Conosci i neuroni e conoscerai te stesso
Sono usciti da poco due volumi per la fortunata collana scientifica di Raffaello Cortina dedicati allo studio della mente dal punto di vista delle neuroscienze. Sono volumi densi di scoperte recenti circa il funzionamento del cervello e del sistema nervoso. Ma è soprattutto la speranza di utilizzare la scala dei neuroni per arrivare alla luna della coscienza che anima sia gli autori che i loro avidi lettori. Direi che è evidente che il grande successo editoriale dei testi di neuroscienze dipenda proprio dal fatto che, in modo trasparente, questa disciplina si proponga sempre come la nuova scienza della mente e quindi, di noi stessi. Per molti, la massima «conosci te stesso» è diventata «conoscere il proprio cervello».
Eppure, e potrò stupire qualcuno, il fatto è che al centro di questo sforzo immane, che da circa cento anni vede impegnati neurofisiologi di ogni tipo, c’è ancora un enorme vuoto. La nostra mente, nella sua versione soggettiva, cioè la coscienza, rimane misteriosa e invisibile come sempre. Ogni anno, qualche neurologo di fama ci presenta una serie di risultati di grande interesse, ci elenca i ritrovati ultimi circa i meccanismi di funzionamento del sistema nervoso e poi, nel momento in cui vorremmo finalmente ci fosse rivelato il colpevole (ovvero la natura della coscienza e come i neuroni producono noi stessi) siamo lasciati a bocca asciutta. Piuttosto deludente …
Il primo libro di cui parliamo, Sentirsi vivi. La natura soggettiva della coscienza (Cortina, 2021), è l’ultima fatica di Christof Koch, un nome molto noto negli studi della coscienza, un austriaco alto e dotato di uno sguardo penetrante che, dopo anni al Caltech, si è trasferito a Seattle per fare il direttore dell’Allen Institute for Brain Science. Koch, bisogna dargliene atto, ha iniziato a studiare la coscienza quando, nei primi anni Novanta, era considerata un tema di studio poco rispettabile insieme con Francis Crick, il biochimico vincitore del premio Nobel per la scoperta del DNA. Da allora Koch ha cambiato idea molte volte, ma ha mantenuto due convinzioni profonde. Primo, la coscienza è un fatto che deve essere spiegato scientificamente. Secondo, la coscienza è prodotta all’interno del cervello. Mosso da queste premesse, ha sempre cercato qualche prova sperimentale empirica che le dimostrasse. Più di altri ha cercato dentro il cervello la fonte della nostra esperienza cosciente. Ci è riuscito? Nonostante le sue numerose infatuazioni per svariate ipotesi, finora la risposta è negativa.
In questo volume, brillante come sempre, Koch ci parla della sua nuova fiamma, ovvero la teoria dell’informazione integrata di Giulio Tononi, un italiano (ormai molto americano) che lavora da anni per l’università del Wisconsin. Il libro è scritto con l’impeto (e forse anche la miopia selettiva) che contraddistingue le prime fasi di una grande passione. In che cosa consiste? L’idea di base è che i neuroni realizzino dei processi causali molto aggrovigliati tra loro e che questo intreccio crei un livello di realtà aggiuntivo rispetto a quello della materia, per l’appunto l’informazione integrata o, usando una elegante lettera greca, phi. La coscienza sarebbe dunque tutt’uno l’informazione integrata (o phi) che il nostro sistema nervoso produrrebbe internamente. Tutto quello che sentiamo, percepiamo, vediamo, odoriamo non sarebbe altro che informazione integrata. Noi stessi non saremmo altro che un frammento di informazione integrata particolarmente consistente. È bene sottolineate che si tratta di una teoria sicuramente molto discussa ma che non è affatto condivisa da tutti.
