Black Star: un saggio sulla violenza
Il centro di Black Star di Fabrizio Sinisi è sempre un ragazzo nero, presente o evocato attraverso il racconto. All’inizio è travestito da pagliaccio, da Grock. Suona e canta incuneato tra un supermercato e un bar per guadagnare qualcosa e attrae irresistibilmente una ricca professoressa universitaria di mezza età con il fascino che emana dal suo corpo, dai suoi zigomi tagliati come da uno scultore barocco, con la sua pelle che emette bagliori, con le sue mani e soprattutto con i suoi denti bianchissimi, come quelli di un modello o di una bestia feroce. Tu – lo apostrofa la signora – “un mendicante, è questa la parola”, che “chissà da che fogna emergi la mattina quando è ancora buio e ti metti il costume per andare a cantare davanti ai negozi quindici ore al giorno d’estate e d’inverno solo per raccattare quattro spiccioli”. Lo vediamo sul palcoscenico, con una maschera da jolly, da folle, mentre lei elegante si aggira tra gli spettatori nella sala del Palamostre di Udine nello spettacolo con la regia di Fabrizio Arcuri per la stagione Teatro contatto – Nature Future del Css di Udine.
Irromperà, lui o forse, meglio, un altro ragazzo nero, in un tranquillo, annoiato esausto interno borghese nel secondo quadro, portando rapina, stupro e uccisone della giovane figlia della coppia, in una parte che guarda agli orrori senechiani del primo Shakespeare, quello di Titus Andronicus. In altri due quadri assisteremo alla vendetta della società scatenata contro il nero, non importa se il colpevole era proprio quello, basta il colore della pelle e una vaga rassomiglianza con il criminale, e alla mobilitazione di interi strati della società nella caccia al diverso.
Black Star ci pone radicalmente di fronte allo Straniero, al Nero, e soprattutto ai desideri e alle paure che scatena in noi, ai complessi di colpa, agli sconvolgimenti che può portare in vite chiuse come dietro mura invalicabili, lui che può essere insieme dio, incubo, capro espiatorio delle nostre paure. Non c’è nessuna edulcorazione o correttezza politica nel testo e tanto meno nello spettacolo: Sinisi e Arcuri affondano il dito in una realtà magmatica e nelle sue risonanze nell’immaginario, creando un lavoro compatto e incalzante pur nei molti stili, tra immedesimazione e racconto, recitazione delle didascalie e straniamento delle parti più orribili dell’azione, solo narrate, mai mostrate.
Il primo elemento che fa immedesimare totalmente e apre nello stesso tempo lo spazio alla riflessione dialettica è la scrittura di Sinisi, un’onda avvolgente, una seduzione rapinosa che ha il passo della grande lingua teatrale, capace di evocare l’azione, i mondi, senza mai spingere il pedale nella prosaicità della riproduzione pura e semplice o, peggio, nel didascalismo. È magia, è ipnotismo, sembra fatta di versi anche quando è pura prosa: porta in scena l’attrice o l’attore totalmente, lasciando evidente la distanza dal personaggio. Ha qualcosa del furore lirico di Koltès e della precisione chirurgica di un certo Brecht o di un Bernhard prosciugato dal ritmo ossessivo della ripetizione.
Sinisi, 36 anni, è oggi sicuramente il nostro migliore scrittore di teatro e drammaturgo, in forza con quest’ultima funzione presso la Compagnia Lombardi-Tiezzi. È in scena in questi giorni anche al Teatro di Roma e poi al Piccolo di Milano con un bellissimo lavoro di lacasadargilla, Il Ministero della Solitudine, dove ha rimontato, in un processo collettivo, gli scritti e le improvvisazioni di attori e attrici.
Il suo testo si apre tra il palcoscenico e la platea nella prima parte, quando la signora, tra il pubblico, sembra valutare il corpo del giovane nero come una merce, si fa rapire da lui, abbandona la famiglia, va a vivere con quel “dio”, per poi distaccarsene e arrivare (intuiamo soltanto) all’omicidio dopo che ha voluto visitare la periferia parigina dove vive la sua famiglia, un ambiente che ai suoi occhi raffinati appare puzzolente, miserabile, sovrappeso, avvilito.
Nella seconda parte la noia di una quotidiana serata familiare in casa tra lettura, tv e discorsi distratti e banali precipita, dicevo, nell’orrore shakespeariano: tutto è distanziato, raccontato come nella tragedia greca, come in Racine, con un altalenare continuo tra prima e terza persona, che ci immerge nei pensieri e nelle paure dei personaggi.
Poi il testo esplode: un poliziotto costringe a riconoscere lo stupratore in chi forse non è il vero colpevole, lancia una vera e propria caccia all’uomo, incitando all’azione con una tirata apocalittica e terribilmente grandiosa:
“Mi segua. Il calore continuerà a bruciare la terra. I deserti continueranno a crescere. Scoppieranno gli incendi – prima bruceranno gli alberi, gli oleodotti, le biblioteche, le pompe di benzina. Poi anche tutto il resto. Il vento spingerà il fuoco verso il mare. Intere coste verranno sommerse. Popoli interi marceranno verso il nord del mondo in cerca di acqua e cibo. Verrà la lunga guerra. Qualcuno proverà a coltivare i campi ma i frutti saranno gonfi e cattivi per via dei veleni infiltrati per anni nella terra. La gente perderà i capelli, e le pance si gonfieranno come otri. Il pesce avrà il sapore della pece. L’estate non finirà mai. Intere comunità andranno a vivere sotto terra, nei tunnel scavati nelle guerre mondiali, nelle fogne, nelle gallerie della metropolitana. Si nutriranno di cadaveri e di topi. I topi perché si riproducono facilmente e con grande abbondanza – cadaveri perché ovviamente degli otto miliardi di persone sulla terra resterà solo una minima parte. I loro occhi impareranno a vedere nel buio e a conoscere i segreti sentieri sotto la superficie del pianeta. Avranno il potere di spuntare dal nulla in qualsiasi città e fin dentro le case dai tombini, dagli scantinati, dai gabinetti per rubare cibo e acqua. Violenteranno le donne e i bambini sul tavolo delle cucine e li accecheranno con mozziconi di sigaretta. Nasceranno pochissimi bambini e quei pochi saranno ritardati e deformi e non impareranno mai a parlare. Gli obesi venderanno sul dark web pezzi del proprio lardo. Le notti saranno nere e selvagge, punteggiate di roghi proprio com’era all’inizio del tempo, nelle pianure e nelle foreste. Si canteranno canzoni che oggi non possiamo immaginare”.
