Paradisi artificiali / Cocaina

28 Luglio 2018

La prima menzione è nel rapporto che un prete spagnolo, Thomas Ortiz, invia nel 1499 ai suoi superiori. Gli indigeni della costa settentrionale dell’America Meridionale si servono di una pianta che chiamano “hayo”. Nella carta al re Renato II Amerigo Vespucci fornisce indicazioni sull’uso della medesima pianta da parte degli aborigeni delle foci del Rio Pará. Man mano che la conquista procede, aumentano le segnalazioni. Francisco Pizarro e i suoi compagni ne vengono a conoscenza nel 1533. Sarà Pedro de Cieza de Leon a dettagliarne l’uso: la coca, questo il nome della pianta, infonde vigore e allontana i morsi della fame. Ci vorrà del tempo affinché i botanici identifichino due specie distinte. Un botanico francese porta in Europa i semi nel 1750. Viene descritta da Jean-Baptiste Lamarck: Erythroxylon coca. Si tratta di un arbusto di forma piramidale che può arrivare sino a quattro o cinque metri di altezza. Somiglia a un prugnolo e ha una corteccia di colore rosso-bruno, fiori giallastri, che si tramutano in frutti rossi senza nocciolo. La foglia è ovoidale o lanceolata, verde scuro, dimensioni variabili da 9,5 cm di lunghezza a 4,5 cm di larghezza.

 

Illustrazione di Aaron Glasson.


Classificata dal farmacologo Louis Lewin in Phantastika nel 1924 tra le sostanze euforizzanti, è il più antico e forse più tipico dei narcotici dell’America Meridionale. Con il nome di coca sono designate dieci specie americane di eritrossilacee ricche di alcaloidi, tra cui appunto la cocaina. Sul suo uso si apre subito una discussione: nociva o utile? Ci pensa il Concilio di Lima nel 1567-68 a rispondere: va proibita poiché vincola il mondo indio alle religioni magiche, il che rende difficile l’evangelizzazione. Pianta diabolica, bisogna sradicarla per sradicare l’idolatria. Ma come si farà a far lavorare gli indios senza il beneficio di questa foglia da masticare? Così la “planta divina” continuerà a essere usata nel corso del Seicento e del Settecento nell’America Meridionale. In Europa arriverà solo in seguito e si muterà in cocaina mediante tre procedimenti di trasformazione in sostanza. Il principale è l’estrazione diretta: si sciolgono le foglie in acido solforico e si precipitano così gli alcaloidi con bicarbonato di sodio; ne deriva la pasta di coca, una polvere bianca o bruna di odore dolciastro, che può essere fumata. Per produrre la cocaina vera e propria si scioglie la pasta nell’acido cloridrico usando anche permanganato di potassio e carbonato di sodio: cocaina cloridrato, pura tra il 70 e il 90%. Quella che è immessa nel mercato, la droga di strada, viene tagliata con altre sostanze attive o inerti. Gli effetti della cocaina sono euforia, stimolazione sessuale, aumento di energia, riduzione del sonno e dell’appetito, aumento della lucidità mentale e della forza muscolare. Lewin la classificava tra le sostanze che producono effetti euforici, in realtà è un eccitante.

 

Come ha detto un consumatore, “non è una droga che ti ‘fa’, è una droga che ti fa fare”. Se gli oppiacei tendono a provocare una perdita d’interesse nell’io isolandolo dall’ambiente circostante, la cocaina fa sentire padroni di tutto: amplificazione dell’Io; il suo esito patologico sarà uno stato di paranoia. Fino alla fine del XIX secolo non approda davvero in Europa. Sarà nel 1871 Paolo Mantegazza, medico e neurologo, frequentatore del Sud America, il primo scienziato che ne fa uso, a descriverne gli effetti alla stregua di un medicinale, o come stimolante, in Quadri della natura umana. Feste e ebbrezze: “La coca possiede la preziosissima qualità di eccitare il sistema nervoso e di farci godere colla sua fantasmagoria uno dei maggiori piaceri della vita”. Il mondo industriale se n’è già interessato. Angelo Mariani, corso che opera a Parigi, lancia nel 1863-1864 un prodotto alcolico con un estratto della foglia di coca: “Vino Mariani alla Coca”. Successo immediato. Lo bevono e lo lodano Jules Verne, Ibsen, lo zar di Russia e Leone XIII; il papa lo premia con una medaglia d’oro. L’idea arriva in America dove un farmacista di Atlanta crea una bevanda che attraverso vari passaggi diventa “Coca Cola”, sostituendo il vino con un estratto di noce di cola. Il nome di cocaina gli deriva da un chimico tedesco, Albert Niemann, dopo che fra il 1855 e il 1869 altri due scienziati tedeschi hanno scoperto il principio attivo delle foglie.

