Campi di sulla con orobanche
Un’onda rossa. La sulla è in piena fioritura, tinge di carminio le soavi colline del paesaggio senese. Al margine del declivio, nel viola della veccia, s’ergono i fusti dell’orobanche folti di corolle. “Succiamele delle fave” è uno dei suoi nomi popolari che, come l’etimo del nome botanico (dal greco orobos=legume e anchein=strozzare), ne denuncia l’indole parassitaria, specie a discapito delle fave coltivate, ma non disdegna lenticchie e piselli. Nome appropriato: sugge con gli austori – organi specializzati nel prelievo – le sostanze nutritive delle piante “ospitanti”, si fa per dire.
Non stupisce l’incontro con un bell’esemplare di Orobanche crenata tra l’Hedysarum coronarium – il nome botanico della sulla – e la Vicia villosa, piante foraggere entrambe della famiglia delle Fabaceae, ma spontanee in tutta l’Italia centro-meridionale.
La Sulla coronaria in particolare, come tutte le leguminose, è un’erbacea fissatrice d’azoto usata anche per avvicendare le coltivazioni e fertilizzare il terreno, specie crete e argille che stabilizza con le sue radici a fittone riducendone l’erosione e la formazione di calanchi. Oltre a tali meriti, i fiori di sulla danno un miele di alta qualità, ricco di vitamine e dal bouquet delicato con note verdi di fienagione. Usata anche in erboristeria per le proprietà diuretiche toniche e disintossicanti non sfigurerebbe in giardino con i piselli odorosi: graziosa nelle foglie composte, imparipennate, con lamine ellittiche lanuginose nella pagina inferiore, e nei densi racemi terminali di corolle peduncolate disposte a ghirlanda con labbri e vessilli d’un invidiabile rubino. I frutti sono lomenti segmentati e ricoperti di aculei che, giunti a maturazione, si disarticolano liberando ciascuno un seme lenticolare. Dimenticavo: il termine “sulla” pare derivi dal termine castigliano zulla, mentre lo scientifico Hedysarum è mutuato dall’aggettivo greco edus, dolce, come il lieve profumo che tanto attrae le api.
Pur privo di clorofilla – contravvenendo di nuovo al nome di questa rubrica mensile – anche il succiamele è a suo modo attraente con quel gambo nudo, rugginoso, grassoccio, pubescente, su cui s’innestano, avvolti da lanceolate brattee e da lacinie bifide, i chiari fiori tubolari venati di lilla, terminanti in due labbri (l’infero tripartito) dal margine ondulato, che odorano di garofano. Può raggiungere il metro in altezza, ma ve ne sono diverse varietà di misure ridotte e dalle tinte brunastre tra cui l’Orobanche minor (“succiamele minore”) e l’Orobanche caryophillacea (Orobanche comune o “succiamele garofanato”).
In Puglia, dove è detto “sporchia”, i contadini hanno trovato il modo di sfruttare l’erba scroccona cucinandone in vari modi i turioni simili a quelli degli asparagi, prima che sviluppino i fiori: spurgati dell’amaro eccessivo in più bagni d’acqua, sono divenuti un piatto prelibato impanati e fritti o lessati e ripassati con la menta, crudi in insalata o con il purè di fave, giusto per riproporre anche a tavola l’abbinamento campestre tra il legume e il suo strangolatore. In Sicilia lo chiamano “lupa”, vi ha dedicato bei versi, al solito puntuali quanto a ecfrasi botanica, un gran poeta che di quella terra conosce segreti e misteri, Nino De Vita. Nella sua prima raccolta Fosse Chiti (Mesogea 2007) il territorio tra Marsala lo Stagnone e Mozia con i suoi animali fiori insetti, trova un occhio attento, appassionato, e il suo massimo paesaggista; vi regnano atmosfere sospese e presenze naturali rese con icastiche pennellate che hanno qualcosa degli haiku giapponesi:
È pelosa, rossigna
l’orobanche
senza le foglie, grassa
un poco come
l’asparago.
Dai ciuffi del fagiolo
s’affaccia, con gli austori
sulle radici
e succhia
la linfa dolce all’ospite
che allenta
di crescere
intristisce...
