Archeologia di Virgilio Sieni

7 Gennaio 2016

Tutto iniziò nell’Isolotto, il quartiere periferico di Firenze. Nacque lì nel 1957 Virgilio Sieni, il danzatore, il coreografo, uno degli artisti italiani più innovativi. Là, nell’insediamento appena sorto tra la campagna e la città, si formò. Poi arrivarono il liceo artistico, l’incontro con l’arte contemporanea, con il clima della capitale creativa d’Italia, la Firenze degli anni ottanta ricordata da Pier Vittorio Tondelli nel suo Un weekend postmoderno. Arrivò l’impatto del teatro di ricerca, a partire da Crollo nervoso del Carrozzone di Tiezzi e Lombardi. E venne la danza, incontrata inizialmente alla scuola di Traut Faggioni, con una radice infitta nell’espressionismo tedesco; praticata con Group-O e con Parco Butterfly, ancora in quel clima di contaminazioni della Nuova spettacolarità anni ottanta, quel teatro analitico patologico esistenziale del quale parlava il critico Giuseppe Bartolucci. Poi, distaccatosi dalle sue partner di allora, altri esperimenti e all’inizio degli anni novanta la Compagnia Virgilio Sieni Danza. E prima ancora la formazione, tra l’Amsterdam della nuova danza e il Giappone delle discipline marziali, dello zen, della cerimonia del tè. E dopo la fondazione della sua compagnia, un percorso che va dalla danza astratta, assoluta, all’archeologia del corpo, dalla ricerca sul movimento puro all’indignazione non retorica e non descrittiva per i destini di un mondo feroce, dalla concentrazione disciplinare all’excursus guidato da opere di filosofi e di poeti, come l’amato Caproni, come Pasolini, come Dante e il movimento dei suoi versi. Sieni cerca nel corpo la bellezza, prova a decifrare l’orrore e a indicare utopiche, interiori e comunitarie strade di salvezza. E poi avviene la ri-scoperta della memoria del gesto e quella della danza degli altri, dei non professionisti, la danza con gli altri, da strappare alla fissazione quotidiana, fino a pochi giorni fa, prima di Capodanno, con quella meraviglia che è stata Divina Commedia_Ballo 1265 nel salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze.
 

Parco Butterfly, 1985

 

Agorà, Biennale Danza 2013, ph. Akiko Miyake

 

Rossella Mazzaglia, studiosa di teatro e di danza, ha licenziato in marzo, subito prima di un vero e proprio nuovo tour de force creativo dell’artista, un volume che ne ripercorre la storia, le ricerche, le idee, la carriera. Il titolo Virgilio Sieni. Archeologia di un pensiero coreografico (Editoria & Spettacolo) contiene già molti degli elementi in tensione nel racconto e nell’analisi: la personalità di Sieni, il suo impegno inventivo nella coreografia, che deriva da una continua riflessione sul corpo, sui suoi strati più profondi, le immagini che genera in relazione con la costituzione del suo scheletro, delle sue articolazioni, della sua pelle (le pathosformeln, direbbe Warburg), in dialogo con il repertorio dell’arte visiva che del corpo stesso e della sue posture fa il proprio oggetto; di esso in relazione con gli altri corpi e con il corpo sociale. Il cammino di questo artista con il piglio dell’uomo totale dell’Umanesimo, inizia in una famiglia inurbata in quella periferia dell’Isolotto, dove negli anni sessanta si sviluppò uno dei movimenti più vivaci del cattolicesimo del dissenso e comunitario. Si sviluppa poi con una curiosità continua per l’arte e il teatro di avanguardia. Guarda all’happening, alla performance, all’improvvisazione del free jazz. Si dota di strumenti tecnici e analitici per costruire un proprio linguaggio originale, aperto a esperimenti e indagini. Dai lavori patchwork degli anni ottanta, prima con il Group-O poi con Parco Butterfly, una delle compagini protagoniste del rinnovamento della danza in Italia, ispirati da diverse tendenze e pulsioni dei componenti, si arriva a cammini coerenti negli anni novanta, con cicli creativi che esplorano la danza in sé, ma anche le sue relazioni con lo spazio, con l’invenzione di ambienti scenici differenti e di rapporti innovativi tra performer e spettatori, in formati originali, che provano a interpretare sempre un repertorio, a creare una ritualità, a penetrare con spirito sciamanico il vuoto, lo smarrimento della contemporaneità.

