Anime animalier / Donna pantera
La September issue 2016 di Vogue USA si interroga su cosa significa essere una donna forte nella giungla contemporanea, incoronando l'animalier come sua ancora di salvezza. L'identikit della donna che indossa il maculato viene fornito, sempre nella stessa sede, dal direttore creativo di Givenchy Riccardo Tisci: sensuale, sicura, impenitente e di ampie vedute. A prima vista sembrerebbe riferirsi a una cougar, termine inglese per puma, una donna, generalmente dai 30 ai 55 anni che prova interesse e instaura relazioni con uomini più giovani, secondo l'ABC di almeno nove anni, oppure per Repubblica, della metà dei suoi anni più sette. Si tratta dei famigerati toy boy, gli uomini giocattolo. Alle cougar sono dedicati siti di incontri, categorie di video porno, è una donna in rappresentazione, per usare un'espressione barthesiana. Il panorama mediatico ha contribuito alla proliferazione di questo mito, incoronando come capostipite Samantha Jones, una delle protagoniste più libertine della serie Sex and the City, sino a giungere a una serie dedicata chiamata Cougar Town (ABC, TBS 2009-2015), il cui nome è dovuto sia allo stile di vita della protagonista Courtney Cox, neo-divorziata intenzionata a riprendersi i suoi vent'anni frequentando uomini più giovani, sia alla mascotte del liceo della cittadina in cui si svolgono i fatti, per l'appunto un puma. Prima di Samantha, però, c'erano Mrs Robinson de Il laureato e la mamma di Stifler di American Pie, cougar inconsapevoli, ma accomunate alle loro epigoni proprio dall'animalier, che spicca in tutta la loro iconografia.
L'identità della donna e il suo stile sono strettamente connessi all'indumento che, sempre per Barthes (1967), nella concezione popolare poetica produce magicamente la persona.
Ebbene Tisci non si riferisce solo alle cougar, visto che per apparire nel numero più importante dell'anno di Vogue l'animalier deve occupare una posizione di predominio nel sistema moda contemporaneo, sostenuta da una certa onnipresenza sulla maggior parte delle passerelle, dette anche catwalk, specialmente nella sua declinazione felina. Si tratta dei soliti riferimenti alla sensualità, di cattivo gusto o di un più ampio discorso su una forma di vita votata agli “istinti naturali”?
Per rimanere nell'ambito della moda felina con un esempio vicino a noi dal punto di vista temporale, abbiamo scelto alcune collezioni dell'autunno-inverno 2016-2017 in cui ricorre l'isotopia del gatto.
Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, ha ornato maglioni in lana merino con applicazioni di gatti ricamati con cristalli, vetro e perline, e la frase “L'aveugle par amour”, “cieco per amore”, citazione di un dramma del 1871 scritto da Marie-Anne-Françoise Mouchard de Chaban, detta Fanny, nota come la contessa de Beauharnais, nonché esponente della mondanità francese che si è adoperata per difendere ed esercitare la libertà di espressione delle donne. Dunque la cecità amorosa non è una frase a effetto, bensì il riferimento a un preciso immaginario, popolato da donne-fiere capaci di distinguersi e combattere per i propri ideali, proprio come si legge sul sito Gucci in merito ai maglioni sui cui campeggia la stessa citazione, ma con la figura tessile della pantera che “simboleggia il coraggio, il valore e la potenza”.
Alla pantera si attribuiva una particolare predilezione per il vino e perciò era sacra a Dioniso. Nel corso degli anni ha perpetuato il suo raccordo con la sfera religiosa assurgendo ad allegoria di Cristo, perché capace di emettere un profumo per attirare gli altri animali e metterli in salvo da draghi e serpenti, rinnegando il suo status di predatore, qualità divulgata sin dagli scritti di Aristotele, Eliano e Plinio. Insieme al liocorno e all'elefante, la pantera era ritenuta l'animale casto per eccellenza, alla guida del carro della verginità, e presente nelle raffigurazioni sacre fino al XIII sec. Il rovescio della medaglia si ebbe con le tre concupiscenze dell'ascetismo cristiano, dove la pantera a macchie, o leopardo, figurativizza la lussuria, come conferma l'iconografia quattrocentesca di Maria Maddalena dove la pelliccia maculata funge da riferimento ai trascorsi lascivi della santa. Si riteneva anche che il leopardo avesse facoltà di mutare il suo manto a piacimento, additandolo come impostore infernale e tentatore, e pertanto era l'assassino designato per giustiziare i martiri cristiani nell'antica Roma. Nell'Iconologia di Cesare Ripa del 1593, la Libidine promiscua era rappresentata con indosso una “pelle di pardo” le cui macchie erano generate dai pensieri impuri dell'uomo dissoluto.
