Un saggio di Katherine Hayles / Pensiero senza pensatori

8 Febbraio 2022

Come ripeto da qualche anno ai miei studenti all’inizio dei corsi, l’Intelligenza Artificiale non è soltanto una frontiera tecnologica, ma una sfida culturale e filosofica. Non tanto perché richiede una rapida evoluzione dei nostri modelli culturali e dei nostri paradigmi sociali, ma soprattutto perché sta mettendo in discussione il cuore della cultura umanistica, ovvero il concetto di essere umano, o persona. Che cosa è una persona? Quali sono i suoi limiti fisici? In che modo persona e mondo si contrappongono o piuttosto si integrano? Se la persona è cuore e corpo, è stata spesso identificata con il pensiero. Dalla canna debole ma pensante di Pascal fino al flusso di coscienza di Joyce, una autorevole tradizione ha contrapposto i soggetti in quanto capaci di pensieri con le cose, esistenzialmente e fenomenologicamente inerti. Questa separazione è oggi messa in discussione dalla possibilità di realizzare “cose che pensano” ovvero dall’intelligenza artificiale (IA). Nel momento in cui la tecnologia promette di creare macchine intelligenti, ecco che non si può fare a meno di interrogarsi sull’assunto di base dell’umanesimo, sostanzialmente che solo gli esseri umani siano capaci di pensiero.

 

Non sono domande nuove, già Norbert Wiener e Alan Turing a metà del secolo scorso si erano posti le stesse domande, però oggi queste promesse sembrano più concrete, non solo ai futurologi ma anche agli umanisti. Oggi, sia pure con molti distinguo e molte perplessità, l’IA ci presenta scenari sempre più vicini, nei quali l’umanità si troverà a condividere il pianeta con soggetti artificiali, macchine pensanti o persino coscienti. E, al di fuori delle pagine degli esperti, nella nostra vita quotidiana  ci rendiamo tutti conto che gli oggetti – cellulare, automobile, rete domotica – stanno diventando sempre più autonomi e intelligenti e ci stanno togliendo, una funzione alla volta, spazi di autonomia cognitiva e decisionale.

E così il piano della discussione degli umanisti si sposta necessariamente sul piano tecnico e scientifico mentre, con qualche asimmetria, esperti di IA e informatici affrontano le grandi domande filosofiche sulla natura del significato, dell’esistenza e dei valori. È un incrocio turbolento, simile alla confluenza di due grandi torrenti in piena che, dalla loro convergenza, generano mulinelli, risacche, vortici e, in questa confusione liquida, erodono gli argini che tenevano separate antiche discipline e fossilizzati ambiti culturali.

 

In questo contesto è stimolante lo sforzo di Katherine Hayles, professore alla Duke University, e critica letteraria americana, nota soprattutto per i suoi contributi al confine tra letteratura e scienza, nel raccontare lo slittamento tettonico al cuore della cultura umanistica. In particolare, il suo ultimo libro L’impensato (effequ, 2021) è una scorribanda fra letteratura, neuroscienze, cultura americana e intelligenza artificiale. Il testo è scorrevole e molto ricco anche se, a tratti, tradisce un debito verso autori non compresi in modo critico (penso soprattutto ai riferimenti sulle basi neurologiche della coscienza e all’enattivismo). A parte queste debolezze vale comunque la pena di seguire il percorso della Hayles, sicuramente eccentrico e originale, e riflettere con lei su alcuni punti di svolta della nostra epoca.

Il punto di partenza è sicuramente il rapporto tra coscienza, inconscio cognitivo e mondo fisico. Se il pensiero non è una prerogativa umana, allora il mondo delle cose ha la priorità e anche noi siamo un suo frutto. Dobbiamo scoprire la cosa che siamo veramente e questa rivelazione sarà il risultato dell’integrazione di IA e scienza cognitiva, o almeno questo è quello che la Hayles crede e molti autori promettono. La nostra coscienza non sarebbe altro che un livello illusorio, una narrazione approssimativa, un cruscotto semplificato, di un livello macchinico e meccanico, il pensiero non pensato, che sarebbe la visione funzionale della mente alla base oggi di scienze cognitive, neuroscienze e intelligenza artificiale.

