Modernità / Cina: storia e spazi

12 Gennaio 2020

Ho trascorso qualche giorno a Pechino, ed era la prima volta che mettevo piede in Cina. Le mie impressioni sono quindi abbastanza banali e forse non meriterebbero nemmeno di essere registrate per iscritto. Salvo forse una, che dirò fra poco.

Molte cose della Cina ovviamente colpiscono subito. Le dimensioni (degli edifici, delle vie, delle stazioni, degli aeroporti). L'efficienza dei trasporti (treni, metropolitana). La pulizia delle strade e degli ambienti (sui marciapiedi non c’è una cartaccia minima né un mozzicone di sigaretta, si raccolgono meticolosamente le foglie secche da ogni prato, aiuola, bordura, si puliscono perfino le superfici ghiacciate di fossati e corsi d'acqua). La rapidità della modernizzazione: un albergo di dieci anni fa è considerato quasi vecchio, ci sono tanti alberghi più recenti. In generale, per la generazione alla quale appartengo – quella dei baby-boomers – il volto e l’emblema del progresso era ancora l’America: se uno voleva vedere che cos’era la modernità, andava a New York.

 

Oggi si va a New York come si va a Londra o a Parigi: si visita una città che in una certa epoca poteva essere considerata il centro del mondo, ma oggi non lo è più, lo spessore storico prevale sulla spinta all’innovazione. E questo a dispetto delle novità che da quelle parti pure continuano a verificarsi, come gli Hudson Yards, il nuovo quartiere di Manhattan che ha ridisegnato la fisionomia di Midtown West (personalmente, non trovo nemmeno tanto geniale il monumento ideato da Thomas Heatherwick, il Vessel, sistema spiraliforme di scale alto 46 metri che ricorda una pigna o un favo, o, come qualcuno insinua, un kebab). Oggi la modernità ha il volto delle città dell’Asia: non della Cina solo (si pensi a Seul), ma della Cina in primis. Una modernità enorme quanto a misura, travolgente quanto a velocità. Così mi trovo a osservare Pechino – anzi, Beijing – che pure non manca di monumenti storici (ma su questo tema il discorso sarebbe lungo) e intanto penso a una città lontana quasi 2000 km, di cui ho appena appreso l’esistenza, Chóngqìng: l’area metropolitana ha una popolazione pari a quella dell’intera Polonia.

Sono arrivato in Cina atterrando al Terminal 3 del Beijing International Airport, progettato da un prestigioso architetto americano, Norman Foster, e inaugurato poco prima dei Giochi Olimpici del 2008.

 

Un edificio mirabile, almeno al mio sguardo profano. Ma parlando con un cinese bisogna guardarsi dal chiamarlo il «nuovo» aeroporto. Quello nuovo ovviamente è un altro, l’hanno inaugurato poco più di tre mesi fa, il 25 settembre, è il Daxing International Airport, spettacolare realizzazione dello studio di Zaha Hadid a forma di stella marina (anche se ha sei bracci e non cinque).

 

Ph Greg Girard.


Occorre specificare che è il più grande terminal aeroportuale del mondo? Ma la cosa più interessante, a mio avviso, è un’altra. Daxing si trova una quarantina di km a sud di Pechino, a 30 km da una città relativamente piccola, Lanfang (5 milioni di abitanti), a 120 km da Tianjin (alias Tientsin), 12 milioni di abitanti, cioè a mezz’ora di treno, verso est; e il progetto del governo cinese prevede un forte sviluppo urbanistico a ovest. In questo modo l’aeroporto di Daxing si verrà a trovare al centro di una grande area popolata da svariate decine di milioni di abitanti, distribuiti in agglomerati connessi da collegamenti ferroviari superveloci. 

 

Noi siamo abituati a pensare all’aeroporto come a una struttura che sorge nei pressi di una città, se non proprio adiacente ad essa. La città è il centro, l’aeroporto è un satellite, un annesso: un terminale periferico per una certa categoria di trasporti. Quella che sta prendendo forma a Pechino è invece un’organizzazione dello spazio per cui al centro c’è un aeroporto, e la città, o meglio, le città le fanno corona tutt’attorno. È il trionfo dell’idea di movimento. Spostarsi è l’attività principale, il resto si adegua. Una specie di rivoluzione copernicana. Nel cuore dei nostri centri storici, che un tempo erano città cinte da mura, la cattedrale contrassegnava la centralità dell’abitare, del risiedere, e insieme simboleggiava uno slancio verso l’alto, verso la dimensione ultraterrena. Anche gli aerei si sollevano da terra, e volano anzi a quote ben superiori a quelle di qualunque torre o campanile: ma lo fanno per accelerare gli spostamenti da un punto all’altro della superficie terrestre, che non si curano di trascendere. Lo stesso discorso si potrebbe ripetere per il sottosuolo. Le gallerie delle metropolitane sono scavate a profondità molto superiori rispetto a qualunque cripta o sepoltura: ma la loro ragion d’essere rimane la superficie.

 

Ecco, dunque, il nocciolo della mia impressione cinese. La storia da cui proveniamo ha strutturato lo spazio abitato privilegiando di necessità la stasi e ipostatizzando una stratificazione. Non che in passato non si viaggiasse, beninteso; ma lo stare contava più del muoversi, e la vita intratteneva un dialogo strutturale con l’aldilà, cioè con la memoria e con l’attesa del futuro, rappresentata dalle due dimensioni del basso e dell’alto, qualitativamente connotati. Da ciò discendeva un assetto topologico tridimensionale: una porzione di spazio non isolata ma circoscritta, virtualmente aperta alla verticalità (non solo in senso religioso). Oggi una parte dell’umanità si sta dirigendo invece verso un’organizzazione dello spazio che celebra la centralità assoluta del movimento, e si estende con impeto, proiettandosi senza ripensamenti e senza esitazioni sulla dimensione orizzontale. Edificando, dilaga.  

Questi i pensieri che mi frullano per il capo mentre a tavola cerco di imparare a usare le bacchette. I miei progressi sono penosamente lenti, devo ancora fare molta pratica per imparare a maneggiarle senza troppa goffaggine. Mi domando quanti nuovi alberghi sorgeranno a Pechino, nel frattempo. 

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