Venendo a tempi più mondani, tra il 1880 e il 1900 il movimento britannico Aesthetic Movement, usò il maculato per capi dalle linee fluide, a liberazione del corpo, diretti a una donna intellettuale ed emancipata. L'Aesthetic Movement e la contessa de Beauharnais corroborano la tesi di una donna alla moda che si appropria delle qualità dei felini, per raggiungere i suoi obiettivi.
Ritroviamo forse qualcosa del genere nelle peculiari chiusure a forma di testa di tigre delle borse a spalla della linea Dionysus di Gucci.
L'introduzione di questo felino tra i motivi ornamentali della griffe si spiega a partire dal nome delle borse, un chiaro rimando alla divinità omonima della mitologia greca, in cui si narra che una tigre venne inviata da Zeus a Dioniso come mezzo per attraversare il fiume Tigri e raggiungere l'India dove insegnò l'arte della viticoltura e diffuse il suo culto. La tigre come chiusura è un esplicito riferimento ai confini del mondo conosciuto raggiunti da Dioniso, figurativizzazione del più vasto universo di senso che racchiude una borsa, in altre parole la sfera privata di ogni donna. In effetti il dionisismo propugnava una completa immersione nella vita animale e vegetale per ottenere la libertà assoluta e la tigre della borsa funge da portale d'accesso per connettersi con infinite e magiche realtà.
La tigre è correlata anche alla coppia Arianna-Dioniso, che Nietzsche avrebbe voluto introdurre nello Zarathustra (cfr. Giannetta 2006, p. 248), così come testimonia il seguente frammento: “Dioniso su di una tigre: il cranio di una capra. Una pantera: Arianna che sogna "abbandonata dall'eroe, sognò il supereroe"”. In Nietzsche troviamo due delle figure tessili di Gucci citate nella criptica descrizione del mondo vitale di Arianna, dominato dalla Sehnsucht, ossia il dolore che scaturisce dal desiderio di qualcosa di irraggiungibile, esattamente come accade nella modalizzazione del voler congiungersi a tutti i costi con gli oggetti di moda. Anche se la stessa Arianna è spaventata dalla tigre, deve ricredersi perché diventa la sua salvatrice, lo stesso ruolo che Gucci vuole assumere nei confronti della sua cliente modello: una salda ancora a cui aggrapparsi e attraverso cui esprimere la propria natura, elemento ulteriormente rimarcato dai motivi floreali che accompagnano i ricami dei felini. Le applicazioni hanno preso vita grazie alla regista Floria Sigismondi che li ha rappresentati in carne, ossa e fogliame nell'ultimo fashion film della campagna #GiftGiving, ambientata in un giardino edenico, dal fittissimo apparato figurativo, dove eteree Eve-Esperidi si accompagnano ad Adami apollinei, in bilico tra innocenza e tentazione.
Con Dolce&Gabbana passiamo dai motivi mitologici a quelli domestici e fiabeschi, dove il gatto fa da padrone in entrambi i casi. Per ciò che concerne la fiaba, il fine ultimo è dichiaratamente quello di attualizzare nei capi l'età dell'oro infantile, affidandosi a gatti, soldatini, stelle e scarpette di cristallo, convocando atmosfere ormai perdute. Si vuole restituire la voce a quel fanciullino sopito attraverso i capi, che diventano un mezzo per placare “l'instancabile desiderio” del bello, e assorbono le proprietà magiche delle figure impresse su di loro, diventando un dispositivo della visione fantastica e onirica.
