Biancospini per Natale (e Capodanno)
Tre pagine, anzi quattro, si accaparrano le aubépines nel primo volume della Recherche di Marcel Proust. Il giovane protagonista invaghitosi dei rami fioriti di biancospino sull’altare della chiesa di Combray durante le celebrazioni mariane, prima ancora di saggiarsi con i più celebri campanili di Martinville, inaugura con essi la sua volumetrica ricerca per carpire, dietro l’involucro delle cose, il loro segreto, e divenir così scrittore:
«Poi tornavo davanti ai biancospini come davanti a quei capolavori che si crede di poter vedere meglio dopo aver smesso per un poco di guardarli, ma avevo un bel farmi schermo delle mani per non avere nient’altro sotto gli occhi: il sentimento che risvegliavano in me continuava a essere oscuro e vago e cercava invano di liberarsi, di venire ad aderire ai loro fiori.»
Li ritrova poi a far siepe dalla “parte di Méséglise”, lungo il sentiero che costeggia la tenuta di Tansonville proprietà di Swann, dove spiccano alcune brocche d’altro colore:
«era uno spino, ma rosa, più bello ancora dei bianchi. Era anch’esso agghindato a festa – di quelle sole vere feste che sono le feste religiose, giacché nessun capriccio contingente le applica, come le feste mondane, a un giorno qualsiasi, che non è specificamente destinato a loro e che non ha nulla di essenzialmente festivo –, ma in modo ancor più ricco, dal momento che i fiori, attaccati al ramo uno sopra l’altro così da non lasciare il minimo spazio privo di ornamento come una cascata di fiocchi su una mazza rococò, erano “colorati” e quindi di una qualità superiore secondo l’estetica di Combray, almeno a voler giudicare dalla graduatoria dei prezzi nell’ “emporio” della Piazza o da Camus, dove i biscotti rosa erano più cari. Io stesso apprezzavo di più il formaggio alla crema se era rosa, cioè se mi avevano permesso di schiacciarci sopra delle fragole. E quei fiori avevano scelto appunto una di quelle tinte di cosa mangereccia, o di tenero abbellimento d’una toilette per una festa grande, che sono, nella misura in cui manifestano la ragione della loro superiorità, quelle che appaiono evidentemente belle agli occhi dei fanciulli [...] In cima ai rami, simili a tanti di quei piccoli rosai con i vasi nascosti nella carta merlettata di cui, nelle feste solenni, si facevano esplodere sull’altare i tenui fuochi d’artificio, pullulavano i mille bottoncini d’una tinta più pallida che, schiudendosi, lasciavano vedere, come in fondo a una coppa di marmo rosa, delle sanguigne, svelando, più degli stessi fiori, l’essenza particolare e irresistibile dello spino, che là dove germogliava, là dove fioriva, non poteva farlo, sempre e ovunque, che in rosa. Intercalato nella siepe, ma da questa non meno diverso d’una fanciulla abbigliata a festa tra le persone in vestaglia che resteranno a casa, bell’e pronto per il mese di Maria di cui sembrava già far parte, brillava sorridendo nella sua fresca veste rosa l’arbusto cattolico e delizioso.»
Tale inconsueta, straordinaria livrea rosata prepara l’altrettanto inattesa, meravigliosa, bionda apparizione della piccola Gilberte, Mademoiselle Swann, col suo viso «cosparso di efelidi rosa». La «visione» paralizza il giovane protagonista e suscita in lui quelle percezioni profonde che «s’impadroniscono del nostro essere nella sua interezza». Insomma, un colpo di fulmine, preparato da una lunga, immaginosa attesa.
Ma non è maggio, e ora i biancospini non sono in fiore quali vezzose fanciulle agghindate per la festa. Ad evocare sontuose antèsi primaverili non mi induce l’invernale penuria di corolle bensì la grande, cattolica festa religiosa di fine anno e una leggenda inglese legata a Giuseppe d’Arimatea, il membro del Sinedrio che non votò la condanna a morte di Gesù, e chiese poi il suo corpo per poterlo seppellire. Raccolse anche il sangue versato sulla croce conservandolo nel calice dell’ultima cena: il Sacro Graal. Ebbene, questa leggenda vuole che Giuseppe partito per la Britannia e giunto a Glastonbury vi piantasse il suo bastone che germogliò e fiorì di biancospino. In quel luogo costruì la prima chiesa d’Inghilterra e ad ogni vigilia di Natale la pianta, miracolosamente, rifioriva. Consacrato alla Vergine dei Sette Dolori per via dei petali bianchi come l’immacolata concezione, degli stami rossi come le gocce del sangue del figlio crocifisso, e degli spini della corona del supplizio, quel biancospino fu sradicato nel 1649 dai puritani di Cromwell, fors’anche memori dell’antecedente culto pagano. I romani lo dedicarono a Maia, dea del maggio, e ai suoi casti costumi, vietando matrimoni nel suo mese; per i greci era invece il fiore delle cerimonie nuziali, foriero di prosperità.