 

De Anima, 2012, ph. Akiko Miyake

 

Se si osserva la teatrografia pubblicata alla fine del volume, si notano dal 1990 sempre moltissimi titoli per anno (e se si allineassero le realizzazioni del 2015 appena trascorso lo sguardo si farebbe addirittura vertiginoso). Nel senso che spesso lo spettacolo completo, finito, da palcoscenico è preceduto, accompagnato, dilatato con installazioni, dispositivi preparatori o derivati, esplorazioni, studi e ogni altro tipo di meccanismo per dimostrare come il teatro e la danza siano esperienza, esperimento, rapporto in movimento. Scorrono così nella narrazione informata e attenta sempre ai presupposti teorici, alle mappe mentali che sorreggono i tragitti, cicli consegnati ormai alla storiografia, come quello sulla tragedia greca che si inaugura nel 1995 con Rosso Cantato, si dirama in vari titoli e forme per arrivare a Trilogia del presente / Orestea nel 1996, con quell’antifrasi, quell’escursione che marca sempre il lavoro di Sieni: il presente si fonda su strati antichi, profondi. Segue la lunga esplorazione sulla fiaba, che apre paesaggi interattivi come nella Casina dei biscotti, evento per uno spettatore solo, o ripercorre la mitologia fiabesca spostando i personaggi, invecchiandoli, tirandone fuori i lati inquietanti come in Fulgor. Crocevia di personaggi fiabeschi o in Babbino caro – pinocchiulus sextet (siamo tra il 1997 e il 2001). Intanto ai Cappuccetti rossi, ai Pinocchi, che torneranno anche in lavori recenti, visti alle Biennali di Venezia dirette dal 2013 dal coreografo fiorentino, si accostano loro parenti di altri territori dell’immaginario, come i Jolly spossati, i fool shakespeariani malinconici, gli Arlecchini e i saltimbanchi picassiani e felliniani slogati, fino alle fatine bambine con cui Sieni ha popolato, in contrasto con anziani giardinieri dalle mani nodose, una parco di Castiglioncello in anni recenti. La fiaba non è qualcosa da guardare, è una storia da percorrere con il corpo e con l’emozione (e qui si può ravvisarsi la radice degli ultimi esiti del lavoro del coreografo, aperti all’esperienza della città, di una città reinventata). Scorrono nel libro le folle di Amleti e altri personaggi barcollanti, zoppicanti, cedenti con carrozze nere alla De Dominicis e gli assolo, come Variazioni Goldberg, in cui l’artista perfeziona il meccanismo della coreografia come esplorazione delle articolazioni e come improvvisazione, fino ai recenti sviluppi di questo lavoro del 2001 che diventa, appunto, Solo Goldberg Improvisation. Non appare nel volume il più recente solo, creato dopo la pubblicazione, che riporta l’artista in un meraviglioso roteare, avanzare in tondo e tornare su se stesso, alle origini, almeno per il titolo, Isolotto. Scorrono gli spettacoli in cui la danza si fa pietà per gli orrori del mondo (Sonate Bach. Davanti al dolore degli altri) e quelli filosofici, composti con la collaborazione drammaturgica di Giorgio Agamben, con i corpi che interrogano il moto degli atomi e le infinite creazioni causali, le continue sospensioni e apparizioni della vita, dei cicli dell’esistenza (La natura delle cose da Lucrezio, Oro, De anima); l’autrice ci porta nelle ricerche sul femminile di La ragazza indicibile e Kore e nella riflessione poetica sulle tribù, di comunità residuali o nascenti, di Esercizi di primavera.

