Paesaggi in movimento / Abito, dunque sono
Qual è il senso contemporaneo del paesaggio? – si chiede Massimo Venturi Ferriolo, filosofo e paesaggista tra i più autorevoli, nel suo libro Paesaggi in movimento. Per un’estetica della trasformazione (Derive e Approdi, 2016). O forse è meglio parlare di paesaggi – precisa – perché è proprio l’uso del singolare ad astrarre spesso un paesaggio dalla sua realtà specifica, percepibile invece nella sua dimensione narrativa unica, leggibile nei luoghi di vita. Perché ogni paesaggio – e qui sta l’essenza della lezione di Venturi nell’intera sua opera – è un ethos, vita attiva nel gioco di scambio tra gli individui, capace di riflettersi nel mondo estetico a cui dà vita: “risultato della tensione dell’esistenza con la sua trama visibile di relazioni”. Dove l’uomo proprio mentre cura il suo mondo crea di volta in volta cultura, il complesso serbatoio di miti, tradizioni, valori, norme, linguaggi di cui si compone. Secondo un punto di osservazione privilegiato che è lo sguardo per così dire teatrale: “l’insieme della luce e della vista con il suo orizzonte critico” offerto dal palcoscenico fin dagli antichi greci.
Indicare un percorso paesaggistico (perché ogni luogo è in movimento, è un processo) significa incontrare, nella pratica del progetto, elementi reali e immaginari: manufatti vegetali, acque, ambiente biofisico, società ed economie intervenendo su una trama aperta al futuro. Con la consapevolezza, già di Leopardi nell’Elogio degli uccelli delle Operette morali, che “una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale non lo è, è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi o le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini…” O di Rilke (quelle note intense Del paesaggio) per cui vita e paesaggio finivano per coincidere in antico: nelle valli dove si radunavano gli eserciti, nelle “feste che si prolungavano sin nelle notti sfarzose, vibranti d’un suono argenteo” nelle “processioni degli Dei e la folla intorno agli altari”.
Abito dunque sono, perché costruisco, coltivo, custodisco. E ciò secondo la pratica dell’oikos nel senso completo di soggiornare, amministrare, governare: nucleo originario di ogni paesaggio. Ecco che abitare finisce per significare dimorare in un particolare ambiente umano con i suoi modi propri di pensare e di sentire, i suoi modelli di vita (l’etica in senso proprio) osservando le “misure locali” e tutelandole.
Coltivo, che non è solo il lavoro di cura del terreno ma il sentimento di radicato attaccamento legato all’aspirazione degli uomini a vivere in comunità, ad agire insieme (Vita activa di Hanna Arendt). Del resto il verbo colere ha una serie di significati connessi all’abitare (cultura, cura, culto) e insieme con il verbo venerare (da Venus-neris, Dea madre) a indicare un legame con la terra di rispetto e riverenza.
È sempre un corpo a percepire con i sensi per conoscere lo spazio con la sua lettura, cogliendo i differenti strati storici visibili e invisibili. Un corpo si relaziona così con il mondo circostante tramite uno stato sensoriale che conosce e riconosce i luoghi. Lo sguardo penetra nella realtà fisica, tattile e visiva dell’esistenza intuendo l’evento originario che ha dato il via a una dimora. Un paesaggio, nella bellissima definizione di Venturi – è perciò un “moto perenne di persone e cose, di individui sempre in connessione e integrati in una relazione universale fatta di movimento, transito, pausa, di racconti, di generazioni ed esistenze”. È un’arte del vivere, di disporre gli elementi per offrire all’effimera figura del vivente la possibilità “di oltrepassare il passaggio del tempo”.
Un pensiero rivolto ai luoghi (un pensiero paesaggistico, quello di cui si occupa Venturi) sonda le loro profondità, immergendosi all’interno e aprendo prospettive per svelare l’accaduto e insieme l’incognita dell’avvenire. Dove la bellezza, afferma, riprendendo John Berger è “la speranza di essere riconosciuti dall’esistenza di quel che state guardando e di esservi inclusi”. Riconoscimento, sempre contemporaneo a sé perché accoglie nello stesso tempo e nel medesimo campo visivo diverse epoche, in un intreccio che si condensa nell’unicità del luogo. In questa tensione incessante il presente è segnato dalla contemporaneità di ciò che è, di ciò che è stato, di ciò che sarà.
Io abito, dunque sono, e mi riconosco (ecco il nuovo senso dell’identità) come appartenente a quel luogo e intendo partecipare alla sua vita pubblica, reclamando “il diritto di conoscere per deliberare”. È nell’appartenenza che si riflette la qualità dell’esistenza, il valore dei luoghi. La tensione stessa verso l’oikos che Venturi definisce, significativamente come eco-etica. Che risponda alla perdita di senso della coerenza dei paesaggi attuali, alla loro “scarsa narratività” situandoli in un orizzonte flessibile, aperto alla relazione senza evocare necessariamente le certezze identitarie e i “linguaggi della rappresentazione”. Occorre – afferma sulle orme di Marco Aime – un pensiero rivolto all’esterno per afferrare i significati interni.
Io abito dunque sono. Esisto non da solo ma con altri o con altre cose che riconosco. È attraverso la misura che si fonda la dimensione antropologica dell’abitare con le sue relazioni in funzione dei problemi della società attuale. Così paesaggio è insieme “modo di città, ritmo delle ore e delle stagioni, sinfonia fra storia e natura” e il luogo lo spazio comune dei legami e dei comportamenti secondo un ethos rappresentato dalla condivisione di simboli e regole.
Abito dunque sono dentro il flusso della storia e degli usi, dove però tradizione (al contrario del tradizionalismo) non è una barriera contro il cambiamento, al contrario conclude Venturi, ne accetta la promessa.
Come ripartire da un’etica allora per il futuro dei paesaggi? Certo ritornando all’etica della responsabilità di Hans Jonas. Misurandosi, per così dire, con un’etica della responsabilità dei poteri pubblici che definisca condizioni e strumenti per coltivare i nostri paesaggi curandoli. Così da tramandare alle generazioni future “la realtà soggetta a trasformazione” secondo il nomos di un’etica e di un’estetica del mutamento.
Processo che si complica via via, con la caduta (catastrofica) dell’idea di progresso, la desertificazione delle campagne, l’azzeramento della vita comunitaria nelle città. Dove la stessa nozione di sviluppo si propone come “un viaggio con più naufraghi che passeggeri” riprendendo Edgar Morin o parole come sostenibilità (lo ricordava anche Luciano Gallino) sono definibili una panacea un po’ mendace.
Ciò che va perseguito in ogni modo è invece la cultura del ritorno alla terra e al locale senza cercare necessariamente le radici del passato, con la consapevolezza, semmai, che la loro cura è la medesima della nostra vita. Contro quell’omologazione fra luoghi e culture che trasforma i paesaggi, con lo sguardo rivolto – non allo specchio di Narciso e al culto pericoloso dell’identità a tutti i costi – ma con gli occhi di Odisseo diretti alla terra del ritorno. Questa filosofia, conclude Venturi Ferriolo, è alla portata di tutti: una tensione dell’esistenza, un’etica – dunque un’estetica – di paesaggio, per recuperare la natura sfuggita alla nostra stessa violenza.