Elogio della protesta
L’indignazione non basta, per cambiare. Né tanto meno può essere sufficiente la consapevolezza. È necessaria l’azione. Un’azione di protesta che agisca su una parte alla volta. Un’azione da parte delle donne e degli uomini che si rivoltino prima di tutto contro la propria forza dell’abitudine e la propria indifferenza. Quello che è forse il problema principale, la tacita e accettata funzione svolta dalla regolazione sociale nel creare conformismo, passività e indifferenza, si può rivelare solo grazie a quell’azione.
Nella collana Culture Radicali dell’editore Meltemi, che assume sempre più rilevanza e particolare importanza per i volumi che accoglie, appare ora un testo unico per originalità e forza propositiva: Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, di Joshua Clover [Meltemi, 2023]. Sarà perché l’autore è poeta e studioso di letterature comparate, resta il fatto che uno dei tratti caratterizzanti del libro è la sua godibilità narrativa, che propone contenuti di particolare attualità in modo documentato e avvolgente. È la rivolta l’oggetto portante del contenuto del libro, con uno scopo preciso: riuscire a tracciare una teoria adeguata dei riot come teoria della crisi. È possibile sostenere questo per il fatto che il libro invita a considerare il riot non solo come una fiammata di malcontento o come una sommossa disordinata, ma, anche e soprattutto, come una formula multipla di proteste, appropriata e necessaria, in riferimento a questo particolare momento storico.
Il riot, pertanto, comprende diverse forme di protesta: il presidio, il corteo, l’occupazione di piazze, strade, stazioni e così via. L’azione sociale per il cambiamento assume la necessità di agire per creare vere e proprie riconfigurazioni dell’esistente: razza, genere, classe e corpi che non contano; disuguaglianze, modello di sviluppo estrattivo-distruttivo, alienazione individuale e sociale. “In quanto forma particolare di lotta, il riot è illuminante rispetto alla fisionomia della crisi, la rende nuovamente pensabile, e fornisce una prospettiva dalla quale osservarne lo sviluppo”.
La parola e la pratica necessaria, che si presentano continuamente attraversando il libro, riguardano l’eccedenza. Il riot si propone come via per cercare di eccedere il presente e i suoi evidenti fallimenti. Solo andando oltre l’esistente si può far generare alla crisi le possibilità a venire. “In passato, in effetti”, scrive Clover, “i riot hanno ricevuto la definizione di “moti”, una storia ancora visibile nella parola francese émeute. Nel bel mezzo di un riot, il sovrappiù cruciale è, banalmente, quello di chi vi partecipa, della sua popolazione. Il momento in cui quest’ultima eccede la capacità gestionale della polizia, e quando i poliziotti battono per la prima volta in ritirata, è il momento in cui il riot diventa in tutto e per tutto quel che è, svincolandosi dalla continuità a tinte fosche della vita quotidiana.
L’incessante regolazione sociale che aveva assunto sembianze di ideologia, ambiente e astrazione si rivela, in questo momento del sovrappiù, come una questione pratica, aperta alla contestazione sociale”. Nelle molteplici situazioni di crisi attuali, da quella ambientale a quella demo-economica, il riot si propone sempre di più come la figura centrale dell’antagonismo politico, uno spettro che si insinua ora nei dibattiti di matrice insurrezionalista, ora negli ansiosi report governativi, ora sulle copertine patinate delle riviste. I nomi dei luoghi sono diventati punti cardinali della nostra epoca.
La nuova era dei riot ha le proprie radici a Watts, Newark e Detroit; passa attraverso Tienanmen Square 1989 e Los Angeles 1992, arrivando, nel presente globale, a São Paulo, Gezi Park e San Lázaro. Il riot si configura come protorivoluzionario in piazza Tahrir, a Exarcheia è quasi permanente, con Euromaidan ha un orientamento reazionario. In una luce più sfumata: Clichy-sous-Bois, Tottenham, Oakland, Ferguson, Baltimora. “Troppi, per poterli ricordare tutti”, afferma Clover. Dall’esame delle molteplici esperienze, delle loro affinità e delle loro differenze, Clover ricava l’ipotesi che una teoria del presente possa nascere dall’esperienza diretta dei conflitti, invece di presentarsi sulla scena con un fardello di prediche e di prescrizioni fornite in anticipo su come dev’essere portato avanti un progetto politico di trasformazione.
A caratterizzare il riot non è una pianificazione strutturata e già prevista dell’azione ma, al contrario, come ampiamente condiviso anche dai suoi sostenitori, è un gigantesco disordine. Costruire una teoria del riot vuol dire considerare una teoria della crisi basata sui racconti di come i grandi centri urbani si stiano svuotando, di come interi settori economici vadano incontro alla loro ascesa e poi al loro declino, e di come il sistema-mondo capitalista abbia un proprio ordine e un proprio disordine. “La tradizione analitica in tema di sistema-mondo fornisce un quadro interpretativo dotato di ampiezza globale e di longue durée entro il quale occorre pensare l’evento localizzato del riot”.
