Dadamaino: il movimento delle cose

26 Febbraio 2024

Dada raccontava, in uno di quegli aneddoti che stranamente si ripetono variati come scene primarie nella storia dell’arte del XX secolo, che un giorno, siamo nel 1956, lei è ventenne, vede dal finestrino del tram, a Milano, in una vetrina uno strano quadro pieno di buchi. Era naturalmente un Fontana. Scende dal tram, va a vedere da vicino e scopre che c’era un modo nuovo di fare arte. Tutto inizia lì. Buchi: lo sanno tutti ormai che si trattava di “spazialismo”, cioè di una ricerca sulla raffigurazione dello spazio che rispondesse, come Fontana aveva scritto nel Manifesto bianco, allo spazio contemporaneo, infinito, non più prospettico, percorso non solo da aerei ma da onde e quant’altro.

Dada comincia a frequentare il bar Giamaica, dove incontra intellettuali e artisti, tra cui Piero Manzoni, e inizia un dialogo diretto con i protagonisti di quella scena. Nel 1958 elabora la sua versione dei buchi. Tipico del suo carattere deciso e dirompente, si presenta subito con opere radicali: i piccoli buchi incisi nella superficie di Fontana diventano dei grandi ovali ritagliati nella tela, monocroma, da cui traspare la parete retrostante. Il buco è il negativo, il vuoto, ma Dadamaino intitola le opere Volumi . Da un lato il senso è letterale, ma non così evidente in realtà, il buco infatti fa percepire la tela non più come una superficie ma come presenza tridimensionale; dall’altro il vuoto diventa matrice, non per niente ha la forma dell’uovo, dell’utero forse, dell’origine, o ricominciamento, forse anche della testa-cervello, visto che lo stesso Fontana intitolava i suoi quadri con il termine “concetto”.

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Dadamaino, Volume, 1960. Idropittura su tela, 80 x 65 cm.

La prima sala della mostra al Maga (Museo d’arte contemporanea di Gallarate, fino al 7 aprile) è spettacolare: quattro tele bianche a confronto, di Fontana, Manzoni, Enrico Castellani e Dadamaino. Era quella la situazione in cui era immersa: a fine anno si apre la galleria Azimut che raccoglie questi artisti e segna la loro presenza sulla scena nazionale e presto internazionale. In questi suoi inizi Dada sente molto la loro vicinanza, ma forse ha già in mente qualcos’altro che maturerà più avanti. Lo so, è facile dirlo con il senno di poi, ma qualche segno forse già c’era. Ribadiamo questa prima idea: il buco-vuoto non è negativo ma matrice. C’entra la femminilità? Direi di sì, una sensibilità, una curiosità e una cultura diversa. La si immagina discutere con Manzoni, di soli due anni meno giovane di lei, e dunque parlare della tela come una superficie viva, organica, pulsante. Conta dirlo subito, benché azzardato, perché Dada si profilerà come una figura del tutto singolare, originale, nel panorama italiano nella “seconda” parte della sua attività.

D’altro canto, è pur vero che nei primi anni Dada svolge lo stesso percorso dei suoi compagni di strada. L’idea resta quella di distanziarsi dall’Informale ancora dilagante, da cui si vuole prendere le distanze per i suoi risvolti esistenzialisti e psicologici. Molti prendono allora la piega dell’ottico e del cinetico. Anche Manzoni esprime interesse per queste tendenze, partecipa alle loro mostre. Parliamo, a livello internazionale, di Gruppo Zero (Düsseldorf 1957), Gruppo T (Milano 1959) e Gruppo N (Padova 1959), GRAV (Parigi 1960), Nul (Amsterdam 1961).

Dadamaino rende prima regolari, dunque modulari, i buchi nelle tele, poi introduce la sfasatura: Volumi a moduli sfasati (1960). Ha anche cambiato materiale, non più tela ma fogli di plastica semitrasparente che fustella con una quantità diventata notevole di fori circolari; due fogli sovrapposti sfasati creano una percezione di movimento, di vibrazione, di instabilità, nonché di immisurabilità, di impossibile contabilità, di infinito in questo senso. La fustellatura, eseguita a mano, introduce un elemento ossessivo che acquisterà più avanti altro valore. Qui si sente il confronto con Castellani: mentre quest’ultimo estroflette, Dada buca. Si affaccia in ogni caso il tema della ripetizione, che dominerà gli sviluppi più maturi.

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Dadamaino, Volume a moduli sfasati, 1960. Fogli di plastica forati a mano, 100 x 100 cm.

Segue una fase che è obbligo inserire nella sperimentazione optical. Anche la mostra al Maga giustamente lo fa, accostando nelle sale opere di Grazia Varisco, Getulio Alviani, Bruno Munari, Davide Boriani, Giovanni Anceschi, Gianni Colombo e altri. Anche questo è chiaro, nel senso di conseguente: è in gioco una nuova percezione, un vero e proprio nuovo modo di vedere, non solo fenomenologicamente ma anche esistenzialmente e socialmente. Dall’ottica e cinetica si passa alla “componibile” e partecipativa. Dada realizza anche dei progetti di ambienti per un concorso parigino, nel 1969, mai però realizzati.

