Dopo l’ultimo testimone

27 Gennaio 2023

Nel nuovo numero della rivista «Vita e pensiero» (2022, n. 6) La storica Anna Foa s’interroga su “Cosa resta della Shoah senza i sopravvissuti”. Testo sintetico e «puntuto». Foa va diritta al tema e si chiede se la memoria rischi di perdersi con la scomparsa dei testimoni diretti dell’Olocausto, dovuta allo scorrere inesorabile del tempo.

La sua risposta è che questo è possibile dato che storia e memoria procedono appaiate. Ma poi, aggiunge, questo non dipenderà solo dalla scomparsa dei testimoni, dipenderà se noi, (storici, intellettuali, operatori culturali, insegnanti, comunicatori,…) usciremo dalla nostra «confort zone» e proveremo a far lavorare la nostra professionalità in funzione di costruire una coscienza civile pubblica.

In altre parole: la scomparsa dei testimoni sarà un problema solo se resterà canonico quel comportamento (assai diffuso, ma non unico) che pensa che si «esce d’obbligo» dal dovere di memoria delegando al testimone il racconto dell’evento. 

La scena è nota. Un sopravvissuto parla, intorno cala improvvisamente il silenzio – come quando tutti si fermano quando si fissa il minuto di silenzio per lutto, anche da parte di coloro che contestano, fosse solo per rispetto o perché forse così la scena finisce presto – poi improvvisamente quella figura finisce di raccontare, e tutto, così come allo scadere del minuto di silenzio, riprende a scorrere come in precedenza.

Scrive Anna Foa che questa scena, pur vera, sarà un alibi spuntato perché la scomparsa dei testimoni non elimina i documenti, le foto, le raccolte di atti (spesso create dagli stessi sterminatori) che restano a disposizione di un pubblico. Consultabili in molti centri studio, ma anche disponibili da remoto, in rete per chi non abbia tempo o modo di andare fisicamente nel luogo dove quei documenti sono conservati.

In linea di massima mi sembra un quadro plausibile, solo che a mio avviso è bene mettere nel conto altre cose e, forse, tornare a considerare la scena iniziale perché i cambiamenti avvenuti negli ultimi venti anni sono stati profondi. Personalmente credo più complessi di quelli che – opportunamente, ripeto –, richiama Anna Foa. È un profilo di ragionamento che mi riguarda in prima persona, perché molti degli argomenti che Foa propone stavano nel mio Dopo l’ultimo testimone. Libro che non rinnego, ma di cui oggi vedo molti limiti.

Qui ne considero tre. Per la precisione: il tema e la figura dei testimoni; la questione del calendario civile; la dimensione del racconto di storia e del ruolo degli storici.

Cominciamo dal dato che riguarda i testimoni. È vero che molti hanno agito proponendo un uso della voce testimoniale secondo il paradigma proposto da Anna Foa. Ma occorre ricordare che la funzione pubblica che ha svolto negli ultimi venti anni Liliana Segre sia stata solo in parte quella, per poi assumere sempre più altre configurazioni.

In breve, è vero che la senatrice Liliana Segre ha spesso ripetuto il suo racconto biografico, ma poi insieme a quella storia ha tradotto nel nostro tempo quella storia. L’ha tradotta non misurando le differenze, ma proponendo la canonicità della sua storia tra 1943 e 1945 e insistendo su una parola chiave che riguarda la sua storia ma anche il nostro tempo. Questa parola non è «persecuzione» o «discriminazione», che in un qualche modo sono parole che riguardano prevalentemente chi subisce gli atti della storia, ma «indifferenza».

«Indifferenza» è la prima cosa che legge il visitatore del Memoriale della Shoah di Milano appena entrato, ma è parola che ha la funzione, anche e soprattutto, di mettere in questione il comportamento degli «spettatori» di allora (riprendo la classificazione proposta da Raul Hilberg), e del cittadino generico nella società di ora. Fare dell’indifferenza un monito significa aprire il capitolo di scavare nell’adagio «Tengo famiglia e faccio i fatti miei». Non è questa la massima più diffusa o profondamente radicata nel senso comune? E soprattutto non è questo un modo per fare della Public History efficace, ovvero individuare la matrice nel passato di domande o di questioni profondamente attive nel nostro presente? L’esatto opposto del ruolo affidato al testimone: raccontare il suo passato e essere confortati, come ascoltatori, appunto dal fatto che è passato. Consegnato alla storia. Che non ci riguarda.

Per una lunga stagione raccontare lo sterminio voleva dire: 1) parlare di grandi numeri (ovvero la quantità di morti); 2) analizzare la macchina operativa (ossia l’organizzazione dello sterminio).

