Critica del non-monumento
Non è più tempo di monumenti, il nostro, di monumenti monumentali, di monumentalità e monumentalismo – tutte cose tendenti al grandioso, all’imponente, alla commozione esagerata ma dovuta, con effetti che Immanuel Kant avrebbe chiamato di sublime matematico, sorpresa (wow) data per addizione potenzialmente infinita – dunque sospetta. Che cosa avremmo di così importante da monumentalizzare, in un’epoca come la nostra, caratterizzata da tutte le crisi possibili e immaginabili, private e pubbliche, individuali e collettive?
Un monumento che si rispetti è la materializzazione della volontà di ricordare una situazione o un personaggio eccezionali, di eternare qualcosa fuori dalla norma, unico e inconsueto. Cose degne d’un mausoleo, insomma. Con tutti i paradossi del caso. Per esempio, come già rilevava Platone a proposito della scrittura, affidare la memoria a un qualche supporto è, da un lato, mantenerla viva ma, dall’altro, delegarla a un oggetto esterno, dunque in qualche modo dimenticare. La monumentalità pone poi un altro problema, quasi un dilemma: faccio il monumento di una cosa eccezionale o la cosa diventa eccezionale perché ne ho fatto un monumento? Come dire: abbiamo ancora qualcosa da rendere speciale facendone un monumento? Oppure ogni monumento è inevitabilmente, come sostiene la cancel culture, l’esaltazione di qualcuno o di qualcosa che non lo meritava poiché colpevole dell’esclusione di qualcun altro? Insomma, l’oggettivazione del ricordo non è mai oggettiva, dato che comporta sempre una revisione, una trasformazione, una traduzione in vista di un qualche ulteriore obiettivo: ideologico, politico, estetico, etico e così via.
Ma adesso che siamo tutti eroi per un giorno, personaggi virtuali a cui nessuno negherebbe un quarto d’ora di celebrità, non veniamo monumentalizzati a ogni istante? Siamo certi di aver bisogno di monumentini ulteriori? Basta uno starnuto fuori stagione ed ecco che i media – vecchie e nuovi, manco a dirlo – ci proclamano Eroi del Raffreddore. Soccorriamo un tizio che è caduto dalla motocicletta ed eccoci Angeli della Strada, con tanto di foto in prima pagina e milioni di like. Spegniamo un incendio nel boschetto dietro casa e acquisiamo lo status di Pompiere Ideale, modello d’ogni possibile vigile del fuoco che si rispetti. Salvo poi, si sa, esser prontamente dimenticati all’affacciarsi d’un nuovo eroismo quotidiano. Più superlativi pronunciamo, più diminuitivi vengono fuori.
La nostra è l’epoca del monumento portatile, comodo da condurre in giro ed essere utilizzato alla prima qualsiasi occasione, dato che è proprio il qualsiasi a farsi oggi furbamente mitico. O meglio – come ha chiarito Andrea Pinotti, filosofo e teorico delle arti contemporanee, in un bel libro che discute con attenzione e passione tutti i risvolti della questione – oggi più che mai siamo invasi da nonumenti (ed ecco che word me lo segna subito in rosso, pur non essendo un errore di stampa ma un’etichetta azzeccata per indicare il contrario dialettico dei monumenti). Nonumento è difatti il titolo del volume di Pinotti (Johan & Levi, 2023, pp. 320, € 25), che è insieme una ricognizione delle differenti forme di nonumento che, grosso modo a partire dagli anni Sessanta del Novecento, sono venute fuori nelle arti plastiche, una panoramica del dibattito che esse hanno suscitato e, ancora, una riflessione teorica su queste stesse pratiche artistiche, le quali conducono, surrettiziamente, a una revisione generale della stessa estetica filosofica.
Così, un nonumento, secondo Andrea Pinotti, si dice in molti modi, altrettanti dispositivi per contestare, decostruire, aggirare o ribaltare le supposte proprietà essenziali dei monumenti tradizionali. Ci sono innanzitutto i monumenti “antisublimi”, che mirano a degradare ironicamente l’hypsos per esaltare semmai il bathos, ossia il profondo, con tutta la raffinata arte che un poeta come Alexander Pope definiva dell’affondare, dell’immergersi e dell’immergere. Un po’ come faceva nel ‘67 Robert Smithson quando indicava come monumenti un misero ponte del New Jersey e le annesse tubature di scarico delle fognature locali. A questi si collegano, prendendoli alla lettera, i nonumenti “immergenti”, quelli che materialmente invertono verso il basso l’erezione verticale della statua più classica. Come il Broken Obelisk di Barnett Newman, una piccola piramide in corten al cui vertice è saldata la punta di obelisco: da un lato una strizzata d’occhio all’antico Egitto, dall’altro un virtuosismo tecnico che, intimorendo lo spettatore (“cadrà?”), pigia il pedale della rottura, della discontinuità inevitabile.