Continuamente il testo slitta tra la mozione delle passioni e la distanza della consapevolezza di recitare, di mettere in scena la tragedia del nostro presente. Evoca, con la voce della madre, soprusi coloniali come necessari, la raccolta del caucciù nel Congo Belga, il taglio delle mani o la decapitazione per chi non raccoglieva la quantità richiesta dai colonizzatori, i villaggi bruciati; quindi diventa l’appello di un presidente del consiglio dei ministri che assomiglia al padre, che sente la rabbia crescere nella società e invoca la vendetta. Questa parte, intitolata Il dolore della maggioranza, usa un verso dolcissimo scritto da Dylan Thomas per la morte del padre stravolgendolo, facendone un grido contro il Diverso: non ce ne andremo docili in quella buonanotte, un urlo per scatenare l’assalto. E trasforma la tragica esecuzione di Grock in un supplizio grottesco, un’impiccagione clownesca degna del Ku Klux Klan tutta giocata a stringere bene, a fare attenzione a comporre a modo il cappio, a issare il corpo suppliziato a un lampione... Sono sempre solo parole, terribili, che si chiudono con la fatica stremante dei carnefici in un’alba livida, tra le macerie, tra i fumi, sotto un cielo viola e blu. Con un rovesciamento che rivela la natura di capro espiatorio del suppliziato:
“Ai suoi piedi si raccoglie una piccola folla, come un rito teatrale d’altri tempi: il corpo della vittima, alto sulla folla come un dio”.
Fabrizio Arcuri, maestro in questo teatro postdrammatico, che abbandona i facili intrecci di trame e va a scorticare i nostri miti, i nostri traumi, smontando continuamente i meccanismi della recitazione, della simulazione teatrale, con delicatezza, senza l’insistenza di certi neofiti, crea uno spettacolo mosso e però compatto, che si affida alla parola incisiva di Sinisi e la rafforza con immagini forti, con intrusioni di schitarrate rock, facendo giostrare i bravi attori tra diverse posizioni del palcoscenico, in mezzo al pubblico, in controluce, tra fumi che disegnano un inquietante fucina dell’odio, dello scontro, del massacro, nell’arredamento di una casa che, travolto da un vento violento, viene spazzato in alto, a mezz’aria, squassando ogni legge di solida gravità familiare.
Perfetta nel suo glamour affascinato dall’avventura nell’aura di una specie di dio arcaico e profondamente chiusa nel pregiudizio è la Laura di Aglaia Mora. Assente, debole, vigliacco, come si deve a un esponente della maggioranza silenziosa, è il padre e il Tony di un concentratissimo, e pure divertente in certi momenti, attore di lungo corso come Gabriele Benedetti. Efficaci e calate perfettamente in questa parabola di viaggio al termine della notte Maria Roveran (Nicole e la madre) e Michele Guidi (il poliziotto). Le scene e i costumi, essenziali, sono di Luigina Tusini, mentre gli effetti di luce drammatizzanti sono ascrivibili al piano generale di regia di Arcuri. Le musiche dal vivo, rotture che rendono ulteriormente rovente il clima, sono di Giulio Ragno Favero, che irrompe in scena con la sua chitarra elettrica sparando decibel.
Grock, silente fino alla fine, è Martin Chishimba. È l’ultima voce, piana, concentrata, avviluppante dopo tanto sangue immaginato, quando si toglie la maschera e racconta di secoli di oppressione coloniale e neocoloniale. Iniziando con le parole di David Van Reybrouck, evocando la foce del fiume Congo,
“dove l’acqua si getta nel mare con una forza tale da cambiare per chilometri il colore dell’oceano: il blu che si macchia di giallo e ocra, erba e tronchi e monconi di alberi strappate da oscure foreste vergini.
Poi parla di guerre, di grandi case arrivate dal mare, di visi bianchi mai visti, creduti dei, e perpetratori di ogni rapimento, schiavismo, massacro, fino allo sfruttamento dei minerali, l’uranio ieri, il coltan oggi, e la sua vita, dopo il grande viaggio sul mare nero, nei nostri paesi, con altri dieci chiusi in una stanza, a guadagnarsi il pane vestito da clown, pur essendo un angelo:
“Ma il finale non c’è. Questa non è la fine”.
Lo spettacolo, coprodotto da Css Udine, Tpe Teatro Piemonte Europa e dal Metastasio – Stabile della Toscana di Prato, dopo Udine è replicato dal 30 novembre al 3 dicembre presso il teatro Astra di Torino e dal 7 al 10 presso il Metastasio di Prato.
Le fotografie sono di Alice Durigatto.