La collezione Wonderland realizza il sogno delle donne di diventare principesse in una declinazione contemporanea del termine, che non prevede lunghe clausure in castelli, bensì missioni esplorative il cui obiettivo è la cattura del principe azzurro.
Il gatto Dolce & Gabbana, invece, incarna le categorie semantiche di selvaggio e domestico, perché è un Bengala, una razza che nasce dall'incrocio tra un gatto domestico e un gatto leopardo. Non si tratta però, di un Bengala qualunque, ma di uno, anzi di una, dotata di tratti caratterizzanti ben precisi, tra cui spicca quello di essere l'amica a quattro zampe di Stefano Gabbana. Zambia è la protagonista, insieme al suo compagno Kongo e ai loro cuccioli, di una collezione omonima, rivolta alla “donna dall'animo felino”. I fortunati gattini fanno parte della #DGFAMILY, la famiglia composta da Stefano, Domenico e i suoi labrador, protagonista di una linea autonoma di capi e accessori, in cui troviamo rappresentata ogni tipologia di nucleo familiare, il vero punto di riferimento del brand. Zambia è stata anche immortalata in forma di stampa su alcune borse Sicily, all'interno delle quali è contenuto uno specchietto su cui è scritto “La più bella sei tu”, messaggio dalla triplice valenza: la prima è rivolta alla gatta, la favorita dello stilista, la seconda alla terra natia celebrata a partire dal nome della linea, la terza alla donna che utilizza lo specchio nella quotidianità, per una ricorrente iniezione di fiducia.
Grazie a Zambia scopriamo che i gatti hanno storia e identità, li si può seguire addirittura sui social, anche se in questo senso la massima esponente dei felini famosi è Choupette Lagerfeld, animale domestico di Karl, il direttore creativo di Chanel, protagonista di tutte le collezioni e delle collaborazioni dello stilista. Choupette è l'antesignana dei pet influencer, giungendo a ricevere una nomination per gli Stylight Awards, un premio dedicato agli umani che determinano i trend a partire dalle loro attività online. Ciò che colpisce di Choupette non è la sua vastissima disponibilità economica, ma il suo stile di vita “incantato”, fiabesco, al di sopra di quello della maggioranza della popolazione mondiale. Sui suoi profili social Choupette parla in prima persona, è dotata di ipseità semiotica, di una voce per esplicitare la sua auto-rappresentazione, e dunque l'animale non è completamente privo di parola se è l'umano a interpretare ciò che potrebbe dire. Nei discorsi di Choupette si verifica un fenomeno definito da Fisher (1990, pp. 100-101) come antropomorfismo interpretativo categorico, cioè l'affibbiare ai pelosi sforzi mentalistici che in realtà non compiono. La gatta pontifica su Instagram e Twitter, ispira capsule collection, può contare su svariati umani al suo servizio, un iPad personale ed è erede dei beni di Lagerfeld che ha deciso di inserirla nel testamento perché – guarda caso – non può sposarla. Choupette ha compiuto un salto di qualità arrivando alla collezione di Chanel AI 2016-17, subendo un processo di “fumettizzazione” per affiancare il monogram della doppia c nel pattern di stagione. La fumettizzazione è in realtà una “emojizzazione”, visto che la trasposizione grafica del felino condivide tutti i tratti dell'estetica delle faccine dei social: rotondità, semplicità, leggerezza, iconicità.
Sulla stampa autunno-inverno di Chanel, oltre a Choupette e al monogram, si alternano le emoji della vittoria, del pollice alzato e del quadrifoglio, una sovrapposizione neo-barocca con intento empatico delle cifre visive più diffuse del momento, che fungono da inscrizione dell'epoca della produzione del capo o dell'accessorio, proprio come i fumetti manga proiettano il lettore nella duratività dell'azione. L'unica faccina presente è quella del gatto, il cui musetto aggiunge un'ulteriore accezione alla “società facciale1” contemporanea, cioè quella animale. Il connubio di emoji e monogram non è solo à la page, ma incarna i gusti dell'essere di moda Chanel, descrivibile con una parola Millennial, come le sue testimonial senza vibrisse e pelliccia.
