Binta Diaw: Dakar-Lampedusa

12 Agosto 2024

Ci troviamo presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino.

Di fronte abbiamo una videoproiezione di dimensioni amplissime, che ci porta sul mare, dapprima vicino alla riva, poi al largo. Un elemento di difficile identificazione galleggia sulle onde che increspano l’acqua. Mentre la luce trascolora la corrente finirà per trascinarlo a riva, e scopriremo che si tratta di una piccola stuoia coperta di terra.

Ai nostri piedi un grande telo di plastica trasparente su cui sono poggiate, a distanza regolare, tante piccole masse scure, tutte uguali; hanno forma di ogiva, anch’esse sono fatte di terra. Tumuli? Scafi di barche rovesciate?

Il tutto sembra entrare in risonanza nelle parole che, pronunciate da una voce calda, riempiono lo spazio; parole tratte dal più noto componimento del poeta senegalese Birago Diop, Le Souffle:
 [...] Dans le lit et sur les rives du fleuve, Des souffles qui se meuvent

Dans le rocher qui geint et dans l'herbe qui pleure.
Des souffles qui demeurent
Dans l'ombre qui s'éclaire et s'épaissit, Dans l'arbre qui frémit, dans le bois qui gémit 

Et dans l'eau qui coule et dans l'eau qui dort, Des souffles plus forts qui ont pris Le souffle des morts qui ne sont pas morts, Des morts qui ne sont pas partis, Des morts qui ne sont plus sous la terre.

Écoute plus souvent

Les choses que les êtres [...]

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Binta Diaw “Il peut pleurer du ciel” at Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, 2024. Photo: Giorgio Perottino.

“[…] Sulle rive del fiume e nel suo letto, Dei respiri che si muovono
Nel lamento della roccia e nel pianto dell'erba.
Dei respiri che restano
Nell'ombra che si fa più chiara e più densa, nell'albero che freme, nel legno che geme

E nell'acqua che scorre e nell'acqua che dorme, Dei respiri più forti hanno preso Il respiro dei morti che non sono morti, dei morti che non sono andati via, dei morti che non sono più sottoterra.

Ascolta più spesso
Le cose piuttosto che gli esseri [...]”

(traduzione di Gabi Scardi)

Binta Diaw, autrice dell’installazione, e oggi tra le artiste italiane più apprezzate, si interessa fin dagli esordi a temi coloniali e postcoloniali, alle migrazioni e alle loro dinamiche, e all’esperienza diasporica; un’esperienza che, in quanto senegalese di origine, e spesso in movimento tra Milano, Dakar e Parigi, conosce personalmente.

Per quanto riguarda Il peut pleurer du ciel, lo ha concepito con in mente Lampedusa, che si vede in lontananza in una delle inquadrature del video; ma ha finito per girarlo nel quartiere periferico di Yarakh a Dakar: ha voluto spostare l’attenzione su coloro che partono, su chi decide di muoversi. Nella stuoia coperta di terra, che fluttua cercando di resistere al vento e alle maree, non è difficile leggere un’evocazione del proprio luogo, quello che si porta con sé, ovunque si vada; ma anche una relazione con il corpo; “Il video è una metafora del corpo che attende la sua sorte”, dice Diaw. 

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Binta Diaw “Il peut pleurer du ciel” at Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, 2024. Photo: Giorgio Perottino.

Il peut pleurer du ciel è dunque una riflessione sulla migranza, e un’elegia, un compianto sulle innumerevoli storie destinate a restare celate in quel mare; sul corpo assente dei troppi che nel tentativo di rinegoziare il proprio destino hanno cercato di raggiungere una nuova terra, e non ce l’hanno fatta. È uno spazio rituale di umana partecipazione; una sorta di monumento impermanente, abitabile, che avvolge e avviluppa.