Non abbiamo l’arbusto miracoloso coi suoi rami fioriti per il Natale ma, anche nei mesi del freddo, il comune biancospino regala bellezze non da meno, seppur trascurate dai più. Acquistiamo a caro prezzo bacche vermiglie che tanto fanno festa per gli addobbi di casa quando basta una passeggiata nei campi o nei boschi vicini per cogliere le meline rosse del prunalbo – ricordate il verso pascoliano «e del prunalbo l’odorino amaro/ sento nel cuore»? – buone pure per marmellate, liquori, tisane e decotti. Molte, infatti, le virtù di questa pianta della famiglia delle Rosaceae, note alla medicina popolare fin da tempi remoti, e ancor oggi in uso in farmacologia, erboristeria e cosmesi. Vera pianta medicinale dalle proprietà ansiolitiche, sedative, cardiotoniche, astringenti. Nel nostro paese è presente in due principali specie spontanee, il Crataegus laevigata o Biancospino selvatico – già catalogato come Crataegus oxyacantha – e il Crataegus monogyna o Azaruolo selvatico, da qualcuno considerato una varietà del C. laevigata. Non agevole distinguerli, anche per la facile ibridazione favorita dalla convivenza: entrambi recano semplici fiori bianchi a cinque petali in corimbi eretti, molti stami dalle antere rosate, piccole drupe rosse e carnose che – come l’aggettivo botanico suggerisce – nel C. monogyna racchiudono un solo seme anziché due. Un elemento distintivo di maggiore evidenza sono le foglie caduche, alterne, obovate e lucide nella pagina superiore, ma con lobi meno profondi nel C. laevigata, più lunghe e frastagliate al vertice nel C. monogyna. Quanto alle spine, non foglie modificate come in altre essenze bensì rami, sono fitte e aguzze, ciò che li rende, se regolarmente potati, vocati a divenir siepe e prezioso ricovero uccellino. Meno diffuso è il Crataegus azarolus (o Lazzarolo, Azzaruolo) con spine, fiori e drupe più grandi e radi, foglie coriacee dai tre ai cinque lobi.
I biancospini sono arbusti o piccoli alberi dal portamento contorto ma di grande effetto non solo al momento della fioritura: piante vive anche in inverno per il carico di frutti scarlatti (in vero falsi frutti), sostentamento di molti animali, e anche per ciò dovremmo coltivarli in giardino. Ne esistono al mondo centinaia di specie, e gli innumerevoli ibridi offrono esemplari anche inermi, a fiori doppi, rosa o rossi oltre che bianchi.
Pianta cara ai poeti che ne hanno lodato perlopiù le candide corolle: «Biancospino in fiore, mio / primo alfabeto», canta René Char. Più insolito è incontrare bei versi dedicati alle sue grazie dicembrine. Bianca Maria Frabotta nella raccolta del 2012 Da mani mortali ci parla della Prima generazione dei biancospini e della loro resistenza all’inverno (d'altronde l’etimo rinvia al greco kratos, forza):
Oltre la soglia del letargo, una foglia
pende ancora a lato del legno, trema,
si rimette al vento con l’astuzia dei deboli.
Ha conosciuto la pietra e l’agio delle erbe
la prima generazione dei biancospini.
Irti più del filo spinato che li regge
proclamano la resistenza all’inverno
mentre un riemerso brulichio di molti
silenziosamente li lavora nel tepore.
La pianta è un cantiere sempre aperto
a chi vi torna senza averne memoria.
Sappi che frenerò ogni desiderio
di spronarla, questa ottusa pazienza
di durare, per ora, senza dare ombra.
Ma più al caso nostro, per l’accento posto sulle bacche, è la magnifica poesia di Seamus Heaney La lanterna di biancospino, dell’omonima raccolta del 1987:
Brucia fuori stagione il biancospino invernale,
mela degli spini, piccola luce per piccola gente,
che null’altro vuole da loro se non salvare dall’estinzione
il lucignolo della dignità,
senza doverli accecare d’illuminazione.
Ma talvolta quando il fiato s’impiuma nel gelo
prende la forma itinerante di Diogene
con la sua lanterna, alla ricerca di un uomo giusto;
così tu finisci per essere scrutato da dietro il frutto
che lui regge ad altezza d’occhi appeso al tralcio,
e recedi davanti al suo nocciolo e polpa compatti,
al graffio a sangue che vuoi ti provi e renda mondo,
alla maturità beccata che ti esplora, e passa oltre.
Per il nuovo anno, sotto un tralcio di rosse meline di biancospino auguriamoci che la ricerca dell’«uomo giusto», che pure è in noi, abbia buon esito.