma di “archi-schermo”, proprio per sottrarre alla nozione di schermo il suo statuto di pura visibilità e farne un dispositivo, una struttura, una funzione; quindi ricostruiscono scrupolosamente, ad ogni passo rielaborando in base al loro nuovo metodo di approccio, la genealogia dello schermo, del termine, dell’oggetto, delle funzioni, degli studi, nonché, naturalmente, l’aggiornamento alle vicende e alle implicazioni degli ultimi sviluppi appunto tecnologici. Questo, come anticipato, fa del libro (anche) un compendio che va ben oltre l’ambito disciplinare.

Chi come me si occupa di arte contemporanea, estetica e ambiti affini, aveva già incontrato recentemente una sintesi illuminante di Carbone sull’argomento in un utilissimo volume collettivo che lo inquadrava proprio in quel contesto, ovvero Studiare le immagini, curato da Krešimir Purgar e Luca Vargiu (Carocci, Roma 2023). 

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Lì, inserito all’interno di riflessioni ad ampio spettro sui cambiamenti riguardanti l’immagine, si vedono bene le ripercussioni che il cambio di registro di tale approccio ha anche sulle questioni estetiche. Se lo statuto stesso dell’immagine è cambiato, se si accostano l’“archi-schermo” e la “quasi-protesi” alle teorie dello sguardo, a quelle dell’agency, a quelle della “svolta algoritmica”, si possono fare una quantità di riconsiderazioni che riguardano anche l’arte, del resto per noi imprescindibili in ogni riflessione sull’immagine.

Forse sarebbe interessante ripercorrere gli “schermi” che si incontrano nell’arte e nell’estetica contemporanee. In arte, per esempio, si potrebbe far iniziare un percorso ad hoc a partire dai Quadri bianchi di Robert Rauschenberg, quadri appunto totalmente bianchi, che John Cage – che vi si ispirerà per il suo Silenzio – definì “aeroporti per la polvere”, rimarcando l’aspetto proiettivo, ma spostandolo dall’autoreferenzialità dell’arte astratta modernista all’“ascolto”, per usare un suo termine, nel senso della funzione, che sia visiva, uditiva o metafisica, dell’apertura all’evento, del legame inscindibile di schermo e realtà.

Così, senza scorrere tutti i riferimenti che si possono trovare – come non ricordare almeno Mario Schifano e Fabio Mauri, più espliciti di altri? – facciamo solo qualche altro rimando significativo. Certi video di Bill Viola naturalmente: quelli in cui i personaggi trapassano la superficie d’acqua che sta per quella dello schermo, per guardare da questa parte, la nostra, e decidere di tornare indietro, sorta di schermo rovesciato dunque; o quelli in cui non riusciamo a cogliere gli spostamenti delle persone ritratte, che pur avvengono, come se si muovessero proprio quando noi non li guardiamo, l’opposto dell’eye tracking. 

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Applichiamo il quadrato di Carbone: mostrare-nascondere-esporre-proteggere: ne vengono delle considerazioni che vanno al di là della descrizione.

Cogliendo una battuta che è quasi un lapsus nel libro di Carbone e Lingua, azzardo che queste forme d’arte vanno considerate come delle sorte di “casi patologici”, o piuttosto “al limite”, che rivelano degli aspetti altrimenti non considerati.

Faccio l’esempio più radicale che conosco, poco noto, temo. L’artista Melik Ohanian ha proiettato un film – esattamente Punishment Park di Peter Watkins, la scelta del quale è precisa ma non è il caso qui di ricostruire – non su uno schermo ma in una zona desertica, diciamo nell’aria. Giustamente l’opera si intitola Invisible film, ma cosa significa qui “invisibile” se di fatto il film c’è in tutti i suoi aspetti, salvo lo schermo? 

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D’altro canto, viene a me da chiedere, negli NFT l’opera è il file, al di là – o di qua – dello schermo su cui eventualmente possiamo vederli?

Le considerazioni possibili sarebbero e sono molte. Mi si lasci ricordare le due riflessioni estetiche più note sugli schermi in ambito di arte contemporanea, entrambe dovute a Rosalind Krauss. Ricordiamo il suo seminale testo sulla video arte, “Video: le estetiche del narcisismo” (in Inventario perpetuo, Bruno Mondadori, Milano, 2011), in cui distingue tra “riflessività” e “riflessione”, nella prima delle quali una asimmetria viene introdotta dall’interno dell’opera, riconducendola alla funzione critica modernista, mentre nella seconda, che riconduce invece a una simmetria esterna, la dice “narcisista” perché si chiude sul soggetto, mettendo l’oggetto tra parentesi. Come non considerare questa asimmetria anche nei termini dati per simmetrici da Carbone, mostrare-nascondere, esporre-proteggere? Il quadrato di Carbone infatti è apparentemente chiuso sui quattro termini simmetrici, non aperto come ci ha insegnato il quadrato semiotico e le sue varianti come lo schema del “campo allargato della scultura” appunto di Krauss e lo schema L di Jacques Lacan.

