Due studi / Cinema, gesti e corpi
In una foto del 1930 una giovane donna e un giovanotto sono seduti in poltrona, mentre altre persone sistemano dei sensori sulle loro braccia. La didascalia recita: “Testing subjects for their reactions to screen episodes”, in altre parole si tenta di verificare le reazioni dei due giovani davanti a un film (lo schermo non si vede, ma sulla parete di fondo si notano bene piccole aperture quadrate per le proiezioni). La foto è tratta da The Art of Sound Pictures (New York 1930) di Walter Pitkin e William Marston. È proprio quest’ultimo, sul tavolo in fondo, a controllare i dati assieme alla sua collaboratrice Olive Byrne; tra parentesi: pare sia lei ad aver suggerito le fattezze di Wonder woman, il personaggio dei fumetti creato proprio da Marston, non a caso un convinto femminista.
La foto dimostra quanto il tema delle reazioni del pubblico fosse ben presente nella fase di passaggio dal muto al cinema sonoro. Il fenomeno del forte coinvolgimento fisico e psichico dello spettatore non comincia certo coi film: da sempre, come ha spiegato David Freedberg (Il potere delle immagini, 1989), dipinti e sculture (sacri e non solo) possono suscitare inattese reazioni emotive; del resto, anche i non addetti ai lavori hanno sentito parlare della “sindrome di Stendhal”. Nel teatro la partecipazione emotiva è potenzialmente superiore a quella sollecitata dalle immagini immobili: nell’Atene del 493 a. C., racconta Erodoto, alla rappresentazione di una tragedia di Frinico tutto il teatro scoppiò a piangere. Il cinema è capace di amplificare ancora di più la partecipazione dello spettatore, anche se la presenza fisica dell’attore viene a mancare: col primo piano, ad esempio, riusciamo a distinguere anche i più piccoli sommovimenti della mimica.
All’inizio degli anni Trenta, il sociologo Herbert Blumer condusse una pionieristica ricerca su centinaia di adolescenti e giovani per sondare gli effetti dei film sul comportamento (Movies and Conduct, New York 1933). Il resoconto è straordinario: eccitazione, paura, terrore, commozione, pianto davanti allo schermo, affollano i racconti degli adolescenti. Seguono poi i riflessi sulla vita quotidiana: ragazzi e ragazze di vent’anni dichiarano il loro desiderio di imitare il modo di stare in piedi, di sedere, di usare gli oggetti da parte di attori e attrici; una ragazza ammette di aver imitato in camera sua gli atteggiamenti civettuoli di un’attrice; altri confessano di replicare davanti allo specchio anche i più piccoli dettagli della mimica, i sorrisi, gli sguardi degli attori famosi. Una ragazza vorrebbe imparare la camminata di Greta Garbo, un’altra quella di Gloria Swanson.
Allora come oggi, le storie, i sentimenti, gli stati d’animo dei personaggi dei film passano attraverso i corpi degli attori, per quanto proiettati su uno schermo: i loro movimenti, la loro mimica, la loro voce si ripercuotono sui corpi di chi guarda e ascolta. Il corpo degli attori del cinema è al centro di due libri usciti negli ultimi mesi. Libri molto diversi nell’impostazione e nei contenuti, a riprova dell’estrema varietà dei percorsi possibili su questo argomento.
Il primo, Il cinema arte dei corpi, di Francesca Brignoli e Micaela Veronesi (Milano, Unicopli), ha un taglio prevalentemente descrittivo e si articola in due sezioni. Nella prima (Atlante), l’attenzione si concentra su singole figure di attori, dai primi passi del cinema alla contemporaneità: Francesca Bertini diva del muto, Febo Mari e il suo Fauno (1917), Pierre Clémenti e il suo “corpo sovversivo”, Charlotte Rampling e le sue multiformi interpretazioni (da Visconti a Cavani e altri, compreso Adriano Celentano).