Intanto introduce i colori, anzi il colore: chissà se nel titolo Ricerca del colore (1966-68) è lecito sentir risuonare il proustiano recherche, che darebbe una sfumatura di indagine sulla memoria, attraverso i riverberi, ombre, dissolvenze, che mettono in gioco queste opere. Nel 1969 affronta perfino la fluorescenza, sicuramente ripensando alle sperimentazioni pioneristiche di Fontana con il neon e la luce di Wood.

Arriviamo velocemente al decisivo anno 1970. La riflessione su quanto sta succedendo a livello sociale la porta a immergersi nell’impegno politico al punto da arrestare l’attività artistica. Per un certo periodo non va neppure più in studio. La sua posizione politica è di estrema sinistra, molto attiva, intransigente, ma dettata da un forte afflato umano. Legge molto, discute altrettanto. Legge in particolare i francesi. Io l’ho conosciuta diversi anni dopo e ancora parlava per esempio dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. È dunque evidente: come poteva non essere interessata da Differenza e ripetizione di Deleuze (1968, in italiano 1972), argomento centrale della sua opera? L’Anti-Edipo (1972) uscirà in italiano nel 1975 e aggiungerà l’(anti)psicanalisi e il “macchinico”.

Dadamaino entra in una nuova fase che la caratterizzerà fino alla fine. Diciamo pure che la militanza politica l’ha delusa, non cambierà posizione e resterà radicalmente di sinistra, ma la visione si è fatta pessimistica. Vogliamo parlare di una sorta di trauma, visti gli sviluppi sulla ripetizione che prende? Un trauma intellettuale. In un’intervista tarda l’artista l’ha descritto così: “Perché con questo spostamento a destra della destra e a destra della sinistra ufficiale, noi siamo emarginati perché non siamo ben accetti [...]. Per cui l’unica cosa possibile per potere sopravvivere, e poter lavorare senza avere rapporti particolarmente stretti con questi imbecilli, è di vivere isolati e sapere che questa è la nostra condizione”.

Siamo nel 1974 e Dada comincia a realizzare delle tele riempite di piccoli segni ripetuti a mano. Li intitola Inconscio razionale, un ossimoro significativo, segno della sua volontà di tenere insieme i due poli in una consapevolezza del loro intreccio: l’esercizio della ripetizione, volontario, razionalizzato, fa emergere la differenza; oppure, invece che tenere insieme, forse è meglio dire mostrare come i due poli stanno insieme, si presentano insieme, e l’esercizio manuale li manifesta come tali. L’espressione “inconscio razionale” si deve, com’è noto, allo psicanalista Matté Blanco, che distingue la logica che definisce “asimmetrica” aristotelica, da una “bi-logica”, che si fonda sul principio di simmetria e sfocia nella visione dell’inconscio come luogo e produzione di insiemi infiniti, come titola il suo libro più importante, L’inconscio come insiemi infiniti: saggio sulla bi-logica. Una visione che non può che affascinare Dadamaino, che intreccia a suo modo, come dicevo, con qualche principio deleuziano. Scrive nel presentarli: “Si tratta di una sorta di scrittura della mente, della mia: fatta di linee ora dense e marcate, ora impercettibili e saltellanti, ora lunghe ed ora brevissime, senza alcuna programmazione a priori [...]. Il risultato è una specie di reticoli e di spazi vuoti, per nulla disordinati, che hanno un loro ritmo, una loro profondità ed una loro armonia. Perché, sì, l’ordine è diviso grosso modo in due categorie: quello repressivo, ottuso e prevaricatore, e quello armonioso della libertà, dove le limitazioni non sono tali, ma si chiamano rispetto dell’altrui libertà e tolleranza”.

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Dadamaino, L'inconscio razionale, 1975. Tempera su tela, 70 x 70 cm.

Resta il fatto che non siamo più all’interno di una visione astrattista, né optical, né fenomenologica, né minimalista, né formalista; c’è un salto che solo Dadamaino fa nel panorama dell’arte italiana di quel momento. O forse anche Carla Accardi – un’altra donna, si noterà –, che rende ancora più interessante anche storicamente la questione: una milanese e una romana; una che viene dall’optical e dalla fenomenologia, ma anche da Manzoni e – non ci avevo mai pensato, è una storia da ricostruire – forse anche da Agnetti; l’altra da Capogrossi, che Argan, si ricorderà, interpretava a sua volta in chiave husserliana, e Forma Uno. (C’è stata due anni fa alla galleria Tornabuoni, sede di Parigi, una mostra proprio sul loro accostamento, a cura di Margit Rowell, Jean-Pierre Criqui, Valérie Da CostaElizabeth De Bertier, ma non ho letto il catalogo.)