Visitare la mostra significa immergersi in quell’ambiente, prendere parte; confrontarsi con il moto vasto del mare, con il tempo che passa e la luce che cambia, fino all’imbrunire che rende il mare malinconico, poi cupo; con la griglia regolare delle sagome di terra ai nostri piedi. Significa sentirsi esposti all’idea di una migranza universale che va oltre i casi singoli, comprendendoli tutti. A momenti l’impressione è di un’unità di senso che a ognuno di questi destini ci accomuna. Ma nello stesso tempo è ben chiaro che trovarsi lì come visitatore significa già vivere in posizione di accomodante privilegio.

Come in tutti i suoi lavori, anche con quest’opera Binta Diaw guarda al presente, senza dimenticare il passato: se oggi il mare è solcato dalle piccole imbarcazioni dei migranti, per secoli ad attraversarlo sono state le grandi navi della tratta, cariche di individui strappati alla propria terra.

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Binta Diaw “Il peut pleurer du ciel” at Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, 2024. Photo: Giorgio Perottino.

Nel lavoro di Diaw il tema è ricorrente. Ad esso l’artista ha già dedicato alcune opere maggiori, basti pensare a una delle sue prime installazioni di grandi dimensioni – replicata a più riprese, tra l’altro alla Biennale di Liverpool 2023 – Chorus of Soil: la planimetria di una nave disegnata a pavimento utilizzando cordoli di terra. Il disegno è dedotto da un noto disegno settecentesco, in realtà un vero e proprio modello di stivaggio, che mostra l’interno della nave occupato da linee disposte parallelamente le une alle altre, a comporre un insieme fitto e ordinato. Sono le sagome degli schiavi che in questo modo, immobilizzati in modo da mantenerne il controllo e da ottimizzare lo spazio, venivano trasportati.

Ma Chorus of Soil va oltre la constatazione: alla terra di cui è fatto sono mescolati semi e chicchi di cereali, proprio come quelli che, nascosti nelle trecce dei capelli, portavano con sé le donne prelevate in Africa, nella speranza di poterli piantare all’arrivo. Questi semi, che sulla sagoma nera del vascello negriero germoglieranno progressivamente, trasformandola in un giardino, rappresentano la forza germinativa di donne indomite, malgrado tutto. 

Così, sia in Chorus of Soil, sia nel recente Il peut pleurer du ciel Diaw insiste sulla ricchezza semantica delle forme, degli oggetti e dei materiali; a partire dai capelli, intrecciati secondo una pratica identitaria trasferita da sempre di generazione in generazione, per linea femminile, alla terra: “la terra è corpo, e noi siamo terra” – dice.

E d’altra parte il lavoro si nutre di ampie ricerche storiche e di un patrimonio culturale personale, fortemente sentito e personalmente esperito.

Dunque Diaw si muove tra passato e presente facendo riferimento a motivi, segni e simboli legati all’estetica africana per decostruire convinzioni consolidate a favore di una nuova narrazione. Con energia critica e con forza evocativa esprime la consapevolezza delle dinamiche di potere a cui sempre sono state soggette le popolazioni africane, che pure non hanno mai davvero rinunciato a se stesse. Un atteggiamento di resistenza pur nell’oppressione, di ricchezza culturale pur nella schiavitù è ciò che il suo lavoro vuole esprimere.

Per questo il corpus complessivo delle sue opere trasmette un forte senso di energia. Si tratta, per Diaw, di tornare a occupare il campo della conoscenza, partendo, sì, dalla consapevolezza del fatto che, se in Europa e nelle sue proiezioni oltreoceano una prospera modernità si è potuta sviluppare, è stato grazie al lavoro forzato degli oltre dodici milioni di persone ferocemente deportate dall’Africa. Ma ora, di queste persone sradicate, si tratta di rivendicare la storia, sviluppatasi parallelamente all’altra, seppur assai meno nota. 

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Binta Diaw, La plage noire. 2022. Ph Antonio Maniscalco. Courtesy the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani, Milan-Lucca.