 

Il seme del piangere, ph. Virgilio Sieni

 

Il finale ci conduce negli ultimi sviluppi, con la danza che alterna concentrate creazioni della compagnia e attività dell’Accademia sull’arte del gesto, aperta ai non professionisti, dove si esplorano i magazzini della memoria. La ricerca sulle radure dell’apparizione dell’archeologia del corpo e del confronto con quel patrimonio che la conserva, tramanda e contiene, che può essere l’iconografia pittorica (un’iconografia per Sieni toscana e fiorentina, tra Masaccio e Pontormo) si connette con la memoria incarnata dai vecchi, artigiani, partigiani, nonne, con lo slancio, la freschezza di danzatrici bambine, con i corpi normali di persone comuni. Il punto di incrocio diventano le grandi creazioni degli ultimi anni: le agorà nelle quali il gesto del singolo diventa ascolto degli altri, nell’utopia di un paesaggio umano diverso, che trasformi il quotidiano con la sfida della bellezza; le creazioni con madri e figli; i cenacoli, le Botteghe, le Visitazioni realizzate a Firenze, in Toscana e altrove; le stazioni del Vangelo montate per la Biennale di Venezia; la Cena Pasolini bolognese, molte altre occasioni in vari luoghi d’Italia e l’ultima, travolgente realizzazione, la Divina Commedia a Palazzo Vecchio a Firenze (vedi una descrizione ampia qui).

In quest’ultima opera, interpretata da circa centocinquanta tra professionisti, ragazze molto giovani, donne e uomini di ogni età non professionisti, le tre cantiche di Dante diventavano immagini serrate, in dialogo con i nostri paesaggi di esilio, e si moltiplicavano in dettagli infiniti di vita o di rimpianto di esistenze. L’Inferno era un campo di migranti sulle rive di un luogo di esodo, trasformati in turba che gira senza requie, con gruppetti che si staccano dal macinare strada della massa, in cerca anche solo di un momento di individuazione. Il Purgatorio diventava il tentativo di costruire precarie case esposte all’ingiuria dell’effimero, all’attesa di una trasformazione, come dopo un terremoto; il Paradiso un intrecciarsi di membra, di sguardi, un’invocazione di dialogo, di costituzione di una comunità ideale, utopica. Come in altri lavori del genere il pubblico era lasciato libero di girare nello spazio e di crearsi una propria visione, un proprio spettacolo.

 

Oro, 2009

 

 

Da sinistra: Tavole sulla fiaba; Osso, 2005, Virgilio Sieni in scena con il padre, ph. Philippe Laurent

 

Nell’ultimo anno, quello che il libro non arriva a raccontare, Sieni ha disseminato esperienze del genere in mezza Italia, nel nome di Pasolini, di Dante o della possibilità di ricreare bellezza, ascolto, attraverso il gesto, il movimento (per alcune di esse si vedano i blog “Nelle pieghe del corpo” e “La danza nella città”). Perché, come nota Mazzaglia verso la fine della sua trattazione:

La piega del gomito, del ginocchio, la fragilità delle articolazioni che produce minimi spostamenti rinnovano la sensazione del gesto e creano, agli occhi dell’osservatore, delle risonanze che ciascuno può interpretare liberamente. La potenza figurale del gesto incontra, cioè, la memoria individuale e quella collettiva, in cui si depositano le immagini di una cultura: “un gesto, a volte, rammenta un altro gesto dimenticato”. (p. 288)

 

E questa continua messa in discussione delle certezze motorie, un tale ascoltarsi per ascoltare, andare nelle pieghe del corpo per trovare (e trovarsi) e uscire dai cliché, sembra il punto di arrivo (temporaneo) di un interrogarsi instancabile:

La risposta giace sia nel sapere sviluppato in tanti anni di lavoro sul proprio corpo e con professionisti, sia nell’incontro con i dilettanti, ma è una risposta aperta che allude a un cammino inesausto, piuttosto che a un arrivo. È una risposta che rivela l’accettazione della finitezza, l’amore per la momentaneità e il superamento dell’incertezza postmoderna in direzione di un’apertura al caso, nonché la scoperta nel proprio vissuto di risorse che consentano, serenamente, di “lasciar fare al bosco”. (Ivi)

 

Tra esposizione del corpo e ritualità, tra motivi archetipici e dissezioni iconografiche, tra fissazione della forma e sua continua apertura, tra archeologia e trasparenza, tra rigore tecnico e ricerca dell’ombra, tra musica del corpo e utopia di ricostruzione di una comunità scardinando le abitudini quotidiane possiamo, sulle orme dell’autrice, sintetizzare la felicissima vicenda creativa di questo inventore di danza e di ipotesi di convivenza umana.

 

 

Il libro: Rossella Mazzaglia, Virgilio Sieni. Archeologia di un pensiero coreografico, prefazione di Paolo Puppa, Editoria & Spettacolo, Spoleto 2015, pp. 356, € 25,00

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