Secondo l’autore gli obiettivi del libro, a partire da queste basi, sono almeno tre: in primo luogo, un chiarimento rispetto alle definizioni di riot e di sciopero, in merito alle quali vige più confusione di quanto ci si potrebbe sospettare. In secondo luogo, una spiegazione dei motivi del ritorno del riot e della forma che esso assume nel presente. In terzo luogo, una volta ricavata la logica del riot in relazione con le trasformazioni del capitale, alcune previsioni sul futuro della lotta. “Una teoria del tempo presente, dunque”.
La dinamica che connette il riot agli scioperi e questi ultimi al riot è una questione importante per comprendere come l’uno non sia solo la preparazione o la successione degli altri, ma la distinzione stia nella generatività spontanea e nella capacità di connettersi alle crisi e ai bisogni fondamentali relativi, da parte dei riot. Oggi il riot emerge sempre di più all’interno di una logica di razzializzazione e individua lo stato, anziché l’economia, come suo diretto antagonista. Il riot ritorna non soltanto all’interno di un mondo cambiato, ma ha subiito esso stesso una trasformazione. Il libro di Clover è tripartito secondo una prospettiva topologica, per cercare di comprendere l’evoluzione dei riot.
Per la prima era dei riot, il luogo è il mercato, ma ancora di più il porto; per l’era dello sciopero, la catena di montaggio; per la nuova era dei riot, la piazza e le strade. Una questione che non si può e non si deve eludere è il rapporto tra riot e violenza. Il riot è indubbiamente connotato di violenza. È evidente come molti riot implichino l’uso della violenza – la stragrande maggioranza, probabilmente, se si includono in questa categoria i danni alla proprietà, o le minacce, tanto dirette quanto indirette. È la dialettica, tuttavia, a connotare il riot e a collocarlo in una processualità irriducibile che però contiene anche la sua generatività.
In questo senso Clover è molto chiaro: “Camminando per Hackney durante i riot del 2011 e vedendo susseguirsi scene di afflizione e di euforia, cassonetti in fiamme e resti di saccheggi, alcuni osservatori conclusero che si stava portando avanti una lotta coerente [...] con lo scopo di ottenere rispetto da parte della polizia, forzando il riconoscimento dello stato di soggetto dove la routine vede solo lo stato di abietto”. Questa citazione mostra come il riot sia una relazione che necessariamente si instaura con l’attuale struttura dello stato e del capitale, mossa dalla condizione di abiezione, e cioé da chi é stato escluso dalla produttività. Tuttavia, mostra anche la dipendenza del riot dal suo antagonista: in quel contesto, la polizia appare simultaneamente come necessità e come limite.
Questo è il tema dialettico, il dilemma della necessità e del limite. La piazza del mercato, la polizia, la circolazione: non sono situazioni che danno adito a un possibile superamento finale; piuttosto, sono i luoghi in cui le lotte hanno inizio e poi fioriscono, disperatamente”. L’excursus storico sulle origini e l’evoluzione di questa forma di conflitto generativo, consente di leggere la storia da un altro punto di vista, oltre a identificare, nel periodo dopo l’inizio della rivoluzione agricola e prima che prenda piede la rivoluzione industriale, l’età d’oro del riot. Del resto, lo swing, l’oscillazione tra il riot e lo sciopero, non solo rende impossibile determinare con esattezza il momento in cui lo sciopero supera il riot nel repertorio delle azioni collettive, ma è una prova della generatività, non del tutto riducibile ad una logica causa effetto, e del prodursi e riprodursi della società.
Di molto fascino in tal senso è l’origine e l’evoluzione della parola grève che in francese indica lo sciopero. La storia della parola inizia sulle sponde della Senna e finisce all’Hôtel de Ville qualche secolo più tardi e a un’ottantina di passi di distanza. È una parola antica. In origine, indicava un’area pianeggiante di ghiaia e sabbia vicino all’acqua, una spiaggia, e quindi anche un luogo dove le navi potevano effettuare le loro operazioni di scarico. La grève più funzionale di tutte, sulla Senna, divenne il porto principale di Parigi. In seguito a diverse evoluzioni, quel luogo ospitò il mercato dell’offerta e della domanda di mano d’opera. Proprio per questo, divenuta Place de la grève, finì per trasformarsi in sede di manifestazioni e di lotta per il lavoro e contro le forme di sfruttamento.
Come non è difficile constatare il riot ha la caratteristica di essere parte integrante delle trasformazioni sociali: tra le loro varie funzioni, il riot e lo sciopero hanno svolto quella di metonimie di un’intera questione all’interno di un determinato momento storico. Questo è solo un altro modo per abbozzare quello che si intende con l’idea di un repertorio delle azioni collettive e per individuare le tattiche prevalenti al suo interno. Le tattiche, e le trasformazioni che le segnano, sono espressioni della massa sociale e delle sue ricomposizioni, che a loro volta si formano e trasformano a partire da determinate basi materiali. In altre parole, il riot non è un evento isolato e singolare; è tanto una frazione reale quanto una figurazione dei molti ai quali è sempre contiguo.
