Contro il Giorno della Memoria?

27 Gennaio 2013

Va dritto al centro del problema il libro di Robert S. C. Gordon, Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010) (Bollati Boringhieri, pp. 345, €27): come l’Italia ha recepito negli ultimi settant’anni l’Olocausto, ovvero lo sterminio degli ebrei? Ha occultato e misconosciuto la dimensione ebraica dello sterminio? Ne ha fatto un evento centrale della storia moderna? La narrazione dominante nel dopoguerra è stata quella della Resistenza, che ha finito per inglobare anche l’Olocausto, come mostra anche il libro di Primo Levi, Se questo è un uomo, uscito nel 1947. Nonostante il suo tardivo successo, dalla fine degli anni Sessanta, Se questo è un uomo è senza dubbio il libro di un ebreo laico, ex partigiano, improntato a un umanesimo di fondo venato di antropologia.

 

    

Gordon mette bene in mostra, sin dalle prime pagine, come il mito della Resistenza abbia coinvolto organizzazioni come l’ANED, l’associazione degli ex deportati, che pure hanno avuto un ruolo centrale nella testimonianza, studio e memoria dello sterminio ebraico. Nella storia intricata del settembre 1943 si presentano insieme questioni prodotte dalle vicende accadute: caduta di Mussolini, resa e fuga del Re al Sud, creazione della Repubblica di Salò, Resistenza, e quindi la creazione di tanti e differenti tipi di deportati: i militanti politici, i soldati italiani che non avevano giurato fedeltà a Mussolini, la popolazione civile, gli ex-prigionieri di guerra, e naturalmente gli ebrei italiani perseguitati dal 1938, ovvero dalle leggi razziali. A seguire, la Guerra fredda, la divisione tra Usa e Urss, che pone la Resistenza, dominata politicamente dal Partito comunista, dopo la vittoria della Democrazia Cristina nel 1948, in una posizione minoritaria, per quanto la Repubblica sia nata proprio da quell’esperienza militare e politica. Il partigianato oscura in vari modi e maniere lo sterminio ebraico, e per diverso tempo anche le leggi razziali del ’38. Poi qualcosa comincia a cambiare, non solo in Italia, ma in America, e in particolare in Israele, dove, dopo la rimozione dell’Olocausto, con il processo Eichmann (1961) nasce una nuova memoria, e insieme una nuova politica della memoria stessa a scopo politico, di cui hanno scritto i giovani storici israeliani come Idith Zertal. Di colpo nel 1989 crolla il Muro, e l’Olocausto diventa una narrazione importante sia per gli eredi dell’antifascismo (il post-antifascismo, come l’ha definito in un suo libro Sergio Luzzatto) sia per i post-fascisti andati al governo con Berlusconi.

 

L’ultimo capitolo del libro di Gordon, che procede sempre con un metodo esemplificativo, per non far perdere il lettore nel labirinto di questioni storiche, politiche e culturali, s’intitola non a caso Dopo la consapevolezza, e cerca di spiegare come e perché persino gli ex fascisti di AN, discendenti del MSI, il partito fondato dai reduci di Salò, si siano dichiarati a favore del Giorno della Memoria. Un cambio di stagione definitivo. Come è accaduto e soprattutto che conseguenze ha avuto? Il centro del libro di Gordon è nel capitolo intitolato Zone grigie e bravi italiani, dove affiora la questione principale, quell’interrogativo che l’autore si è posto sin dalle prime pagine: quale è il grado di coinvolgimento con lo sterminio ebraico da parte della popolazione italiana? Non solo del governo fascista e dei suoi rappresentati, ma proprio degli italiani.

 

Gordon nella sua storia culturale non può fare a meno di constatare da inglese, che guarda da distanza le cose di casa nostra, che la rimozione del grado di responsabilità degli italiani nella persecuzione ebraica si è perpetuata, e a lungo. Il mito del “bravo italiano”, su cui ha scritto David Bidussa in un importante libro, opposto a quello del “cattivo tedesco”, ha lenito il senso di colpa degli italiani, i quali sono responsabili delle persecuzioni e della deportazione dell’Olocausto, nonostante evidenti e diffusi atti in difesa di ebrei.

