Speciale

C'era una volta la Buona Scuola

7 Maggio 2015

Negli ultimi giorni la mobilitazione di docenti, studenti e genitori contro il progetto di riforma della scuola è stata molto intensa. Il clima di festa e protesta, che si è visto nelle principali città italiane, ha preso il posto delle immagini dei danneggiamenti di Milano e dei precari caricati a Bologna nei giorni scorsi.

I giornali riferiscono di decine di migliaia di persone in piazza e di uno sciopero generale con un’adesione che si aggira all'80%; tanti gli studenti. Le cifre sarebbero 25mila a Roma, 20mila a Milano, 10mila a Torino, 15mila a Bari, 5mila a Cagliari, 10mila a Palermo e 5mila a Catania. Un successo in ogni caso per i sindacati, in un momento in cui lo sciopero come strumento di rivendicazione è vissuto con sfiducia. Da segnalare la presenza di tante scuole primarie e bambini: a Torino (dove ero) è stata la cosa che più ha colpito l’occhio, con i cori delle scuole elementari e i piccoli striscioni di carta colorata: «la scuola di Renzi e di Giannini/non è la scuola dei bambini».

 

Robert Doisneau

 

La sensazione comune è che ci fossero tutti quelli che ci dovevano essere. Gli insegnanti, ma più in generale i lavoratori della scuola (personale Ata e anche dirigenti), i loro figli, gli studenti, gli ex-studenti, gli studenti universitari che sono diventati insegnanti (o lo vorrebbero). Generazioni diverse e intrecciate. «La Buona Scuola siamo noi» è stato lo slogan più diffuso: un nocciolo duro di realtà ha disintegrato il marketing narrativo che accompagna un progetto di modernizzazione della scuola, sentito come una privatizzazione diretta dall’alto e senza autentico ascolto per chi vive e lavora nel mondo della scuola.

Mentre si sono sprecati da più parti incommentabili giudizi su parassitismo, immobilismo e conservazione di sindacati e insegnanti, è lo stesso Renzi che si dice «pronto ad ascoltare e condividere», affrontare la protesta ed «entrare nel merito», in linea con la ministra Giannini. Eppure è difficile capire cosa intende, con le commissioni parlamentari che lavorano al testo legislativo e mentre si vuole procedere speditamente tramite legge delega o decreto legge.

 

Come è stato sottolineato – tra gli altri – da Tullio De Mauro, Claudio Giunta e Marco Ambra, la bozza di riforma della scuola nota come La Buona Scuola appare vaga, semplificata, propagandistica e lastricata di buone intenzioni: ignora la realtà della situazione e i complessi meccanismi di attuazione di una legge, che ne implica altre come la Legge di stabilità. Girolamo De Michele mostra, in tal senso, come manchino proprio didattica e istruzione in uno scenario più ampio di «decostituzionalizzazione» e «di autoritarismo»: fuori dalla retoriche della facilitazione, della partecipazione e della leggerezza, il progetto Renzi-Giannini sembra piuttosto una «scatola vuota nella quale, una volta ottenuta la delega, il governo sarà autorizzato a mettere qualsivoglia contenuto» su ambiti come «didattica, diritto allo studio, disabilità, assunzione e valutazione del personale, valutazione degli apprendimenti, governance della scuola». Tutto ciò, che implica questioni sindacali (come il blocco dei contratti e il balletto sui numeri delle stabilizzazione e delle assunzioni) o strutturali (come l'edilizia e la sicurezza), è al centro della mobilitazione del personale della scuola contro la riforma.

 

Un punto di osservazione per ragionare su quale idea di scuola e di società vi stia dietro è il tema della tecnologia digitale, all'interno di un più complessivo discorso sullo stato del presente, in rapporto con il passato, una tradizione culturale, e il futuro, che al momento assomiglia soprattutto a una retorica. Si parla, nel La Buona Scuola di «connettere per aprire», intendendo una «apertura verso il territorio, la comunità, la progettualità di esperienze emergenti. Per liberare la scuola ci vuole più connessione, anzitutto digitale». La politica del digitale a scuola «deve invece essere leggera e flessibile, adattandosi alle esigenze di chi la usa, allo stile dei nostri docenti, alla creatività dei nostri ragazzi»: al di là del linguaggio – uno dei più vistosi problemi del progetto che intende la comunicazione in senso pubblicitario e a senso unico – l’idea lascerebbe intravedere un ripensamento delle precedenti linee ministeriali in termini di agenda digitale, basate su piani (ad esempio Lim, classi 2.0, classi virtuali) caratterizzati dalla rigidità metodologica, dalla sporadicità dell’intervento e dalla dispersione dei risultati.

 

Si legge di priorità della «banda larga veloce, wi-fi programmabile per classe (con possibilità di disattivazione quando necessario) e un numero sufficiente di dispositivi mobili per la didattica, anche secondo la modalità sempre più adottata del Byod (Bring Your Own Device)» – non è necessario farci sopra dell'ironia – e figura l’impegno economico per il raggiungimento di questi obiettivi: è un dato importante perché ogni cambiamento deve prevedere un ritorno al finanziamento della scuola, dopo anni di impoverimento. Ma su questo, senza dimenticare la politica di tagli del finanziamento pubblico che continua, si configura un vero e proprio disimpegno: compare infatti la “possibilità” di finanziamento privato, il che apre numerosi problemi su chi e perché ne sarà l'erogatore e chi e come potrà esserne il beneficiario: le disparità sul territorio, tra scuole d'élite e scuole ghetto, aumenterebbero il già critico divario sociale.