Quanto a Lacan, la stessa Krauss ci ricorda il suo schema dello schermo, il cosiddetto doppio diedro del Seminario XI

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Esso nasce dalla sovrapposizione di due coni: il primo, classico, della visione, che ha al vertice il soggetto e alla base l’oggetto, e il secondo, rovesciato, che ha al vertice il “punto luminoso”, che si sovrappone dunque all’oggetto e identifica lo “sguardo” che da esso proviene e da cui ci sentiamo guardati, e alla base l’immagine, che dunque si sovrappone al soggetto, che ora si situa dentro l’immagine stessa, per cui, scrive Lacan, “l’immagine, certo, è nel mio occhio, ma io sono nell’immagine”.

I coni poi sono intersecati a metà tra vertice e base, il primo dall’immagine – che nel secondo, come detto, si sposta alla base, intesa diversamente, cioè diventata oggetto – e il secondo da quello che Lacan chiama appunto lo “schermo”, per cui ciò che nel diedro si disegna è appunto la sovrapposizione dell’immagine, in senso classico come intersecazione del cono visivo, e dello schermo, come piano di proiezione. Questa sovrapposizione disegna non una identità ma una tensione, insolubile e perpetua, che va a costituire il carattere stesso della “pulsione scopica”.

Essa fa dello “sguardo” qualcosa di più complesso della pura vista e del visibile qualcosa di non riducibile alla pura otticità, e dunque dell’oculocentrismo, come viene chiamato, qualcosa di diverso da uno scontato privilegio da smantellare con l’embodiment. Il quadrato per esempio potrebbe allora avere ai suoi vertici le varianti esibire-spiare, godere-sedurre, come varianti di mostrare-nascondere, esporre-proteggere. Le cose si complicano, ma non occorre tener conto anche di questi aspetti? Per rimanere in ambito di immagine e artistico in particolare, si pensi per esempio se usiamo uno specchio come schermo, come è stato fatto in certi giochi di riflessi nella fotografia surrealista – di nuovo Krauss insegna – o nei “Quadri specchianti” di Michelangelo Pistoletto, o nei “riflessogrammi”, come li ha chiamati Joan Fontcuberta. 

Essere implicati – cioè “dentro il quadro” – mette in guardia su una prospettiva che pretenda di guardare dal di fuori e con questo sulla dialettica tra le intenzioni e la realtà effettiva, le possibilità, i risultati, le responsabilità. Un compito difficile. L’ambizione di Carbone e Lingua si misura proprio sulla volontà di affrontare anche questi aspetti, morali e sociali, fin politici. Riprendono allora, sotto questo riguardo, dall’affermazione del passaggio detto dall’ontologia relazionale all’ontologia della “relazionalità condividuale”. I fenomeni rilevati infatti rendono l’indivisibilità dell’in-dividuo una categoria ormai inefficace a fronte della sua pluralizzazione, moltiplicazione, permeabilità e singolarizzazione. La posta in gioco è la seguente: di fronte in particolare all’iper-sviluppo di una relazionalità dividualizzata e dividualizzante indotta dalla società, da un uso acritico della tecnologia, dall’abbandono agli usi trasmessi, vanno affiancate le complementari nozioni di condividualità e condividuo, ovvero a una dividualità virtuosa e condivisa, che mette in atto inedite forme di negoziazione tra singolarità e molteplicità e pratiche di condivisione, un “dividualismo realmente socializzato”.

“Il fine è negoziare la transizione verso un regime dei media davvero post-umano e post-percettivo, verso il quale anche l’impiego dei nostri organi corporei come quasi-protesi sembra avviarci”. È in atto una vera e propria trasformazione, che va dagli aspetti fisici-percettivi a quelli relazionali e sociali: qualità delle pratiche, modificarsi multimodale delle comunicazioni, gli schermi in quanto interfacce rappresentano uno spazio simbolico in cui noi stessi ci costituiamo; in tale spazio ci confrontiamo non solo tra di noi ma anche con agentività non umane e postumane che allargano inesorabilmente il carattere degli schermi ad ogni ambito.

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