Per chiudere la rassegna delle gatte celebri, la terza all'appello è Chloe, British Shorthair, vera professionista della pubblicità, che ha partecipato alla campagna della borsa Miss Juno del brand Max&co. Nel mini spot la vediamo spuntare dalle borse e zampettare su una struttura piramidale, mostrando di rapportarsi in maniera estremamente disinvolta con il set e gli oggetti di moda, proponendosi come utilizzatrice modello. Si tratta di borse o di trasportini? Magari di entrambi, ma l'aggiunta del fattore gattino si rivela un ottimo input per generare commenti entusiastici sui social, dove si ammette all'unisono che sono state toccate entrambe le debolezze di una donna: la moda e i pelosetti. Dunque il gatto si trasforma in dispositivo patemico, atto a trasferire sull'accessorio di emozioni positive, innescando una spirale empatica.
La passione felina assume ulteriori sfaccettature grazie a Stella McCartney che dedica il suo autunno 2016 ai gatti in nome dell'etica animalista. La stilista inglese propone una stampa di gatti di diverse razze, in uno stile a metà tra Henriette-Ronner-Knip e Renoir, abbinata alla figura tessile animalier: il felino viene rappresentato in tutte le sue declinazioni, nella sua interezza, nei suoi generi, nelle qualità del suo manto.
Il gatto non è solo «di moda» ma anche «alla moda», è animale da copertina, ma senza che il suo corpo venga trasformato dagli abiti perché è lui a zoomorfizzarli. E così scopriamo che anche i mici-testimonial di Stella McCartney hanno un nome – Buttercup, Tobias, Starina, Daisy, modelli della scuderia Pet London Models – e sono impegnati in un tour dei più famosi festival musicali dell'estate 2016, come Coachella, Glastonbury, Lollapalooza, per iniziare a diffondere i trend della stagione successiva. Una serie di gif animate mostra i gatti alle prese con i capi autunnali, e grazie al fotoritocco, non solo spuntato dall'esclusivo trasportino Falabella, ma diventano anche in grado di indossare orecchini e occhiali da sole, pogare o suonare un sassofono. L'utilizzo di gif di gattini si spiega con la volontà di rendere virale la campagna, adoperando uno dei mezzi espressivi più diffusi nell'ambito dei social media.
Il messaggio pubblicitario si appropria di pratiche sorte dal basso per affermarsi ed essere condiviso ripetutamente. Ogni immagine reca la narrazione del momento vissuto dal felino, dove si pone l'accento non solo sull'esperienza, ma soprattutto sulla spiccata filosofia animalista del brand: “Al Lollapalooza Daisy indossa stampa su stampa. Stampa di gatti su stampa di gatti, ecco i perfetti accessori #FurFreeFur simbolo della nostra ultima collezione Autunno 2016”. La riproduzione del manto del felino rimane tale perché si utilizza pelliccia ecologica, è soltanto un'imitazione della natura, una culturalizzazione dei suoi motivi e della sua consistenza tattile, in modo da mimetizzarsi con la piccola pet influencer, così chi la indossa può avere la “coscienza pulita” ed essere allo stesso tempo alla moda. Stiamo parlando del primo brand di lusso al mondo completamente vegetariano, scelta fortemente voluta dalla stilista che si identifica completamente con ogni causa che persegue, come ben dimostra l'hashtag della campagna #StellaMcCaTney, votato anche a una raccolta fondi per PETA.
Dall'animalismo passiamo al totemismo, con la collezione Loewe, dove troviamo una declinazione tribale del gatto, il cui muso è trasposto su ciondoli e charms fuori misura. La suggestione è appunto totemica, in rima plastica con l'altro motivo della gioielleria autunno-inverno del brand, la maschera africana. Come afferma Deleuze, se pensiamo al totemismo in un'ottica immaginativa lo colleghiamo senza meno all'identificazione animale, ma se trasferiamo tale ragionamento su un piano simbolico ci accorgeremo che si tratta di omologia strutturale tra due sistemi di differenza. E qui saltiamo a piè pari verso le teorie dell'ecoantropologo Philippe Descola, fautore dell'abbattimento della dicotomia natura/cultura, che appunto vede il totemismo come un tutto organico tra umano e animale, identici nella mente e nel corpo. In realtà si avvicina a Deleuze più di quanto pensiamo perché tale uguaglianza si raggiunge tramite un equilibrato amalgama delle individualità, attualizzate a partire dal connubio delle loro differenze, per partenogenesi.
