Avere una bella cera

20 Giugno 2012

È nascosto, Palazzo Fortuny. Nascosto da vicoli stretti e da canali che una cartina non troppo dettagliata non ti segnala, canali che imbarazzano anche le moderne tecnologie, così che il puntino blu sul tuo schermo-mappa se ne sta fermo troppo a lungo per poi, improvvisamente, dirti che sei lì, punto blu in mezzo a un canale blu.

E poi c’è la confidenza che i veneziani hanno con i loro luoghi, campi e sestieri ignoti alle cartine: le loro indicazioni tracciano tragitti segreti, con i deboli riferimenti che ti offre una città in cui non sai mai se prendere sul serio questa “seconda strada a sinistra” la cui larghezza è pari alle tue spalle.

E quando, finalmente, la tua meta “è alla fine della via e non ti puoi sbagliare”, Palazzo Fortuny è nascosto, ancora. Sotto un’impalcatura gigantesca che cela buona parte della sua bellezza, di cui ti rendi conto soltanto una volta entrato, quando, persa nel palazzo, ti ritrovi in un giardino interno che lascia senza fiato.

Ed è nascosto l’ingresso: rispetto all’enorme scritta Palazzo Fortuny ad altezza occhi, sormontata da travi e plastiche e rumore di lavori, la porta in vetro scuro è a destra, perpendicolare alla facciata, anch’essa sormontata da ponteggi.

Al di là della porta, nella penombra, finalmente la biglietteria: Avere una bella cera si apre nella sala alla tua sinistra. Cito l’intervento di Alvar Gonzàlez-Palacios durante la presentazione-conversazione con Andrea Daninos, curatore della mostra, svoltasi all’Ateneo Veneto venerdì 8 giugno: “tutto mi piace fuorché il titolo”. Difficile non dargli ragione.

 

Ceroplasta in ambito cappuccino, San Francesco e undici teste di cappuccini, seconda metà del XVIII secolo, Venezia, Chiesa del Redentore

 

Mattoni a vista e travi del soffitto in legno, così come in legno il pavimento e le scale; le pareti che articolano l’esposizione di quel rosso dei velluti che ti aspetti in un mondo di cere, arricchite da frasi scritte in nero, dai versi di un anonimo poeta vernacolare ai passages benjaminiani. Tutto è nella semioscurità e la luce proviene dall’alto.

Ti muovi piano perché il legno scricchiola sotto i tuoi piedi e parli sottovoce, non solo per l’atmosfera raccolta cui sei stato iniziato, né in ossequio al museo e all’arte in genere: c’è qualcosa di più e te ne accorgi non appena accedi alla prima delle quattro sale in cui si sviluppa questa mostra che “riunisce la quasi totalità dei ritratti in cera a grandezza naturale esistenti in Italia”, come recita il ricco catalogo curato da Andrea Daninos (Officina Libraria, Milano, 2012).

 

Questo qualcosa d’ulteriore è il rapporto con la morte: queste statue di cera dagli occhi di vetro, ornate con stoffe e capelli veri, nascono, come ci dicevon Schlosser nel suo Storia del ritratto in cera (Officina Libraria, Milano 2011) come calchi funebri, pratiche per celebrare il defunto, dipinti in stile realistico e drappeggiati con stoffe autentiche, fedeli nei lineamenti come nel colorito, sostituti del volto vivo, carne e non mera impronta, incaricati di garantire la sopravvivenza e la comunicazione con l’al di là. Il realismo: imago che si sostituisce al corpo e trattiene, in quei lineamenti così perfettamente riprodotti, tutto della persona che se ne è andata.

Come scrive Emanuele Trevi nel bellissimo saggio Cere scritte, incluso nel catalogo: “la relazione di contiguità che si stabilisce tra la carne umana e la cera è di natura metonimica, non metaforica”, ed è per questo che Sade si tura il naso davanti alle “gradazioni della dissoluzione” delle scene della Peste di Gaetano Giulio Zumbo, come racconta nel suo Viaggio in Italia.

 

Ceroplasta veneziano, effigie funebre del doge Alvise IV Mocenigo, 1779, Venezia Scuola Grande Arciconfraternita di San Rocco

 

Il saggio di Von Schlosser attesta di queste pratiche già nella Roma repubblicana del III sec. a.C., dalle maschere nelle necropoli ai busti degli antenati eccellenti nelle case patrizie, per poi ritrovarle, sopravvivenza, in forme diverse, ex voto modello anatomico o sostituto, e molteplici contesti: dai gabinetti anatomici alle chiese rinascimentali, dalle fiere alle botteghe di sarti e barbieri,ai palazzi dei dogi Veneziani.

In campo è il rapporto tra arte e artigianato, il tema del doppio perturbante, l’eccesso di realismo e le costanti antropologiche implicate.

 

In questa mostra veneziana sono raccolte cere italiane del XVIII – XIX secolo: effigi di dogi veneziani e di patriarchi, busti realizzati da Filippo Scandellari, Clemente Susini, Francesco Orso, come il ritratto di Vittoria di Savoia, o da Leonard Posh, che lavora insieme al conte boemo dalla vita misteriosa, Joseph Deym, cui si deve il celebre busto di Maria Carolina di Asburgo-Lorena.