Vengono poi i nonumenti “invisibili” che, cancellandola, insistono sulla proprietà ritenuta essenziale di ogni monumento, quella dell’essere palesemente accessibili innanzitutto alla vista. Ma se il monumento, come sosteneva Robert Musil, soffre di invisibilità per eccesso di visibilità (sta lì, sempre e comunque, al punto che nessuno s’accorge della sua presenza), un modo per salvarlo, seguendo questo tipo di nonumento, sarebbe quello di nasconderlo, cosicché tutti si accorgano della sua presenza. In questo senso, osserva Pinotti, quando Christo impacchetta edifici come il Reichstag berlinese, sta facendo una operazione assai simile a quella che un filosofo come Edmund Husserl chiamava epoché: un mettere fra parentesi l’ovvietà per riottenerla a un grado più alto di consapevolezza. In modo abbastanza analogo ha agito Jochen Gerz a Saarbrücken col suo “Monumento contro il razzismo”: nottempo ha inciso nei 2146 ciottoli della piazza principale della città i nomi dei cimiteri ebraici operanti in Germania prima del nazismo, riposizionando poi ciascun ciottolo con la parte incisa verso il basso, in modo da rendere del tutto invisibile sia le scritte sia l’intera operazione. E adesso la piazza si chiama Piazza del Monumento Invisibile.
Non possono mancare i nonumenti “effimeri”, quelli che lottano contro l’idea di eternità, o quanto meno di permanenza temporale, rimarcando l’idea del transit gloria mundi. Così alla Biennale di Venezia del ’78 il collettivo Superstudio ha presentato in delle vasche cinque monumenti di sale – una piramide, un anfiteatro, una cattedrale, la reggia di Versailles, il padiglione dell’Esprit Nouveau di Le Corbusier – innaffiati con una specie di fleboclisi che a poco a poco li scioglieva, rivelandone il segreto sottostante – rispettivamente, una struttura piramidale in fil di ferro, un insediamento abitativo, un guscio d’uovo, una brioche, una targa con su scritto “L’unica architettura sarà la nostra vita”. L’opera aveva per titolo “La moglie di Lot”. Lot nel Genesi diviene una statua di sale; qui al contrario il sale si scioglie, come, dice il collettivo di progettisti, l’architettura si scioglie nel tempo. Altro che permanenza. Altrettanto effimero è “Nelson’s ship in a bottle” di Yinka Shoninbare, artista anglo-nigeriano: una solenne nave in bottiglia installata a Trafalgar square accanto alla colonna con Nelson, le cui vele sono realizzate in coloratissimi tessuti tipici dell’Africa occidentale. Una commemorazione al contrario, per segnalare il dramma della colonizzazione che mal si nascondeva nell’imperialismo britannico.
Effimeri al massimo grado sono i nonumenti “atmosferici”, quelli che usano elementi immateriali come l’aria e la luce, in opposizione alla pietra, al marmo o al bronzo caratteristici dei monumenti tradizionali. Così, là dove stavano i giganteschi Buddha afghani distrutti dai talebani, nel marzo del 2021 Zarha Hussaini ha installato una riproduzione in 3D delle statue in modo da proiettarli nelle nicchie rimaste vuote. Operazione assai simile, formalmente, a quella di “Tribute in Light”, opera che supplisce con ottantotto fasci di luce, ogni 11 settembre, alle torri newyorkesi del World Trade Center abbattute da quegli stessi simpatici signori.
E ancora, per esaurire rapidamente la minuziosa tassonomia ricostruita da Andrea Pinotti che andrebbe raccontata per esteso (rimandando quindi alla lettura di questo libro – diciamolo – monumentale), ci sono i nonumenti “aumentati” (che sfruttano le opportunità delle tecnologie digitali), quelli “performativi” (che lavorano col gesto e il movimento), quelli “interrativi” (che prevedono una relazione fisica fra opera e fruitore), quelli “riappropriati” (che risemantizzano memoriali preesistenti) e infine quelli “intransitivi” (che svuotano di senso le tradizionali forme commemorative). Si tratta di categorie astratte che, sottolinea Pinotti, possono intrecciarsi fra di loro (un nonumento, per esempio, può essere effimero e insieme aumentato), ma che costituiscono la prima importante traccia di un immenso lavoro di rielaborazione insieme pratica e teorica su alcune fra le principali manifestazioni dell’arte contemporanea, nelle sue interazioni, costanti e inevitabili, con società e culture a dir poco perplesse, fluttuanti, multiformi, contraddittorie.
In tal modo Andrea Pinotti non ha soltanto scritto un testo su un tema più o meno complesso dell’estetica filosofica ma ha proposto una riflessione neanche tanto nascosta sull’estetica filosofica stessa, in quanto tale, nella sua generalità. Il nonumento, in fondo, non è che la via negativa per parlare, non solo del monumento (di cui a poco a poco son venute fuori le proprietà ritenute stereotipe: permanenza, visibilità, durezza etc.), ma d’ogni arte in generale, sempre più stereotipo di se stessa. In questo, il libro (come s’è detto monumentale) compie allora lo stesso gesto del nonumento. Quello d’essere fondamentalmente una forma di provocazione, una scossa allo status quo.
Il mio programma di scrittura, quando ho digitato per la prima volta la parola “nonumento”, l’ha sottolineata in rosso come se fosse un refuso. Aveva insieme ragione e torto. Il termine è un neologismo, ma ogni refuso, dice ancora Pinotti, è etimologicamente un riversaggio, un mettere un carattere tipografico nel cassetto sbagliato. E non ritrovarlo mai più. Salvo poi inventarsi una nuova forma di scrittura, di linguaggio.