A proposito di Marilyn Monroe, ecco che ritorna il tema della presa delle immagini cinematografiche sugli spettatori nelle parole di François Truffaut (p. 47): “Quando è sullo schermo non c’è più verso di guardare qualcosa d’altro che il suo corpo, dalla testa ai piedi, con mille fermate intermedie. La sua figura ci attira dalla nostra poltrona allo schermo come la calamita la limatura di ferro. Non c’è più ragione, sullo schermo, di fare riflessioni sagge: anche, nuca, ginocchi, orecchie, gomiti, labbra, palme delle mani, profili prendono il sopravvento su movimenti di macchina, inquadrature, panoramiche prolungate, dissolvenze incrociate e raccordi sull’asse”. Rimane irrisolta la domanda più banale: in che cosa consiste l’attrazione esercitata da Marilyn, allora e oggi? Fa bene Brignoli a ricordare la sua camminata dondolante (in Niagara, ad esempio) e, nello stesso tempo, il suo modo di articolare la voce (ora “adulta, vellutata e scura”, ora squillante nel suo baby talking). E che cosa intendeva Pasolini quando scriveva che quella di Marilyn era una “bellezza sopravvissuta dal mondo antico”?
La seconda sezione del libro (Anatomie) si concentra invece su questa o quella parte del corpo: i capelli di Monica Vitti, il volto di Peter Lorre, l’occhio (in Un cane andaluso di Buñuel), le mani; e poi il “corpo monumentale” di Gérard Depardieu e il passo danzato di Richard Gere (American Gigolò, 1980).
Le andature e le mani nel cinema sono sotto osservazione anche in Figure del corpo. Gesto e immagine in movimento di Barbara Grespi (Milano, Meltemi), ma in un quadro completamente diverso, dominato del tutto dalla prospettiva teorica. È vero, nel libro c’è una fittissima ragnatela di oggetti e di incontri (il kinetoscopio, il fucile fotografico, le slot machine, la gopro, danzatrici come Isadora Duncan o Loïe Fuller, l’Afrodite di Cnido, i neumi musicali e il suono del Theremin, gli emblemi rinascimentali, la gesture recognition, gli emoticon…), ma prima di tutto c’è una domanda pressante: che cosa è il gesto?
In tutt’altra direzione rispetto ai testi che inclinano verso la curiosità (i dizionari di gesti) o a quelli che, più concretamente, spiegano come regolare il proprio body language nelle relazioni interpersonali, il libro di Grespi affronta le “figure del corpo” quando trascinano le emozioni e quando scandiscono i tempi del rito; quando si misurano con la concretezza degli oggetti o quando disegnano forme effimere nella danza; quando si stagliano nelle opere d’arte e quando si confondono nei ritmi banali della vita quotidiana; quando si uniscono alla parola e quando la sostituiscono. Siamo, infatti, davanti a una situazione paradossale: da secoli e secoli riflettiamo sulle parole, ma (salvo eccezioni) non altrettanto sui movimenti del corpo; eppure “i gesti in apparenza insignificanti, trasmessi di generazione in generazione, e protetti dalla loro stessa irrilevanza, fanno fede più dei giacimenti ideologici o dei monumenti effigiati”, scriveva Lévi-Strauss.
Barbara Grespi ripercorre così i tanti lavori novecenteschi e contemporanei sulla “gestologia” (senza dimenticare esperienze pionieristiche dei secoli precedenti) e offre un panorama straordinario per vastità e aggiornamento.
In questo quadro, il cinema ha una parte tutt’altro che laterale; le sperimentazioni che lo anticiparono – a cominciare dalle cronofotografie di Eadweard Muybridge – dimostrano che si stavano aprendo nuove strade per osservare i movimenti corporei, per studiarne i minimi meccanismi. Già all’inizio degli anni Venti, Bela Balázs sosteneva che il cinema restituiva visibilità al corpo, e così si poteva “reimparare il disimparato linguaggio della mimica e dei gesti”. La possibilità di guardare il corpo con occhi nuovi permetteva, a sua volta, di “creare un nuovo aspetto dell’anima” (Jean Epstein).
Col progredire degli aspetti tecnici, il cinema diviene luogo privilegiato per misurarsi con uno spazio speciale, quello delle emozioni e della loro espressione. Un ambito a dir poco intricato, a cominciare dalla stessa definizione di emozione, per non parlare della relazione tra “dentro” e “fuori”: secondo uno schema antichissimo (e che ci è tanto caro), i sentimenti stanno all’interno, per poi manifestarsi all’esterno. Ma è proprio così? Ricorda Grespi che per Sergej Ėjzenštejn “non si piange perché si è tristi, ma si è tristi perché si piange”. Che il diaframma tra interiore ed esteriore sia delicato e complesso lo avevano intuito anche gli antichi; Seneca, ad esempio, suggeriva di rovesciare le manifestazioni dell’ira: distendere il volto, rallentare la camminata, addolcire il tono della voce possono essere mezzi per accordare interiorità e aspetto esteriore.