Dopo questo isolato esordio in lingua nazionale, il poeta ha scelto la lingua nativa per narrare in versi la storia sua e di personaggi che ti rimangono dentro quanto quelli di un altro straordinario poeta dialettale (e non è una diminutio) qual è stato Raffaello Baldini da Sant’Arcangelo di Romagna. Ma qui il bonario sense of humor del romagnolo non vi ha luogo: il tragico quotidiano prolunga nel suono cupo delle u l’eco di un antico dolore, s’aggruma intorno alle doppie, si arrota sulle vibranti. In Cutusìu, una raccolta del 2001, che prende il nome dalla contrada messinese in cui De Vita tiene casa, scorre in nove tempi la vicenda di Benedettina (Bbinirittedda), una giovane donna morta di parto.
Negli squarci del racconto aperti sull’immobile teatro naturale dello sfondo, appare prima la sulla poi l’orobanche. Per annusare suoni e ritmi, cadenze e respiri, ecco la prima e due passi della seconda e terza sezione:
I
A tiricianni ’ cori s’innamura.
I pinzera, p’i strinciuti e i vasti
– nnall’ortu, ammezzu ’a sudda,
fen uri pagghialora –
siccanti mi straviàvanu
dda nnicchia ri mmiolu.
Araciu –tirritiri–
pi scanzari a me’ patri («O vili, vili,
vai a sturiari, vili!)
mi nni niscì.
Tirai
’a mizzina; e stricari
’a pèula passai
ra porta sfasciddata
ri l’addinaru.
’U suli,
’n funnu, a sguiciari ’a chiesa, s’abbiava
tuttu ammusciuto nne
salini.
II
Scaffi comu purpani,
asciutti, nn’a trazzera:
cuta e surga ri rroti
ri carrettu; e ggirannu
r’u firriatu nnall’ortu
ri Michiluzzu, agghi
’n fila, fasedda, cucuzzeddi
e un peri
ri ficu: zipareddu
nnê stagghiatura
e ’u ggiummu
r’a lupa chi spuntava
rrussigna ri nnê favi.
[...]
’A ntisi
– ’a ntisi, sì, ’a ntisi –
comu un lamentu ’a vuci.
E arrè, arrè, nnall’aria,
ri fìmmina...
Firriai
’a testa pìaddabbanna
r’i zzabbara; e, sicuru,
passannu ri nnô largu, mi nfilai
nnê spichi: ’i rreschi, longhi,
puntuti, m’asciunnàvannu
’i vrazza.
III
Era addeva, jittata
’ncapu ’u furmentu: ’i manu
nnô stòmmacu a bballuni,
’a vesta ncapu ’i cosci
e sbattuliava
’a testa.
’A canuscì.
Bbniritta ri nnomu,
figghia ru’ zzi’ Lucianu
Alogna, ’u jurnateri
chi stava nn’a trasuta
r’a fiuredda.
[...]
I. // A tredici anni il cuore s’innamora. // Le fantasie per gli abbracci e i baci / – nell’orto, in mezzo alla sulla, / sul fieno nel pagliaio – / insistenti mi inquietavano / quel poco di ragione. // Adagio – con accortezza – / per evitare mio padre («O fannullone, fannullone, / vai a studiare, fannullone!») / me ne uscii. // Chiusi / la mezza porta; e a strisciare / la pergola passai / per la porta sgangherata / del pollaio. // Il sole, / lontano, rasente la chiesa, andava / impallidito verso / le saline.
II. // Buche profonde, / asciutte, nella trazzera: / ciottoli e solchi di ruote / di carretto, e svoltando /dal pollaio nell’orto / di Michelino, agli / in filari, piselli, zucchine / e un albero / di fico: papiro / sui bordi dei canali / e il pennacchio / dell’orobanche che spuntava / rossiccia tra le fave. //
[...]
La sentii / – la sentii, sì, la sentii – / come un lamento di voce. // E ancora, ancora, nell’aria, / di donna... // Girai / lo sguardo nello spazio oltre / le agavi; e, deciso, / passando per il varco, mi infilai / nel mezzo delle spighe: le reste, lunghe / puntute, mi graffiavano / le braccia. //
III. // Era una giovinetta, buttata / sul frumento: le mani / sopra la pancia gonfia, / la veste sollevata sulle cosce / e dibatteva / la testa. // La riconobbi. / Benedetta di nome, / figlia dello zio Luciano / Alogna, il giornaliero/ che abitava all’inizio della strada / dov’è posata la cappelletta votiva. / [...]
Per il resto, proseguite da voi. Io rendo onore e merito a De Vita e ai suoi versi che ci consentono di accogliere nel nostro erbario letterario e sentimentale anche queste essenze così poco considerate.