Il principale problema di questa teoria è la mancanza di prove ultime dell’esistenza dell’informazione integrata. Questa grandezza è anche difficile da calcolare e non ci sono, finora, esperimenti che ne provino l’esistenza come si è fatto per altri fenomeni esoterici (antimateria, buchi neri, materia oscura, bosone di Higgs). Inoltre, allo stato attuale delle cose, anche se si dimostrasse l’esistenza dell’informazione integrata resterebbe ancora aperta la domanda sul perché l’informazione integrata debba corrispondere alla nostra esperienza. In fondo, l’informazione (integrata o meno che sia) non ha colore, odore e significato. Postulare che lo abbia non è una spiegazione, ma un dictat. Phi, il soprannome proposto per questa grandezza, potrebbe alla fine stare per phantom, un fantasma tra i neuroni.
La teoria di Tononi, ben raccontata nel libro di Koch, risulta attraente per un fatto, come dire, estetico … cioè si presenta sotto forma di una articolata formalizzazione matematica. Anche nella scienza, spesso, è il vestito che fa il monaco. Dai tempi della dichiarazione d’amore di Galileo per i caratteri matematici in cui sarebbe scritto il libro della natura, il fatto di poter descrivere un fenomeno in termini quantitativi astratti è sempre stato visto con favore (con notevoli eccezioni quali la teoria dell’evoluzione). L’informazione integrata diventa così l’equivalente contemporaneo delle grandezze galileiane che erano, a loro volta, la declinazione moderna delle forme platoniche. Dentro l’informazione integrata di Tononi troviamo il mondo iperuranio di Platone. È curioso che un ricercatore come Koch, sempre alla ricerca di un fondamento sperimentale, si appoggi a una visione trascendentale della realtà.
Il merito maggiore del libro è insistere sulla necessità di considerare la coscienza come fatto primo e ineludibile; una qualità molto acutamente colta nella prefazione al volume scritta dal neurologo milanese Marcello Massimini. La coscienza non è solo quello che i neuroni fanno; non è solo una funzione, ma deve corrispondere a qualcosa di reale, quindi a un fenomeno fisico ben definito. In questa direzione, certe ingenuità filosofiche di Koch possono essere perdonate: a volte è meglio sbagliare facendo ipotesi chiare che restare in posizioni ambigue per evitare di esporsi.
Di genere molto diverso, anche se nello stesso ambito, è il secondo volume, scritto dal neurologo senese Simone Rossi, Il cervello elettrico. Le sfide della neuromodulazione (Cortina, 2020). Anche in questo caso le pagine scorrono veloci riassumendo in modo molto piacevole la storia del difficile, ma affascinante, rapporto tra il nostro sistema nervoso ed elettricità. Si tratta di un rapporto a due vie: in entrata quando stimoliamo il cervello usando elettricità o in uscita quando leggiamo il contenuto dell’attività neurale attraverso strumenti quali l’elettroencefalogramma (l’EEG).
Anche per il neurologo senese, scienza e passione sono indivisibili. La vita di uno scienziato è ciò che studia e ciò che studia è per lui sostanza dei suoi giorni. Rossi, da sempre in prima linea per sperimentare nuove tecnologie di neuromodulazione, ci prende per mano e ci porta nel suo privato familiare e professionale. Attraverso il suo punto di vista, vediamo e capiamo come oggi sia possibile leggere e scrivere nel cervello facendo uso dell’attività elettromagnetica. Il volume passa in rassegna tutti i metodi per tradurre i segnali nervosi in segnali elettrici e viceversa: dall’EEG alla TMS passando attraverso una galassia di metodi e sigle. La trattazione non è mai noiosa e Rossi sa renderla vivace e comprensibile grazie a molti aneddoti che hanno contraddistinto questo campo di studi (dai pazienti che hanno riacquistato la loro potenza sessuale al povero toro controllato da uno stimolatore piazzato dentro il suo cervello dal neurologo Delgado). Complessivamente, l’impressione è che – rispetto al duo Koch e Tononi – Rossi sia più concreto e più vicino al sistema nervoso in quanto sistema biologico. Si intuisce in lui una grande accortezza nell’evitare di dire quello che ancora non si sa; non abbraccia ipotesi grandiose sulla natura della coscienza e, come nel Galileo di Brecht, con il suo esempio ci ricorda che il più grosso errore della scienza è presumere di sapere ciò di cui si è ancora ignoranti. Il suo percorso si muove sempre sul terreno solido dell’esperimento puntuale quasi sempre vissuto in prima persona.