 

Il digitale è ricorsivamente al centro del discorso: l’«alfabetizzazione digitale» assume il ruolo che in altre epoche, come quella post-unitaria o nel secondo dopoguerra, ha avuto quella tradizionale; «la scuola ha il dovere di stimolare i ragazzi a capire il digitale oltre la superficie», ovvero di non limitarsi a spingere verso il semplice consumo di tecnologia ma a confrontarsi con la dimensione della produzione di saperi, sostanzialmente in linea con quello che significa l'ottica del web 2.0. Ottimo e sottoscrivibile. Ma, subito e senza ulteriori mediazioni, compaiono la necessità di insegnare a «pensare in termini computazionali» e introdurre nelle scuole «coding» (cioè la programmazione). Addirittura, «a partire dalla primaria: vogliamo che nei prossimi tre anni in ogni classe gli alunni imparino a risolvere problemi complessi applicando la logica del paradigma informatico anche attraverso modalità ludiche (gamification)».

 

Il salto verso l'approccio scientifico e matematico, un punto molto debole del sistema scolastico italiano, pare davvero quantico. I risultati delle sperimentazioni di didattiche in ambito digitale sono problematici, con studiosi di settore e addetti ai lavori che invitano alla cautela e cercano di frenare gli entusiasmi, tutti mediatici e politici. Certamente la dotazione di wi-fi e banda larga a tutte le scuole e tutte le classi è una condizione strutturale per una didattica attiva e la formazione di una cittadinanza critica. Ma serve sapere cosa è opportuno farne e soprattutto cosa non fare con il digitale a scuola. Le tecnologie dell'informazione e della comunicazione (Tic) riguardano competenze trasversali più generali: nel documento ricorre più volte l'utilizzo a scuola della stampa 3D come pratica virtuosa, che pare davvero un artificio retorico (e non solo perché di solito mancano risme di carta e i toner per le stampanti normali, quando non le prese di corrente, il parco macchine o l'aggiornamento software).

 

 

Immaginando che si risolvano i problemi di investimento, sul personale, sull'hardware e sull'aggiornamento dei sistemi, rimane centrale il nodo della formazione (e rimotivazione) dei docenti: tra insegnanti e studenti è presente un problema di Digital Divide, in termini tecnologici, e un gap sul senso di fondo di quale sia la cultura da insegnare a scuola. Il capitolo sulla formazione continua dei docenti è insufficiente e nuovamente presenta troppa distanza tra intenzioni e realtà: a oggi sono proprio le direttive amministrative (sul completamento cattedre e sul risparmio per le sostituzioni) che ostacolano la formazione degli insegnanti, i quali vengono dissuasi dall'assentarsi per seguire corsi di formazione. Come il magico ritorno dell'organico funzionale possa risolvere tutto questo, rimane all'immaginazione del lettore.

 

Non è chiaro come, allo stato attuale, si possa passare dalla cultura dominante testuale e cartacea legata alla lezione frontale, a una cultura ideale, digitale e costruttivista, legata alla dimensione laboratoriale e performativa. Invece di additare un futuro idillio tecnologico tale da archiviare una scuola multi-problematica, in affanno e ancora tutta novecentesca, si tratta di progettare, costruire e finanziare “ponti” capaci di avvicinare i lati dell'abisso che separa le due dimensioni, coinvolgendo chi abita quotidianamente l'educazione e promuovendo l'innovazione dal basso, che nella realtà, lo ripeto, fino ad ora è costantemente ostacolata.

 

E qui veniamo alla questione fondamentale: la mancanza di democrazia interna, che significa svuotamento degli organi collegiali e concentrazione dirigistica del potere decisionale (ad esempio nelle mani del “preside-manager”, che sarebbe già in via di ridimensionamento). Anche la valutazione è un ambito su cui misurare la distanza tra scuola vivente e scuola immaginata. Da un lato si auspica lo sviluppo di competenze di critica e rielaborazione degli studenti e, contraddittoriamente, si pratica una didattica completamente schiacciata sulla frontalità, sulla performance e sull’interrogazione; dall’altro ci si trova di fronte alla richiesta di confrontarsi con il test e alla concorrenza del ranking, al bisogno di non sfigurare per mantenere status, bacino di utenza, iscrizioni. Ancora una volta: il patrimonio di cultura delle valutazione in funzione educativa elaborato in decenni di riflessione pedagogica è dimenticato in favore dell’ideologia della valutazione, che risponde ad altre logiche di amministrazione del vivente in ottiche di governance globale.

 

Didattica e valutazione devono essere incentrati sui processi di apprendimento e sulla loro consapevolezza da parte dei diversi soggetti coinvolti – studenti, docenti, famiglie; la scuola che si sta configurando va invece nella direzione di un'astratta produzione di efficienza e di una riduzione dei costi di corto respiro. Sotto il segno della rimozione dell’emergenza di vita con cui ogni educazione si deve confrontare.

 

Una più ampia discussione del rapporto tra scuola e digitale, a cura dell'autore, è presente nell'e-book gratuito, a cura di Marco Ambra, Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola.

 

@arrigo_malera

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