L’ingresso delle storie private, delle singole vicende di persecuzione e di sopravvivenza, ha fatto emergere altre dimensioni: scompare la grande politica e inizia ad essere prevalente la vita quotidiana, l’indagine sull’ambiente, sui comportamenti sia dei perseguitati che dei persecutori, come quello della fascia intermedia dei cosiddetti «spettatori». «Arretrano» le grandi macchine della storia, e prevalgono le storie di famiglia e l’analisi dei caratteri. In breve fanno il loro ingresso le persone. In seguito a questo passaggio entrano in campo le voci testimoniali.

Il problema è quale ruolo riconosciamo alla testimonianza. Ovvero se la testimonianza sia un documento per comprendere un evento, per guardarlo da un punto di vista soggettivo o dentro la scena, o se non sia anche una modalità di raccontare il passato che riguarda noi, che veniamo dopo quel passato.

Nel primo caso la testimonianza risponde al principio della verifica dei fatti; nel secondo caso riguarda e coinvolge le emozioni e i sentimenti di chi ha sentito storie. Questa seconda condizione non riguarderà più che cosa è successo allora, ma come noi eredi di quel tempo riflettiamo su quel tempo.

Questo, mi sembra, è il ruolo che si è assegnato da tempo Liliana Segre, prima ancora della nomina a senatrice a vita. Un aspetto che Wlodek Goldkorn ha colto con precisione in un testo pubblicato su “l'Espresso” il 23 ottobre scorso, dal titolo Testimone, dove scrive (è la parte conclusiva, ma tutto il testo andrebbe conservato come promemoria per il «tempo a venire»):

«Da alcuni anni, una signora che di anni ne ha novantadue ed è senatrice a vita della Repubblica italiana, parliamo di Liliana Segre, sta cambiando – nel senso della maggiore compiutezza – il ruolo del Testimone. Sarà la saggezza, sarà lo spirito del tempo, Liliana Segre, e lo ha dimostrato ancora una volta nel suo discorso dell’apertura della nuova legislatura, ha saputo trasformare la Testimonianza, da un racconto, per quanto importante, in un messaggio di etica universale. Nelle sue parole, pregne, nonostante tutto, dell’amore per la vita, c’è urgenza di capacità di giudizio e quindi l’urgenza del Bene. Quando parla, interpella la coscienza non di “tutti” ma di ognuno e ognuna di noi, perché parla dei diritti, che sono universali o non sono».

Consideriamo ora il tema del calendario civile. Ci sono due aspetti che riguardano il Giorno della Memoria come data del calendario civile: da una parte un dato relativo all’Italia; dall’altra un dato relativo all’Europa. Il «27 gennaio» entra nel calendario pubblico italiano all’interno di una crisi culturale tutta italiana. La crisi è quella dell’Italia post-resistenziale, un Paese che non ha un calendario nazionale, che ha pochissime date pubbliche che celebrino il “noi” e che adotta il giorno della memoria come surrogato ma non lo colloca nella sua storia nazionale, né si sforza di costruire un diverso appuntamento che chiami in causa prima di tutto la propria storia.

In questo caso, infatti, il giorno non sarebbe il 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz, ma, per esempio il 16 ottobre, giorno della deportazione degli ebrei romani nel 1943, oppure – per non cadere nell’alibi che i “razzisti sono altri” noi al massimo «abbiamo assistito impotenti» e dunque ciò è avvenuto senza nostra responsabilità – il 6 ottobre 1938 giorno della Dichiarazione della razza del Gran consiglio del fascismo.

Il 27 gennaio nel calendario italiano è una data «metafisica». L’Italia adotta il 27 gennaio come Giorno della Memoria, ma non si dota di una data che fa parte della propria storia nazionale (come in Francia). Perché? Perché ritiene che la Shoah non sia parte della sua storia (al massimo ritiene che sia accaduta nel suo territorio) e perché non vuol fare i conti con la propria storia.

È per questo che il 27 gennaio è affrontato come problema etico. Le leggi razziali nella storia italiana non sono una questione etica, ma politico-sociale, ovvero riguardano come si fa l’ordine nella società. Ma per parlarne dovremmo associare il Giorno della Memoria alla storia italiana, meglio alla storia della società italiana. Non è quello che accade. Non è un dato che sta alle nostre spalle.

Non so come affronteremo gli ottanta anni della razzia del ghetto di Roma il prossimo 16 ottobre, ma se sto alla politica vigente in Italia immagino che appunto il dispositivo «sbiancamento della storia» avverrà secondo una regola consolidata, non scritta, ma sempre praticata rispondente al principio: celebrare e rimuovere. Per questo immagino un grande finanziamento governativo per celebrare la memoria di quel giorno, grandi manifestazioni pubbliche con le alte cariche del governo di fronte alla lapide che ricorda il luogo della razzia con ricordo che tutto avvenne perché tutto fu fatto dal «cattivo tedesco». Se non avverrà sono pronto a ricredermi.