Un’altra impressione è che nel libro di Rossi ci siano due anime: una veramente sua (precisa ed empiricamente fondata) e una che prende a prestito dalla sua disciplina (astratta e ambigua). La prima è rappresentata da Rossi stesso nel suo percorso di ricerca sui neuroni. È un discorso asciutto, preciso, senza strappi o incertezze. I neuroni sono neuroni e non si pretende di colmare l’abisso che separa la biologia dalla mente per lo meno fintanto che non si abbiano prove sperimentali. La seconda anima si manifesta quando Rossi dà voce alle neuroscienze e ha il compito inevitabile di riassumere il quadro di riferimento dentro il quale si muovono le neuroscienze. In questa veste, l’autore non può che basarsi sui concetti e le premesse consolidate e la sua penna tradisce una voce diversa. Improvvisamente molte delle proposizioni si fanno astratte, quasi metafisiche, antropocentriche. E così i neuroni «comunicano», si «parlano», addirittura «provano dolore».
Non sto facendo una critica a Rossi che ha scritto uno dei migliori testi sul cervello oggi disponibili! Però, lui come tutti i neuroscienziati, non possono evitare di muoversi da un quadro di riferimento che risulta, in molti casi, antropocentrico e metafisico. È antropocentrico nella misura in cui il cervello è messo al centro dell’universo della mente (non più l’anima, ma comunque un organo interno al nostro corpo cui si attribuiscono poteri speciali, come nel caso dell’informazione integrata). È metafisico nel momento in cui, proprio come Tononi, si considera l’esistenza di un livello aggiuntivo alla realtà fisica, e poco importa se l’etichetta sia spirito, informazione, phi. Se la prendiamo ontologicamente sul serio, l’informazione è qualcosa di posticcio (o di dualista) che si aggiunge alla casa fisicalista, ovvero al mondo delle cose.
Ma fortunatamente questa metafisica nascosta non è certo una criticità esclusiva né di Rossi né di Koch. Sono entrambi scienziati appassionati e le loro pagine traboccano di descrizioni piene di vita, di entusiasmo e di dati su come funziona il nostro cervello.
Resta un’ultima domanda che, in fondo, rivela l’ambizione delle neuroscienze di diventare una scienza della mente: come mai i libri sul funzionamento del fegato, del sistema immunitario, del metabolismo non sono altrettanto popolari di quelli sul cervello? Come mai i lettori non sono altrettanto curiosi delle miofibrille di quanto lo sono dei neuroni? La risposta – direi evidente – è che le neuroscienze ci hanno presentato la loro disciplina come una specie psicoanalisi 2.0 su base biologica e computazionale; quindi una conoscenza vera. Conosci i neuroni e conoscerai te stesso! E chi non vuole conoscere se stesso? Una volta il prete, poi lo psicoanalista e oggi il neuroscienziato! Ma questa è ancora una volta una cambiale epistemica, ovvero uno «spiegherò».
È un po’ come essere sopra un vascello e cercare di raggiungere l’orizzonte. Si guarda la linea lontana. Si è bravi marinai. Si fanno dei progressi e si procede con il vento in poppa, ma l’orizzonte resta sempre là, ostinatamente lontano ed eternamente irraggiungibile anche se ogni giorno si coprono miglia e miglia. In un certo senso, per raggiungere l’orizzonte c’è solo un modo: smettere di fare i marinai, imparare a volare molto in alto e, dallo spazio, catturare con lo sguardo l’intera circonferenza terrestre. Solo da quella prospettiva ortogonale al paradigma in uso – una prospettiva che non si trova sulle mappe nautiche – i marinai diventati astronauti o almeno astronomi potranno comprendere l’estensione e la natura dell’orizzonte terreste; non certo lavorando di vela e di remo. Forse, come l’arte nautica ha dovuto trasformarsi in astronomia, così le neuroscienze dovranno guardare oltre i propri limiti. Finora, però, i marinai delle neuroscienze hanno preferito continuare a navigare nelle acque a loro familiari e «il naufragar m’è dolce in questo mare» … di neuroni.