È su questo campo dell’espressione che il presente si salda col passato. Le immagini che ci arrivano da altre epoche, magari lontanissime, trasportano frammenti della gestualità degli antenati: è la grande lezione di Warburg e, a proposito dei riti funerari, di Ernesto de Martino. Si spalanca un territorio vastissimo, tanto ricco di suggestioni, quanto infido. A volte riusciamo a orientarci, altre meno. Riusciamo a sapere come si piangeva nei rituali funerari dell’antichità o del pieno medioevo, fino alla modernità; altri ambiti, invece, sono molto più problematici, come quello dell’andatura: ad esempio, che cosa aveva di così sbagliato quel signore che nel IV secolo a. C. Demostene attacca in tribunale per la sua camminata?
Quando ci sono, è facile constatare corrispondenze gestuali tra passato e presente, ma spesso non è affare semplice (tanti sono i fattori in gioco) riconoscere filiazioni, derivazioni, parentele; e le analogie, ora riescono a produrre aperture inusitate, ora rischiano di funzionare solo sulla carta. Ad esempio, non sono convinto che esista un legame – come propone Grespi – tra il gesto delle lamentatrici del mondo classico e quello di tante attrici in posa dal secondo dopoguerra a oggi; si tratta sempre di mani portate verso il capo, ma muta la forma del movimento, e cambia con questa il senso dell’atteggiamento.
A proposito di mani, ad esse è dedicato il quinto capitolo del libro: qui Grespi non ci propone un repertorio iconografico di mani nel cinema (cosa che avrebbe comunque il suo interesse), ma un percorso straordinario e pieno di sorprese. Che oggi la mano sia tramite della visione, lo constatiamo tutti i giorni nel gesto accarezzante che apre gli schermi dei nostri dispositivi digitali; ma da sempre la mano, più precisamente il palmo, è luogo di prospettive e di memorie: ecco l’interpretazione delle linee nella chiromanzia, ma anche la scrittura musicale del medioevo. Con una serie di esempi tanto imprevisti, quanto incisivi, Grespi ci spiega che “l’idea del palmo come superficie di scorrimento di figure (passate in rassegna dalla memoria, riunite, mescolate)” fa parte da secoli dell’immaginario collettivo.
In tutto il saggio, del resto, il cinema dialoga persuasivamente con il mondo delle immagini e con la storia dell’arte. Ed è così per l’intero quarto capitolo (Posture), il cui tema è quello dell’andirivieni tra movimento e immobilità, tra stasi e animazione, tra sculture ed episodi di film. Gli antichi avevano creato miti su questi passaggi tra il marmo e la carne, tra la vita e la sua immagine: Pigmalione da una parte, Niobe dall’altra, statue che prendono vita e persone che si fanno di pietra.
Nella storia dell’arte e nella letteratura le occorrenze abbondano. Vale la pena ricordare anche alcuni casi intermedi: in Über das Marionettentheater (1810) Heinrich von Kleist mette in scena un giovane che assume la postura di una celebre statua antica, lo Spinario; la mirabile grazia di questo atteggiamento dura poco più di un istante, e il giovane non riuscirà mai più a ricreare quell’immagine classica col proprio corpo. C’è di mezzo la sorprendente somiglianza con una statua antica anche nel Marble Faun (1860) di Nathaniel Hawthorne. Grespi ricorda la moda dei tableaux vivants e, tra gli altri, un personaggio singolare, Lady Hamilton, moglie dell’ambasciatore inglese nella Napoli del Settecento; apprezzatissima (ma a volte presa anche un po’ in giro) quando nelle sue famose Attitudes assumeva, in veri e propri spettacoli pubblici, la posa di celebri statue classiche.
È ben comprensibile che il cinema fosse affascinato da questi trapassi da una condizione all’altra (un esempio è il già citato Fauno di Febo Mari). Grespi riesce a unire in questo unico filo episodi che a prima vista sembrerebbero estranei l’uno all’altro; e riesce a dare un nuovo risalto a una pagina celebre della storia del cinema: la scena iniziale di Luci della città, in cui un Chaplin squinternato e scattoso ha il suo da fare con tre statue, bianche, compassate e solenni.