Claudio Piersanti. Ogni rancore è spento

19 Giugno 2023

Ogni rancore è spento (Rizzoli, 2023), ultimo romanzo di Claudio Piersanti, si apre in un notturno invernale: Lorenzo sta tornando a casa, attraversa la città quasi deserta sotto una pioggia sottile mista a nebbia gelida, i lampioni ingialliscono i suoi passi veloci, quasi una fuga, mentre si allontana dalla casa della vicedirettrice e da un’intimità che lo disgusta, e in testa risuona un ritornello che gli parla incessantemente di decadenza e squallore.

Lorenzo Righi è un uomo di mezza età, di bell’aspetto, dall’eleganza naturale, medico stimato di un’esclusiva clinica privata “che è soprattutto un ospizio per vecchi ricchi, una camera mortuaria di lusso”, un Obituary, come la chiamano ironicamente tra colleghi, frequentato da ospiti tanto ricchi quanto malandati, come la Baronessa con la pelle pallida e lucida come sul punto di frantumarsi, così come i suoi fragili organi interni, o il vecchio Generale, ossessionato da numerosi e immaginari minuscoli insetti che sente correre sotto la pelle e cerca di stanare ferendosi disperatamente.

Di fronte ai suoi pazienti che scivolano verso la disgregazione Lorenzo non si affatica a nascondere un aspro cinismo; dopo anni di onorato servizio, la prossimità alla morte l’ha come anestetizzato: i morti non fanno impressione nella sua particolare visione della vita, “un agglomerato instabile di cellule, ferocemente occasionale, fragile, destinato in ogni caso all’annichilimento totale. Organismi biologici proiettati verso la morte”.

Addestrato a rattoppare corpi in principio di deterioramento, a scandagliare l’organismo in cerca di strappi, guasti e minacce, “la democrazia della morte gli era chiara e l’accettava, ma sentendosi compreso nel mucchio era da qualche anno entrato in una dimensione che cercava di mantenere segreta anche a sé stesso: l’ipocondria”.

Lorenzo è restio a dichiararsi ipocondriaco, preferisce considerarsi “soltanto un uomo troppo informato”, che conosce uno sterminato numero di malattie, anche rarissime, d’altronde, si dice, “la scelta più ragionevole che poteva fare un uomo di scienza era vivere nel terrore, oppure dissolversi nella pazzia, stordirsi nella sfrenatezza, nel nichilismo, nel carpe diem senza domani perché in effetti il domani è pura illusione”.

Solo, nella sua casa buia, illuminata e tenuta insieme solo dalle cure della sua domestica Betty, senz’altra distrazione se non il suo lavoro, Lorenzo aveva liberato il campo da affetti e passioni, falciando via ogni legame o relazione e il terrore si era insinuato in lui a poco a poco, “o meglio la sua ombra, il suo avamposto, cioè il sintomo strisciante. La semeiotica, i segni, i simboli nella loro perfida ambiguità”. 

Aveva iniziato a scivolare in un gorgo di paura e sospetto, svegliandosi di notte terrorizzato, con la sensazione di soffocare, concentrandosi per analizzare un “minuscolo ostacolo nella gola, come una minuscola ferita”, impercettibili punture, graffi, fitte, sintomi che poi scompaiono com’erano venuti lasciando un’eco funerea, lasciandolo afflitto da un presagio.

Se “la salute consiste nel non sentire il corpo, nel non doversene occupare”, il corpo di Lorenzo comincia a mandargli segnali che non riesce a ignorare, la “sensazione di sentire qualcosa che sapeva di non poter sentire”, ma che era già dentro di lui, tra “cellule maledettamente piccole e sotto quel mondo minuscolo altri mondi inaccessibili” dove il male covava a sua insaputa, pronto a sopraffarlo.

Il corpo risponde a quel sentire e sembra disfarsi sotto la sua attenta osservazione; una sera, mentre è a teatro insieme a persone che mal sopporta, lo coglie un improvviso malessere: tachicardia, sudorazione, nausea, e “soprattutto malinconia, un sentimento luttuoso per sé stesso, la certezza della fine”. 

Lorenzo si sente travolto da un malessere esistenziale, dall’ontalgie di cui scriveva Queneau, un’angoscia substanziale, un “male morale”, il dolore del vivere con la consapevolezza della morte.

Lorenzo immagina la sua morte e il sentimento che sgorga è una rabbia tellurica, che lo sconvolge e lo avvelena. Pensa ai soldi accumulati, all’eredità che sta per lasciare, è inorridito dall’idea che i suoi risparmi finiscano nelle mani di suo padre, volato in Brasile dopo aver abbandonato lui e la madre malata, e da lui cancellato, insieme alla nuova famiglia e ai guai che ha generato oltreoceano.

Sono la paura di morire e la rabbia per il padre a ricondurlo da Paolo-MezzaSventola, amico di gioventù tornato in città e incontrato per caso poco tempo prima, la sera in cui rincasava invaso dallo squallore, riconosciuto in un abbaglio, oltre fanali dell’auto che lo accecano per un istante.

