Speciale

Al tavolo

21 Gennaio 2013

Quanti tavoli possiede uno scrittore? Italo Calvino, racconta Pietro Citati, ne aveva tre nella sua casa di Campo Marzio, a Roma, poiché lavorava nel medesimo tempo a diversi progetti; a detta di Giuseppe Conte le scrivanie sarebbero state invece cinque. In una foto di Ugo Mulas, scattata all’autore del Barone rampante, quando ancora abitava a Parigi, anni prima, lo si vede scrivere con la penna, una cartellina di fogli aperti davanti a sé, altre carte intorno: una confusione ben ordinata.

 

 

Anche Pasolini di tavoli ne aveva più di uno: nella casa romana, ma anche nel buon ritiro di Chia. Anche qui uno scatto, foto di Dino Pedriali (Pier Paolo Pasolini, Johan & Levi): il poeta sta correggendo un dattiloscritto a penna, la sua fedele Lettera 22, libri impilati sul tavolo di legno, una copia dell’Espresso. La concentrazione calma e fattiva dell’autore al lavoro.

 

 

Ma non c’è solo il tavolo dello scrittore. Nell’atelier del pittore c’è spesso un ripiano su cui Picasso, Miro o Henry Moore lavorano, disegnano, scrivono, e anche leggono. Uno spazio fisico e insieme mentale, dove prendono forma i pensieri, le idee, le immagini interiori. In un recente libro, Atelier(Moretti & Vitali), dedicato ai luoghi della creazione, Elisabetta Orsini parla di questo spazio come della sintesi tra il mentale e il corporeo, tra il fuori e il dentro. L’artista, lo scrittore, vi si rifugia, e così si chiude in se stesso; si concentra, s’allontana dal mondo, e in questo modo lo raggiunge, offrendogli l’opera che va componendo.

 

 

In un testo pubblicato per la prima volta nel 1976, Georges Perec scrive una nota sugli oggetti che si trovano sulla sua scrivania (Pensare/Calssificare, Rizzoli), un elenco, ma anche una descrizione che esclude libri, fogli, carta. Al termine di queste brevi pagine, osserva che l’elenco, nucleo di un progetto più ampio mai realizzato, è per lui un modo per parlare del proprio lavoro, della sua storia, delle preoccupazioni: “uno sforzo per cogliere qualche cosa che appartiene alla mia esperienza, ma non a livello di esperienze lontane, bensì nel vivo del suo manifestarsi”.

 

Dunque, sul tavolo di lavoro c’è l’esperienza dell’autore, mentre si fa. Gli oggetti che si trovano sulla scrivania, lo stesso tavolo quale oggetto, non sono qualcosa d’inerte; rivelano il modo concreto d’essere dell’autore, nel momento stesso in cui si manifesta. Sono un’estensione del suo stesso corpo, anche quando non c’è, non è lì.

Per questa ragione quando con Giovanna Silva, fotografa, abbiamo pensato di scattare un’immagine delle scrivanie di vari autori (scrittori, artisti, scienziati, disegnatori, saggisti, poeti, musicisti, ecc.) abbiamo escluso la presenza dell’autore, o meglio: abbiamo cercato l’autore nella sua assenza, nella presenza dei suoi oggetti e strumenti di lavoro.

 

Al contrario di quanto scriveva un pessimista impiegato praghese, Franz Kafka, nei suoi Diari(“Ora osservo con più attenzione la mia scrivania e ho concluso che non si può cavare niente di buono”, 24 dicembre 1910), pensiamo invece che nel disordine del tavolo – o invece nell’ordine quasi perfetto, come in questa immagine di Walter Siti, con cui cominciamo questa mostra tascabile delle scrivanie – ci sia il segno dell’autore, il suo stile, quasi come nella sua prosa, o nelle sue linee o colori, oppure note; c’è lo stigma della sua personalità più profonda.

Lo scopo di queste immagini che andiamo via via pubblicando non è tuttavia quello di rivelare un autore, bensì di leggerlo, d’interpretarlo, di conoscerlo. La scrivania parla di lui con lui. Come scrive Orsini, il ripiano su cui lavora “è quel luogo fisico nel quale l’artista raggiunge il posto astratto dei suoi pensieri”. Sospeso tra astrazione e concretezza, il tavolo appare come un’estroflessione della sua mente, della mente che ha in mente.

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