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Ma questa nostra condizione non avviene in un tempo che si muove in direzione «ostinata e contraria». In primo luogo questa condizione riguarda l’Europa. Il 27 gennaio è nato come data civile memoriale per l’Europa da costruire. Era 23 anni fa, accadeva a Stoccolma, il 21 gennaio 2000. L'Europa che stava per nascere aveva bisogno di una «data battaglia» che celebrasse la nuova identità. Qualcosa che assomigliasse al 25 aprile o al 14 luglio. Una data carica di dolore, ma soprattutto che diceva che una nuova vita era possibile e il cui segno era la «rottura delle catene», la «fine del giogo».

Quella data parlava all’«Europa dei 9» di allora: apparteneva alla loro storia. Era solo l’inizio di un percorso che, per davvero, non abbiamo mai intrapreso in questi vent’anni. Quel processo ha mancato la riflessione sul razzismo, che era in noi allora e che ancora oggi ci riguarda. Noi siamo (o forse meglio: diciamo di essere) antirazzisti il 27 gennaio, ma come ci misuriamo con il razzismo che sta dentro di noi la mattina successiva fino al 26 gennaio dell’anno dopo? Un razzismo che investe il nostro agire quotidiano nello spazio pubblico, per le strade, sui banchi di scuola, e che connota il linguaggio che incrociamo ogni giorno nei mezzi di informazione e sui social media?

In ogni caso, venti anni dopo, una parte dell’Europa manda a dire che quel processo non è affar suo. La fisionomia dell’Unione di oggi, ovvero l’«Europa dei 27», per alcune sue parti, infatti, non ha quella ricorrenza come data memoriale di liberazione e dunque di nuovo inizio. Per un nuovo inizio – sembra dirci – serve aggiornare le metafore.

Il 27 gennaio dunque come memoria «di parte». «Di parte» è diventata un’espressione probabilmente destinata a segnare il nuovo tempo. Non è il sintomo di un fenomeno residuale, bensì di un luogo comune a lungo «in sonno» e ora risorto a nuova vita. Un caso di «presente al passato». Presente che si fonda sulla macchina mitologica del complotto attiva non solo in Europa, ma anche nelle Americhe, come nelle culture islamiche e nei paesi arabi. Come scrive, sostiene e dimostra Moises Naim, questo è il tempo della rinascita dei tiranni.

Ma rimaniamo al quadro culturale vigente in Europa: se l’opinione diffusa – dove «diffusa» non vuol dire «di maggioranza», ma vuol dire condivisa da una percentuale consistente d’opinione pubblica – è che il 27 gennaio sia una data “di parte” vuol dire che ciò a cui stiamo assistendo è la crisi o la chiusura di un ciclo. Ciclo che è segnato dai contenuti della Risoluzione del Parlamento europeo sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, approvata il 19 settembre 2019.

In quella risoluzione il tema non è la negazione del 27 gennaio, ma è la proposta che si individuino altre date comuni, per tutti, in cui segnare il calendario europeo partendo dal principio della lotta al totalitarismo avendo come primo punto la lotta al comunismo e assumendo come data di memoria non più il 27 gennaio 1945 (il giorno della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, ma il 23 agosto 1939, il giorno del patto Molotov – Ribbentrop.

Ne discende un conflitto culturale e simbolico in cui le destre tendono a far coincidere il concetto di Europa con lotta al comunismo, e le sinistre con lotta al fascismo (la questione del 25 aprile è solo un annuncio di questo confronto). Se il confronto in Europa è tra 9 novembre e 27 gennaio, in Italia ancor più dirimente è quello del 10 febbraio con il 27 gennaio. Un confronto che è rimasto sotto traccia, ma che è destinato a emergere con forza nelle prossime settimane.

In ogni caso difficile dire se date comuni si troveranno. Perché si pensano date di liberazione, non di libertà. Ovvero date che affermano la rottura della sudditanza, ma che non descrivono né fondano gli statuti della nuova libertà per tutti. Allo stesso tempo, per raccontare della libertà, occorre raccontare anche la propria storia «a parte intera», ovvero non raccontare solo l’oppressione subìta, ma anche quella inferta. Ma pochi sono disposti a farlo, perché farlo implica smettere di raccontarsi solo come vittime.