 

Il discorso di Gordon è complesso. Parte da un’idea del carattere stesso degli italiani, che trasforma i difetti attributi allo stereotipo nazionale – pigrizia, mollezza, corruzione, opportunismo, scaltrezza, scetticismo verso l’autorità e gli ordini, ecc. – in una spiegazione di perché sono stati numerosi i gesti in difesa degli ebrei perseguitati, da parte di sacerdoti, suore, funzionari, semplici cittadini. Le leggi cattive fatte dal Fascismo, la politica razzista, non avrebbero, secondo questa narrazione, toccato il cuore e l’anima degli italiani che non le applicavano alla lettera, nonostante l’occupazione tedesca. Siamo nel pieno di quella che Levi ha chiamato “zona grigia”, ovvero quel campo che separa i carnefici dalle vittime, il nero dal bianco, in una serie di sfumature e gradazione che vanno dalla colpevolezza piena alla collaborazione, più o meno grande e consapevole, con i carnefici medesimi.

 

Gordon ricostruisce come questo difficile discorso impostato da Levi nei Sommersi e i salvati (1986), sia stato strumentalizzato da altri, tra cui Renzo De Felice e Giorgio Bocca, per giustificare azioni e persone del passato prossimo coinvolte a vario titolo con le persecuzioni ebraiche e le stragi naziste o fasciste. Nel volume si trovano dettagli su tutto questo, e su come lo stesso Levi fosse turbato dall’uso strumentale delle sue parole. Ma non è questo che rende questo libro importante, bensì due altre considerazioni. Una riguarda la fine delle ideologie negli anni Ottanta e Novanta, che come un involucro contenevano e disciplinavano numerosi discorsi generali sulla responsabilità collettiva e individuale. Con il loro tramonto, dice Gordon, il successo della zona grigia – in funzione assolutoria o cripto-assolutoria – riflette lo slittamento dall’ideologia stessa verso la moralità, con una nuova attenzione all’individuo, il quale si trova a godere di un margine molto maggiore di manovra nel prendere, o giustificare, le proprie scelte.

 

L’accento posto sulla persona, invece che sui problemi generali, dei gruppi, delle collettività e dei sistemi, offre a un tempo una doppia e paradossale occasione: responsabilizza, ma nel medesimo tempo giustifica. Le condizioni in cui si sono trovate le singole persone tra il 1943 e il 1945 è la cornice entro cui comprendere, e anche avvallare, scelte molto diverse. Un tema che Italo Calvino affronta in un celebre capitolo di Il sentiero dei nidi di ragno, del 1947, mettendo in bocca al comandante partigiano il giudizio sulla scelta di quelli che, invece di opporsi al fascismo e al nazismo, scelsero la Repubblica di Salò sbagliando parte.

 

L’Olocausto alla fine degli anni Ottanta diventa sempre più un discorso che mette in campo la responsabilità degli individui, e sempre meno l’idea della politica come totalità e sistema. Diventa la prova del fuoco, la verifica ultima della moralità degli individui. Il che non significa che ogni italiano abbia davvero misurato all’epoca la propria adesione a quella o questa parte in lotta nel 1943, bensì, a posteriori, saldandosi al tema del “buon italiano”, tutto questo finisce per giustificare le scelte “attendiste” di non schierarsi né con i fascisti di Salò né con i partigiani compiuta negli anni Quaranta dalla maggior parte della popolazione.

 

Dopo il 1989 e la fine della cosiddetta Prima Repubblica, l’Olocausto ha colmato il vuoto che si è creato con la dissoluzione della coppia fascismo/antifascismo: “il vuoto rimasto”, lo chiama Gordon. L’autore vuol dire che con questo il Giorno della Memoria è diventato uno strumento di rimozione delle responsabilità italiana nell’attiva persecuzione degli ebrei e della violenza fascista? In parte sì; o meglio: nonostante l’intervento di autorevoli presenze di scrittori, saggisti, testimoni, storici, ricercatori, si è creata una sorta di negazionismo alla rovescia che passa attraverso la ritualità di quella celebrazione dell’Olocausto, come da tempo sostiene Alberto Cavaglion, voce controcorrente dell’ebraismo italiano.