“Due terzi delle cose della vita sono in balia del caso, pura fortuna” dice Lorenzo, e gli incontri che segnano le svolte nel romanzo – quello con Paolo, quello con la sorellastra Rosalba, che si presenta all’improvviso davanti al suo portone o quello con la collega Gloria, con cui inizia una relazione – gli piovono addosso come per caso, piccole o grandi collisioni incidentali che deviano il corso della sua vita.

Paolo è un armatore che ha accumulato un’enorme fortuna, ha girato il mondo e collezionato successi e infatuazioni, ma non riesce a possedere nulla senza condividerlo ed è roso, come da un morbo, dalla noia. 

Il suo ritorno trasmette a Lorenzo “uno strano malessere, come se avesse bevuto o fumato quelle porcherie che fumavano da giovani”; “forse la mia noia e la tua paura della morte sono due facce della stessa medaglia” dice Paolo all’amico poco dopo averlo ritrovato, offrendogli in dono una panacea capace di cancellare in pochi istanti qualunque preoccupazione.

Paolo è un Lucignolo che spinge Lorenzo a sfidare limiti e giudizio, con il rischio di perdersi dentro un’illusione di libertà dal dolore, ma che è anche capace di illuminare per lui verità nascoste e aspetti di sé che aveva rimosso.  

Lorenzo ha dietro di sé un passato di ribellione, contestazioni e violenza, “poi gli era venuta questa smania della perfezione e il mondo si era rimpicciolito intorno a lui [...] cos’era questa perfezione? Pigrizia, paura, solitudine. Paura del cambiamento, del male, dell’orrore”. 

Per Lorenzo, Paolo è uno specchio che riflette l’immagine di un uomo che ha sempre rifuggito qualunque legame, mosso da rabbia, necessità, vendetta: “non aveva mai conosciuto una fede, neppure per una squadra di calcio o di basket. Anche da giovane, non era stato un rivoluzionario idealista, ma soltanto un casseur ragazzino infuriato col mondo intero e con nulla di preciso in mente”.

Quando Lorenzo, a un certo punto della sua storia, ribadisce il proposito di dare addio alle “cose sentimentali”, ai piaceri del corpo, abbracciando senza rimpianti l’autunno della sua esistenza, Paolo ride riconoscendo l’ennesimo gesto “plateale, romantico e soprattutto inutile, teatrale”: “hai deciso che ti vuoi ritirare dal mondo e fare una vita solitaria. Ma è quello che hai fatto sempre! – gli risponde – Per la paura di sbagliare sei rimasto sempre chiuso nella tua tana a contarti i pidocchi”.

In mezzo al silenzio della terra bruciata su cui ha fondato la sua vita, dei rapporti lasciati appassire o tirati via come erbacce, Lorenzo ascolta i minuscoli suoni, i pruriti, gli scricchiolii dentro il suo corpo, che la scrittura di Piersanti ricostruisce con esattezza tanto nella disperazione quanto nella sospensione dell’angoscia che, in alcuni momenti, apre squarci di contemplazione e d’incanto.

Lorenzo è da tempo “completamente concentrato su sé stesso e degli altri non gli importava nulla, la cupezza del mondo era una sorta di buio interiore che lo invadeva e che nessuno poteva vedere” ed è in questo buio che si insinua Rosalba, la sorellastra non voluta che si infila nella sua vita portando luce nella sua casa, nel suo giardino, nella sua esistenza, con l’allegria dirompente dell’adolescenza e il contagio dell’entusiasmo e della meraviglia.

Lorenzo si sente morente, Rosalba gli appare sorgiva, traboccante di salute e di possibilità, ancora senza colpa o peccato, e si lega a lei senza sforzo, scoprendo un affetto disinteressato e sincero.

La presenza di Rosalba nella sua vita spalanca un territorio nuovo, in cui trova spazio anche Gloria, dottoressa e collega di Lorenzo, che mette alla prova la forza del disamore che da sempre ha dirottato le sue scelte e il suo destino.

Lorenzo è disorientato, fatica a credere in una seconda possibilità, in quel “tempo supplementare” che la sorte sembra disposta a concedere proprio a lui, che non crede nel domani ed è in lotta con la morte che gli si nasconde dentro e cerca di carpirlo, una cellula alla volta.

“Tu devi riconciliarti” gli dice Paolo, incapace di seguire i suoi stessi consigli, determinato a camminare sul crinale tra l’autoregolazione e la resa, che si spinge verso una via d’uscita che pare una trappola, una strada chiusa.

E a Lorenzo non resterà che scegliere, tra l’ennesima via di fuga e la vita che continua a crescergli intorno, nonostante la sua paura, e attecchisce anche dove tutto sembra deteriorarsi e appassire.

Andando verso la vita, la morte sembra arretrare e se la preoccupazione per sé stesso, che lo fa ripiegare sul proprio male, sembra accelerare quel processo di disgregazione che sente dentro e che è la vita stessa, la preoccupazione rivolta agli altri, sotto forma di attenzione e di cura, appare salvifica, per chi gli è accanto e per sé stesso. Come la candela che accendeva sua madre durante tutti i suoi viaggi in aereo, nella convinzione che la sua preoccupazione potesse proteggerlo, quella superstizione, o potere, che Lorenzo riconosce infine come un’eredità, un dono che è fallibile e precario quanto la vita, come ben sa un bravo medico, o un uomo troppo informato.

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