 

L’uso che ora se ne fa è quello d’anestetico locale. Qui entra in scena un giovane medico viennese in cerca di fama e di successo: Sigmund Freud. Ha 28 anni ed è ambizioso. La scopre e l’acquista. È cara e perciò la compra a credito. La prova e si accorge che il suo umore depresso muta di colpo. La consiglia anche alla fidanzata e a un amico che sta cercando di liberarsi dalla morfina. Nel luglio del 1884 pubblica Sulla cocaina, scritto che oggi non si legge nelle sue opere complete canoniche. Il farmaco, scrive, cura disturbi gastrici, cachessia, dipendenza da alcool e morfina, asma ed è un buon afrodisiaco. Lo legge un oftalmico viennese, Carl Koller, e avrà l’idea di usufruirne come anestetico nella chirurgia dell’occhio. Freud non ha quello che sperava. Continua a usarla sino al 1895 per curare fastidiosi congestioni nasali, e scrive Osservazioni sulla dipendenza e sulla paura da cocaina.

 

Un altro investigatore di segni, Sherlock Holmes, nato dalla penna di Conan-Doyle, nel romanzo Il segno dei quattro (1890) se l’inietta in “una soluzione al sette per cento”.  Consuma cocaina l’alta borghesia ma anche il mondo degli artisti, i giocatori d’azzardo e le prostitute. Nel 1916 si diffonde tra i soldati che combattono, mentre i dentisti la usano come anestetico. In America l’Harrison Act nel 1914 la include tra le sostanze proibite. La sua storia, ha scritto Giancarlo Arnao, mostra come tra “medicine” e “droghe” esista un dato comune: il meccanismo farmacologico. Diverse malattie e disturbi mentali vengono curati con medicinali psicoattivi, i cui effetti sono analoghi quelli delle droghe illegali. La ricerca del benessere, ci ricorda Wolfgang Schivelbusch, coinvolge i cosiddetti “intossicanti voluttuari”, ovvero tè, caffè, tabacco, che fungono da stimolanti, e  l’alcool, che è un depressivo euforizzante. Le sostanze voluttuarie non sono considerate droghe; il confine corre tra legale e illegale. Nel 1986 l’anonimo protagonista del romanzo Le mille luci di New York sente cantare nella sua testa l’esercito dei soldatini boliviani mentre tira la cocaina. Prima di lui William Burroughs in il Pasto nudo (1959), percepisce la medesima euforia concentrarsi nel suo capo prima che la depressione l’avvinca definitivamente, e tutto ricominci da capo. Senza fine.

 

Cosa leggere per saperne di più

G. Arnao, Cocaina e crack (Feltrinelli); il “classico” di L. Lewin, Phantastica. Euforizzanti: oppio, morfina, eroina e cocaina (Savelli Editori); il fondamentale libro di U. Leonzio, Il volo magico (Einaudi); A. Escohotado, Piccola storia delle droghe (Donzelli); sull’uso da parte degli scrittori si veda: A. Castoldi, Il testo drogato (Einaudi); W. Schivelbusch, Storia dei generi voluttuari (Bruno Mondadori); il testo dell’antropologo M. Taussing, Cocaina (Bruno Mondadori); S. Freud, Sulla cocaina (Newton Compton); due libri tra i tanti che ne trattano: J. McInerney, Le mille luci di New York (Bompiani), W. S. Burroughs, Pasto nudo (Adelphi). 

 

Questo articolo è uscito in versione più breve su La Repubblica, che ringraziamo

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