 

       

Scrive Gordon: “come per la zona grigia, il tratto caratteriale del bravo italiano consente la creazione di una cornice, centrata sull’individuo e narrativamente efficace, entro cui si rendono possibile una visione e una lettura condivise della storia”. Post-fascisti e post-antifascisti uniti nel medesimo anniversario. Il critico inglese non si risparmia giudizi secchi come quando parlando del libro di Enrico Deaglio, La banalità del male, e del film televisivo dedicato a Perlasca, il fascista buono, che ne è scaturito, sostiene che al di là delle intenzioni dell’autore, direttore di “Diario”, una testata che si è schierata a favore di quella memoria attiva e non autoassolvente dello sterminio ebraico, si è prodotta una ideologia assolutoria: “Qui l’Olocausto si manifesta come un test di resilienza di una certa ambigua ma benevola italianità, non meno che di una critica della storia di compromessi e complicità dell’Italia”. La zona grigia sarebbe il vizio e il bravo italiano la virtù: “due stereotipi di fatto strettamente legati l’uno all’altro che, per giunta, paiono ritrovarsi, sin dalla loro origine, e in termini altamente rivelatori, costantemente a contatto con le vicende legate all’Olocausto”.

 

Il problema poi si estende ulteriormente in funzione assolutoria, o semi-assolutoria, quando prende il sopravvento la cosiddetta “storia popolare” che prende il posto, anche nelle classifiche di vendita dei libri, accademici o professionali, sulla spinta dell’idea che, dopo la fine delle ideologie totalizzanti, la storia stessa sarebbe qualcosa che si determina a livello della storia individuale e personale, un fatto di carattere, spiegabile a livello generale col carattere nazionale, “anziché a livello di vaste categorie ideologiche o strutturali dell’agire di stati, istituzioni, partiti o chiese”.

 

         

L’emblema narrativo di tutto questo è Alberto Innocenzi, interpretato non a caso da Alberto Sordi in Tutti a casa (1960) di Comencini, personaggio perfetto di “buon italiano”, che possiamo immaginare in linea con quello che sarebbe poi venuto dopo, compresa la celebrazione dell’Olocausto a quarant’anni di distanza. C’è da dire che il tono e le argomentazioni di Gordon non sono mai polemiche, anche quando fa nomi e cognomi, e ricorda in modo critico autori televisivi come Nicola Caracciolo e il suo Il coraggio e la pietà; la barra del timone del suo discorso ha una direzione ben precisa che si compendia nella domanda iniziale sulla responsabilità degli italiani.

 

        

Tuttavia i problemi che solleva, offrendoci un punto di vista inconsueto, e per molti aspetti nuovo, non sono facili da dirimere. Ne è un esempio la citazione finale tratta da un articolo di Adriano Sofri, un articolo apparso su “Diario” nel 2001, Le caverne dell’orrore, e anche su “La Stampa”, con altro titolo. Vi si parla della prossimità a Trieste di due luoghi chiave della memoria, la Risiera di san Sabba, campo nazista, e le foibe dei comunisti jugoslavi, e si chiede cosa sarebbe successo “se noi, i comunisti, avessimo vinto” o se il Nordest dell’Italia fosse stato separato e annesso a una repubblica comunista. La sua storia personale di fedeltà a quell’ideale e le vicende della storia europea degli ultimi settant’anni entrano in collisione. Forse non è un caso che Gordon scelga Sofri per dare forma a una sorta di “doppio legame” che attraversa tutto il libro, ovvero l’annodamento difficile da sciogliere, che condiziona ogni discorso sull’Olocausto (sull’adozione del termine Shoah nella vulgata italiana, al posto di Olocausto, l’autore si sofferma in modo critico).

 

Il problema della memoria divisa non si è ancora risolto, almeno tra chi ha vissuto la storia degli ultimi cinquanta o sessant’anni. Siamo ancora nella transizione. Nonostante si parli di Seconda Repubblica e di sua fine, ancora oggi viviamo nel lungo dopo-dopoguerra aperto dalla caduta del Muro di Berlino. Cosa saranno i futuri Giorni della Memoria, scrive Gordon, ancora non lo sappiamo. Cambieranno, anche se il primo decennio del nuovo millennio segue quelli vecchi, “le linee di continuità e frattura culturale” che sono scaturite dalla seconda metà del XX secolo. E in questo contesto lo stereotipo del “buon italiano” sembra avere ancora una notevole presa sull’opinione pubblica. Se il carattere degli italiani, la sua narrazione storica, dal Risorgimento sino a noi, si presenta ancora come un mito, non è ancora apparso chi riesca a proporre una nuova narrazione del passato. Su questo piano i giochi sono ancora tutti aperti.  

 

           

Robert S. C. Gordon, Scolpitelo nei cuori. L'Olocausto nella cultura italiana (1944-2010) - Traduzione di Giuliana Oliver, Bollati Boringhieri, Torino, gennaio 2013

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