Siamo stati in grado di raccontare il vissuto della nostra violenza di allora? Non solo di quella subita, ma preliminarmente di quella esercitata? La storia si scrive «tutta intera» e «a parte intera». In ogni storia nazionale ci sono i torti subiti. Ma perché quei torti possano essere raccontabili e comprensibili occorre anche affrontare serenamente il capitolo di quelli inflitti. Non riguardano forse le stesse persone se non marginalmente, ma fanno parte integralmente, anche quelli della eredità storica civile, prima ancora che politica, di ciascuna realtà nazionale in Europa, sia essa una nazione-stato da tempo riconosciuta, oppure una nazione, assurta solo recentemente alla dimensione di Stato autonomo (o che abbia riconquistato la sua autonomia) e a lungo vissuta «sotto dominazione altrui». Quest’ultima condizione non può essere proposta come attenuante, o come scusante.

Questo mi conduce al terzo tema: racconto della storia e ruolo degli storici. È indubbio che oggi la partita riguarda la storia e più precisamente come e che cosa riteniamo sia di competenza della narrazione e dell’indagine storica. Al centro sta la crisi di un mestiere che trent’anni fa si è presentato in forza di un successo come il gestore di una disciplina capace di connettere molti saperi, ma che poi non ha saputo «stringere» e trovare una modalità non solo di narrazione, ma anche di indagine.

Il tema è fare in modo che il racconto di storia sia inquieto e non consolatorio o non si risolva solo nella drammaticità della fiction televisiva propria delle serie. Ci sarebbe bisogno di uno sguardo equilibrato, privo di ansie da primato e scevro da protagonismi. Non è la condizione attuale. Per proporre quello sguardo occorre che chi si occupa di storia, non solo gli accademici ma tutti quegli operatori culturali che si propongono come sensibili sul piano della riflessione di storia dove si opera l’operazione presente/passato/presente riaprissero un cantiere di lavoro che metta al centro anche la formazione professionale di comunicazione della storia.

Il cantiere del calendario civile europeo proposto da Guido Crainz e da Angelo Bolaffi allude a questo. L’idea di quel laboratorio è che non esista più l’Europa trionfante e che se si è aperta una crisi dell’Europa, dipende in parte anche da noi la possibilità di contrastare una deriva verso il basso. Aprire la memoria degli uni a quella degli altri, costruire una rete intellettuale e culturale per contrapporsi alle riscritture nazionalistiche e anche al permanere di memorie nazionali vittimistiche, intossicate e vendicative.

Più che a un progetto di storia condivisa, occorre lavorare alla possibilità di confronti fra memorie. In riferimento alle questioni legate all’insegnamento della storia: il problema non è solo nella riscrittura nazionalistica che avviene in certi contesti, ma riguarda che tipo di storia si insegna in Romania, Bulgaria, Croazia. Non c’è dubbio che c’è chi si oppone a questa riscrittura in senso nazionalista, ma che rapporti abbiamo, come siamo in relazione, cosa facciamo per controbattere queste scritture che sono esplose con la caduta del comunismo? Cosa facciamo in questa direzione e cosa facciamo per provare ad allargare passo dopo passo anche ad altre presenze e sensibilità storiografiche di altri paesi questo confronto?

Insieme occorre sapere che il processo non sarà breve e che un lungo processo di riscrittura sta davanti a noi. È un profilo su cui molti anni fa alcune voci, molto isolate, provarono a chiamare a riflettere. L’occasione nasceva dal percepire la crisi del progetto di Europa la cui avvisaglia era nell’esito incerto del referendum che il 29 maggio 2005, in Olanda, Belgio e Francia, aveva avuto l’effetto di mette la sordina alla ratifica del Trattato europeo.

Tra quelle poche voci Tzvetan Todorov che scavava sul senso di quella crisi e su come rispondere al risentimento e alla paura come sentimenti collettivi in espansione e su cui opportunamente ha invitato a riflettere Guido Crainz. Servirebbe, scrive Crainz, una visione che parta dal presupposto di volere un futuro comune e non fondato su visioni complottiste o vittimarie (su cui invece si sta costruendola l’autocoscienza europea).

In quel processo stanno anche la consapevolezza di una condizione da deserto come ha richiamato Wlodek Goldkorn di recente, la definizione e l’investimento sulla formazione di nuove competenze culturali e professionali legate all’insegnamento della storia e alla elaborazione di un nuovo rapporto tra sapere storico, comunicazione pubblica, e competenze professionali. Un campo che riguarda la Public History, che non vuol dire solo divulgazione ma significa investimento verso la formazione di competenze legate ai nuovi linguaggi della cultura e alle forme della diffusione culturale, e non solo al libro come luogo fisico in cui dare forma alla memoria e all’approfondimento della storia.

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