Vi si trovano poi San Francesco d’Assisi e undici teste di cappuccini, eseguiti da un ceroplasta francescano, e dodici ritratti di criminali a opera di Lorenzo Tenchini, medico al cui lavoro si interessò Lombroso. L’ultima stanza è dedicata ai due inquietanti bambini in dimensioni reali, citati nelSaggio da Von Schlosser, e sulle cui tracce si è messo Andrea Daninos: è al ritrovamento di questi due bambini, che stringono tra le mani uva e ciliegie, frutti simbolo della passione di Cristo, che si deve lo spunto da cui ha preso avvio l’idea di dedicare al tema del ritratto in cera un’esposizione.

 

Ceroplasta veneziano, Bambina e Bambino, 1790-1795 circa, Venezia Palazzo Mocenigo, Centro Studi di Storia del Tessuto e del Costume

 

Forse in questi tempi di sopravvivenza ad ogni costo, in cui fotografiamo tutto per conservare tutto – fino al paradosso del conservare prima ancora di lasciar essere –, la sopravvivenza, o il ritorno, delle statue di cera ci mette faccia a faccia, letteralmente, con la morte, e con la coscienza di averla occultata.

Perturba l’affiorare di qualcosa che sarebbe dovuto restare nascosto, e mi sembra di poter dire che questo qualcosa, in contrapposizione all’è stato proprio delle fotografie, ha la forma di un sarà sempre, di una vita imitata passando per la morte. Ma senza quello che Debray chiamava il “lampeggiamento dell’invisibile” la forma della morte non ci seduce, non richiama qualcosa di assente e sarà sempre nonostante tutto: nonostante la cera e nonostante la morte stessa (l’il y a, il neutro, da cui nemmeno la fine ci salva).

Il doppio, l’apparizione del kolossos: quello che per un attimo abbiamo immaginato come Medesimo si rivela Altro. Questa pelle non pelle, così simile alla pelle, è fredda. E non ti aspetti di vederla sudare esattamente come non te lo aspetti dalle statue di marmo, eppure non ti trovi davanti al biancore del marmo, né alla sua levigatezza; la cera è il materiale che restituisce la texture e l’oleosità della carne, e, paradossalmente, è proprio il contatto con la pelle e con la carne umana ciò che subisce maggiormente: statuto ambiguo di qualcosa che crea una forma per contatto e per contatto si lascia deformare (e che al contatto invita e quasi tenta: al museo Madame Tussauds di Londra le statue vengono sostituite spesso proprio a causa dei palpeggiamenti dei turisti).

 

Eppure, nell’immaginario infantile, il pensiero della cera si associa al pensiero della decomposizione, dello squagliarsi: da bambini si raccatta la cera impiastricciata al fondo delle candele, la si fa colare sulle mani come gesto di coraggio e resistenza, e non è un caso che Baltrusaitis prenda la cera come esempio di quella mutevolezza e malleabilità che riconosce alle anamorfosi.

Le incertezze sulle cose visibili alimentano le inquietudini dello spirito.

Ma che ne è tra questi ritratti di questa docilità al tatto? Che ne è di questa incertezza, così connaturata al materiale che Medardo Rosso lo preferiva ai marmi e ai graniti imperituri, proprio in virtù della sua labilità e della natura effimera della forma?

I ritratti che pretendevano di sostituirsi al vero e di costituirsi come doppio sfidando la morte, aspiravano all’eternità: della cera cercavano il colorito, la verosimiglianza, ed esposti, chiusi in edicole di legno, sfidavano il tempo e la deperibilità della materia (e del materiale). L’iperrealismo che li caratterizza - “hanno preso così alla lettera la storia di Narciso” - si iscrive in quel tutto da vedersi, anzi di più, che Baudrillard rimprovera alla pornografia. Ora che non si fanno più tramite verso la trascendenza, il loro perfetto realismo diviene ostacolo all’aprirsi dell’immaginario.

 

Francesco Orso, Vittoria di Savoia Soisson , 1780-1785 circa, Castello di Agliè

 

I trompe l’oeil, simulazione incantata, invitano a un gioco, con le loro soglie da varcare: mancando loro una dimensione gettano il dubbio sul principio di realtà. E così le cere di Cattelan: l’uomo che sbuca dal pavimento o il papa schiacciato a terra da un meteorite non hanno a che fare con la morte, hanno a che fare con dimensioni di quasi-realtà; non consegnano alcuna verità ma alzano la posta in gioco e chiedono un’interpretazione. Anche i manichini di Elvis Presley o di Brad Pitt si caricano del carattere di icona delle persone che rappresentano e non si propongono come sostituti ma come oggetti transizionali di un (brutto) gioco di finzione. 

I busti in queste sale non hanno alcuna intenzione di ingannarci e coinvolgerci, ci tengono a distanza, parlano di una morte che ci sopravvive e quello che esibiscono è, come esplicita la Venere dei medici di Clemente Susini, statua anatomica in cera che è possibile aprire e smontare così da poterne guardare il cuore e le viscere, “il reale senza alcuna mediazione possibile […] il reale ultimo […]. Diviene allora manifesto che il soggetto si decompone e sparisce”, come scrive Lacan.

 

Seduta in un bar veneziano, con uno spritz di rito davanti a me, circondata da negozi di maschere e da gondolieri con la maglietta a righe che invitano i turisti, ho idea che una mostra del genere, nascosta tra queste strade, assorba e restituisca qualcosa che appartiene a questi luoghi. Qualcosa di perturbante.

Anche Venezia si somiglia, come le statue di cera. Somiglia all’immagine di sé.

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