Ebbene, sottolineiamo ancora un aspetto per dare un’idea del cambio di prospettiva in atto, diciamo che l’esercizio a mano libera, così tenacemente coltivato da rischiare l’ossessività – oltre che rovinare la vista! – interviene anche su un altro binomio all’epoca molto radicato nel dibattito, che era quello di progetto e destino, secondo il titolo di un celebre libro di Argan; io direi anche progetto e ascolto, per sottolineare l’attitudine dell’artista all’ascolto del segno e del senso, che si fa mentre egli esercita la ripetizione.

Mi sto dilungando, ma intendevo mettere in evidenza questa interpretazione dell’opera di Dadamaino. Procedendo più speditamente, nel 1976 inizia una nuova serie intitolata Lettere dell’alfabeto della mente. Ecco dunque che cosa sono per Dadamaino questi segni – ne mette a punto 16 diversi. Anche qui, in termini di poi, non è in gioco il rovesciamento del modello linguistico, proprio grazie al riferimento psicanalitico? Le lettere non sono quelle dell’alfabeto verbale ma di uno visivo che si fa mentale – ecco che si giustifica il rimando alla visione “concettuale” di Fontana. Lettere poi significa anche missive, come renderà esplicito a partire dal 1978. “Volantini di puri significanti”, le definirà Francesco Leonetti, “volantini” perché riprendono anche il risvolto politico che Dada ora sa come reintegrare nella propria opera. Diventano missive visive dirette a carcerati, a vittime, a oppressi, alla storia, alla vita.

In quell’anno 1976 Dada è colpita profondamente dalla strage di palestinesi nel campo profughi di Tell al-Za’tar e fa un’operazione unica e memorabile: si reca su una spiaggia e traccia nella sabbia le sue “lettere” per tutto il giorno in omaggio ai caduti: “Smisi quando fui stremata. Avevo riempito la spiaggia di segni che, me ne resi conto allora, formavano un’acca, che nella mia lingua è la lettera muta. Una protesta scritta sulla sabbia, quanto più labile vi sia”. Lettere che sono andate cancellate, ma non perdute, come si suol dire, e non tanto perché riprese in una sequenza fotografica ma perché arrivate a destinazione.

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Dadamaino, Alfabeto della mente (Tell al-Za'tar), 1976.

Altrettanto indimenticabili saranno le installazioni – perché ora prendono questo aspetto, fogli di vario formato appesi direttamente alle pareti fino quasi a ricoprirle – alla Biennale di Venezia del 1980 (ricostruita nella mostra al Maga, altra sala che vale la visita anche da sola) e al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano nel 1983. Li intitola ora Fatti della vita, dove vita è insieme quella individuale e quella collettiva, quella personale e la storia.

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Dadamaino, I fatti della vita, 1979-1981. Inchiostro su carta.

Bastino i titoli delle serie successive e si capisce subito dove si va a parare. Dal 1981 al 1987 Costellazioni, metafora inevitabile, direi, qui addirittura nebulose, se posso azzardare, che assumono, mi pare, l’aspetto di ondulazioni encefaliche, comunque sovrappongono lo spazio dell’universo a quello mentale, il micro e il macro, in un pulviscolo di segni che paiono di nuovo pulsare: pulsazioni-pulsioni.

Nel 1987 torna la plastica trasparente a sostituire la tela e la superficie si tridimensionalizza. Le opere sono di formato lunghissimo, quelle orizzontali appese con andamento ondulato, quelle verticali – e non si può in questo caso non pensare al clinamen di Lucrezio – scendono dal soffitto fino ad arrotolarsi sul pavimento. L’andamento dei segni si fa fluente, fluido, mosso, come se percorressero la superficie. I titoli infatti vanno da Passo passo a Il movimento delle cose (altra partecipazione alla Biennale di Venezia, 1993, ripresa in mostra). (Anche Accardi aveva usato la plastica trasparente, fin dal 1965, a sua volta per svolgere la superficie nello spazio, ma nel suo caso anche e soprattutto per creare delle sovrapposizioni, delle interferenze.)

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Dadamaino, Il movimento delle cose, 1993. Mordente su poliestere, 122 x 3000 cm. Courtesy Archivio Dadamaino.

Nel 1997 il riferimento filosofico si fa esplicito: Sein und Zeit, recupero di Martin Heidegger, ma c’entra anche la “ritmanalisi di Henri Lefebvre. In ogni caso è una riflessione sul tempo: i ritmi, i tempi diversi, la vita quotidiana, e forse su quanto resterà di ciò che si è fatto, la “contraddizione” del riflettere sulla vita “non” vivendo ma sotterrandosi nell’immersione nella pratica ripetitiva del segno, del lavoro.

Dadamaino muore nel 2004. Mi si lasci dire, come si sarà capito dal mio puntiglio, che per me è stata una persona fantastica e un’artista di cui ancora occorre mettere in evidenza l’originalità. La mostra di Gallarate è un’ottima occasione, ben svolta, con un bel catalogo, contenente due puntuali testi del curatore Flaminio Gualdoni e della direttrice del museo Emma Zanella.

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