Di rivendicare la forza dei loro gesti, e il valore di strategie di sopravvivenza che oltre a salvare vite hanno contribuito a trasmettere identità culturale.

La forza di questa storia si ritrova in tutta la sua opera; per esempio nella serie dedicata alle mangrovie: piante tropicali anfibie, intricate, proliferanti di radici sia aeree che acquatiche, che caratterizzano un tipo di paesaggio umido, marginale, arduo da abitare; ma capace di rivelarsi, proprio per questo, provvidenziale per gli schiavi fuggitivi in cerca di un rifugio. L’artista ha creato lunghe trecce che fanno riferimento alle capigliature femminili degli afrodiscendenti, ma come le aeree radici della mangrovia si dispiegano organicamente nello spazio, a creare volte multiformi. I loro estremi calano dall’alto e affondano dentro specchi d’acqua o dentro tappeti di terra.

Un inno a tante storie nascoste, questo è il lavoro di Binta Diaw nelle sue diverse articolazioni; una celebrazione delle conoscenze ancora vive anche se per secoli marginalizzate, un cantico al corpo, fecondo quale che sia il suo destino, proprio come i capelli, che mai rinunciano a crescere. Ma anche una testimonianza relativa a episodi della storia coloniale recente, e a quella postcoloniale, di oggi.

È il caso di 1.12.443 (2022), dedicata al massacro, tutt’ora inspiegato, che l’esercito francese perpetrò alla fine del 1944 nei confronti del corpo militare dei Tirailleurs Sénégalais che nella Seconda Guerra Mondiale aveva combattuto al suo fianco – l’installazione è fatta di berretti rossi dei Tirailleurs dalla cui punta germogliano semi di miglio e di mais: le piante che questi ex agricoltori sognavano probabilmente di tornare a coltivare nelle loro terre una volta congedati. E di Black Powerless, che fu, solo pochi anni fa, tra le opere d’esordio di Diaw. L’artista vi dà forma sensibile alla questione presentissima e cogente dello Ius Soli: si tratta infatti di una serie di calchi di pugni chiusi di ragazzi afro-italiani, volti verso il basso come a gridare l’impotenza di una generazione che si trova a confrontarsi con l’atteggiamento di chiusura di parte della società italiana.

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Binta Diaw, La plage noire. 2022. Ph Antonio Maniscalco. Courtesy the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani, Milan-Lucca.

Analogamente, dalla necessità di commentare il presente nasce Nero Sangue: due pomodori neri, coltivati e raccolti da braccianti migranti, presentati così, per ciò che sono, nella loro espressiva organicità. Diaw li ha esposti in abbinamento con immagini e ritratti di donne, uomini e bambini tratti da “La Difesa della Razza”, a ricordare come l’attitudine oppressiva degli atteggiamenti coloniali della prima metà del Novecento si perpetui ancora oggi, nello sfruttamento estremo subito quotidianamente da troppi migranti nelle campagne e nelle città italiane.

Il peut pleurer du ciel con il suo riferimento ai giovani migranti costretti ad affrontare, in nome della speranza, viaggi dolorosi e troppo spesso letali, si inserisce in questa serie di opere: a distanza di oltre cinque secoli dall’inizio della tratta quella violenza continua a rivelarsi nella storia economica e nelle dinamiche geopolitiche attuali; e se giustizia, emancipazione, diritti individuali sono ancora traguardi da raggiungere, non basta guardare al passato, si tratta di rivendicare il presente.

Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

Il peut pleurer du ciel, a cura di Ilaria Bernardi, Mostra co-organizzata e co-prodotta da Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Associazione Genesi. Fino al 13 ottobre 2024

A inizio settembre l’artista parteciperà a MANIFESTA 15, a Barcellona, e a Panorama Monferrato. 

In copertina, Binta Diaw, La plage noire. 2022. Ph Antonio Maniscalco. Courtesy the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani, Milan-Lucca.

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