È la relazione interna ai molti che in certe condizioni viene esternalizzata. La struttura accomunante tra sciopero e riot riguarda le manifestazioni dell’antagonismo sociale, anche se è necessario riconoscere nello sciopero una certa normalizzazione delle spinte trasformative del riot, in ragione dell’avvento delle forme di lavoro organizzate proprie dell’epoca dei “lunghi lunedì del mondo”, come li chiama Clover. I fili tra sciopero e riot sono senz’altro intrecciati. Il campo della contestazione sociale è mantenuto in tensione, da un lato, dalla capacità degli esseri umani di “fare la propria storia” e, dall’altro, dalle “circostanze già esistenti, così come sono date e trasmesse dal passato” Scrive Clover: “Se lo sciopero è adesso una strategia diversa e più popolare, il ritorno del riot appare in primo luogo come uno strano ed eroico sforzo di congiungere due forme d’azione in un processo rivoluzionario nel quale le lotte del lavoro e il riot appaiono come due fronti dello stesso antagonismo”.
Una riflessione di particolare rilevanza riguarda lo studio del soggetto rivoluzionario, di quel soggetto che prende l’iniziativa e si pone alla base e all’origine del riot. Il dibattito ideologico sulla corretta individuazione del soggetto rivoluzionario e delle sue apparenti differenze regionali si costituisce in base ai destini di quegli stessi soggetti: i movimenti sociali vivono alla temperatura delle loro stesse narrazione ed azioni. Così accade per l’emancipazione nera e i riot, o per l’emancipazione femminile, ma anche per i movimenti ecologisti.
Il riot, nel tempo attuale, è divenuto un costante processo di accompagnamento delle crisi che si susseguono portando con sé profonde trasformazioni delle sensibilità e degli orientamenti di azione. Il riot e la crisi mostrano di arrivare insieme, aprendosi la strada a vicenda. La nuova era del riot si realizza non soltanto con le intensificazioni delle ribellioni urbane e in un secondo momento suburbane, ma anche con l’eclisse dei movimenti dei lavoratori, con le linee di tendenza del riot e dello sciopero che prima si intrecciano e poi divergono seguendo in un primo tempo il picco e dopo il declino del “lungo XX secolo” dell’egemonia statunitense. Qual è la relazione tra crisi e riot, al di là di questa coincidenza e di un certo senso, evidente e febbrile, di crollo generale?
Questa profonda relazione è al centro dell’ultima parte del libro di Clover. Laddove emerge in particolar modo il rapporto tra riot e trasformazione sociale in corso e nella tesi di fondo: “la crisi segnala che il centro di gravità del capitale si è spostato all’interno della circolazione, da un punto di vista sia teorico che pratico, e il riot è da intendersi in ultima istanza come una lotta della circolazione, che trova nella lotta per l’imposizione dei prezzi e nella ribellione del sovrappiù due forme diverse, per quanto legate tra loro”. L’inafferrabilità è stata e rimane un carattere distintivo del riot e forse uno dei suoi principali punti di forza come lievito sociale. Il riot, infatti, non cerca di preservare alcunché, né vuole affermare alcunché, eccetto forse la condivisione di un nemico, di una negazione, di una miseria. Non ha un programma. Se ne ricava che i movimenti che riescono a generare trasformazioni si diffondono non per contagio, ma per risonanza.
Ciò vuol dire che processi emozionali e non solo razionali e cognitivi ne alimentano l’origine e l’espressione. Non per niente lo stesso Clover fa riferimento alla popolazione eccedente relativa, con esplicito riferimento alla considerazione di Karl Marx nel primo volume di Il capitale [UTET, Torino 1996; p. 662]: “con l’accumulazione del capitale da essa stessa prodotta, la popolazione operaia produce quindi in grado sempre più elevato i mezzi per rendersi relativamente eccedente”. Come è noto si tratta di una considerazione critica, la cui attualizzazione comporta un aggiornamento delle condizioni stesse dell’eccedenza. Da un lato è necessario riconoscere i limiti insiti nei modi di gestire quell’eccedenza e del ruolo che i consumi e il conformismo hanno svolto e svolgono in merito, con il loro effetto di neutralizzazione.
Dall’altro l’eccedenza richiama tutto quello che nelle coscienze individuali e collettive, nelle piazze e nelle strade tende ad eccedere l’esistente, ad andare oltre i suoi vincoli. Da quell’eccedenza e dai modi di elaborarla dipende la società che viene. Clover, infatti, così conclude: “Si tratta insomma di strutturare una ricerca politica che, nelle trasformazioni attuali, miri a individuare i punti deboli sistemici ricostruendo le catene del valore per capire dove sia più facile spezzarle, ma, al contempo, anche i punti di forza soggettivi inscritti nella composizione tecnica attuale e nelle sue possibili traiettorie di soggettivazione politica”.