Ed è a partire dai contrasti che la moda ricava le astrazioni per offrire una donna in rappresentazione attraverso proposte di personalità illusorie, consentendo una doppia postulazione dell'identità da reputare o come una sintesi della condizione femminile oppure come spunto per mascherarsi con uno dei tanti caratteri proposti.
Il mascheramento è il minimo comune denominatore dei gatti influencer e delle stampe animalier. Entrambi presuppongono una metamorfosi, una manipolazione della propria immagine a partire dalle categorie di nudo e ornato. Il gatto è animalier per natura, mentre l'uomo si adorna in tal modo per gusto o tendenza. Marcel Mauss (1939) parla di mascheramento come “rappresentazione estatica” del sé che si attualizza nel diventare altro, identificandolo e differenziandolo contemporaneamente, e dunque potremmo parlare di una spettacolarizzazione della quotidianità animale e umana. Il felino ha inscritto nel suo manto una memoria figurativa di cui si appropria chi indossa capi che lo imitano attuando un processo di zoomorfismo. In fin dei conti l'animalier non è altro che una rappresentazione dell'animale, una figura tessile ispirata al mondo naturale. Siamo noi ad attribuirle significato volta per volta, inserendolo in un sistema di capi e accessori votato a esprimere passioni, orientare gli sguardi, a permetterci di recitare la nostra parte di persone o, per riprendere l'accezione di quest'ultimo termine evidenziata da Benveniste (1956), di maschere. Dunque mascheriamo gli umani da gatti e i gatti da umani? Sì, per renderli ancora più veri e naturali, ora attivando la sindrome di Bambi, ora spingendo l'acceleratore sui pedali dell'esotismo e della sensualità.
Il gatto è unità culturale, ora essere soprannaturale immobile e sedentario, sfinge e totem, ora soggetto dinamico che vive e interpreta la moda. Nelle due poesie intitolate Le chat e nel sonetto Les chats, Baudelaire associa l'immagine del felino alla donna e all'amore, ma caratterizza i personaggi secondo una natura androgina strutturando le rime dei sostantivi femminili al maschile (cfr. Jakobson e Strauss 1962, p. 128). Tale ambiguità ha lo scopo di mediare tra le varie istanze che confondono il poeta, liberandolo da ogni sovrastruttura consentendogli di dedicarsi alla contemplazione dell'universo. In altri termini, la lezione di Baudelaire spinge a considerare il gatto come entità che permette di riappropriarci della natura, a partire dall'esterno, ovvero dall'abbigliamento.
In tal senso potremmo passare dal totemismo al naturalismo di Descola, ossia l'identificazione tra umano e animale solo nel corpo, ma non nell'anima, dato che grazie alla moda si stabilirebbe una similitudine somatica, ma dovremmo ancora fare i conti con le accezioni dell'animalier passate in rassegna sinora, che a collezioni alterne stereotipizzano la seduzione, il fiabesco, l'etica, il totemismo, l'emancipazione, il mascheramento.
Ecco, data l'esistenza di un multinaturalismo2 perché non postulare pure un multianimalierismo per la pluralità dei soggetti in gioco e dei modi d'intenderlo? Nel novero della moda rientrano anche mucche, giraffe, zebre, pitoni, procioni, volpi, ecc., non solo felini, e ogni animale figurativizza qualcosa in una data cultura.
È una giungla là fuori e ogni donna-fiera che si rispetti sa che ogni giorno dovrà scegliere degli outfit appropriati per sopravvivere, o, meglio ancora, per vivere sette vite come i gatti.
Sintesi dell'intervento che Bianca Terracciano terrà con Isabella Pezzini oggi a Palermo, nel convegno Forme e politiche dell'animalità. Zoosemiotica 2.0 www.zoosemiotics.it.