 

L’«impensato» di cui parla la Hayles consiste in questo livello di intelligenza non cosciente che organizza e struttura il mondo fisico sia nel mondo animale (e vegetale) sia, da qualche anno, nelle reti di artefatti. In buona sostanza, si tratta del livello della mente cognitiva che Chalmers aveva chiamato in modo colorito lo «zombie dentro di noi».  Ovviamente, questa azione senza pensiero cosciente è ontologicamente problematica: perché considerarla parte della mente? La Hayles non ha una risposta filosoficamente soddisfacente, anzi evita la domanda, come, del resto gran parte dei neuroscienziati e dei filosofi della mente che lei cita, spesso acriticamente. La mente senza consapevolezza, cioè l’inconscio cognitivo, è veramente la stoffa di cui è fatta la persona? Non è affatto ovvio. Un cellulare che mi riconosce mi vede? No. È dotato di mente cognitiva? Personalmente direi di no. E allora perché i meccanismi neurali che supportano la nostra esperienza cosciente dovrebbero essere considerati parte di una mente che non fa esperienza di se stessa? Sono domande che andrebbero affrontate direttamente. Anche lo statuto ontologico della mente cognitiva, ovvero l’impensato di cui parla la Hayles, andrebbe valutato in modo più critico. 

 

In relazione con l’ontologia di mente e mondo, una delle parti più interessanti del libro è la sezione sui nuovi materialismi (Barigotti, Latour, Parisi, Harman) concepiti in ambito più umanistico che scientifico e che dimostrano come, in sintonia con Benjamin, sotto la pressione di nuove tecnologie la sovrastruttura culturale umanistica consideri ontologie non antropocentriche che muovono dalle cose e non dalle persone. Il materialismo – classico moderno o contemporaneo – presuppone che la realtà ultima sia nella materia (ovvero in un principio non mentalistico). Anche la persona, quindi, deve trovare posto nel club degli enti naturali, ma così facendo deve mettere in discussione il suo statuto di soggetto cosciente e trovare, nell’impensato, la propria vera natura.

 

 

È una tesi controversa, che io personalmente non condivido pur essendo un convinto fisicalista, ma che oggi è dominante, almeno in ambito accademico. C’è forse un elemento biografico e psicoanalitico nel fatto che l’autrice, che è una critica letteraria di formazione, sia impegnata con tanta energia a detronizzare la coscienza (e con essa il flusso narrativo esistenziale) da una posizione di preminenza a una condizione accessoria. Il cognitivismo scientista espresso un po’ ingenuamente dall’autrice vorrebbe ridurre anche le discipline umanistiche in condizione ancillare rispetto al funzionalismo scientifico.

Del resto, è curioso che L’impensato, che è un lungo attacco alla nozione della mente cosciente intesa come centro di gravità narrativo del soggetto, sia stilisticamente e per contenuti un esempio di flusso di coscienza e di continua affabulazione.

 

Non a caso, la parte centrale del libro è occupata da estesissime citazioni di due romanzi di fantascienza (Deja Vu di Tom McCarthy e Blindsight di Peter Watts) che, proprio facendo uso della narrazione, mettono in discussione la coscienza come teatro naturale del reale. 

La parte finale del libro esamina il processo di esternalizzazione della mente cui ogni giorno assistiamo. Le macchine ci stanno sottraendo quote di autonomia grazie alla promessa di renderci la vita più facile: timeo Danaos et dona ferentes (stiamo attenti a chi ci fa regali). Laddove noi, in quanto frutto di una faticosa evoluzione biologica incontriamo limiti invalicabili, la tecnologia si espande senza sosta e senza confini. Tempo e spazio sono invasi dalle macchine a scale per noi inconcepibili (per esempio nelle transazioni in borsa o nella mappatura geografica). La rivoluzione tecnologica del secolo scorso aveva rimpiazzato il lavoro manuale con l’automazione industriale, oggi l’intelligenza artificiale sta sostituendo il lavoro cognitivo con la cognizione tecnica e non siamo sicuri che esista un’alternativa dove trovare rifugio. 

 

Altrettanto interessante è l’esame delle reti o degli assemblaggi ibridi che mescolano sempre di più soggetti e macchine mettendo in discussione la nozione di società come comunità di esseri umani. La nozione classica di unità viene così a essere assediata da quella di assemblaggio o aggregato di parti interagenti, punto discriminante che attraversa tutta la filosofia e tutte le scienze della mente e della vita. Quando un insieme di parti diventano un soggetto, ma anche quando un insieme di parti diventano un oggetto? È un problema antico che Cartesio aveva affrontato ironicamente nelle Meditazioni: «il campanile ha suonato le quattro o ha suonato quattro volte le una?». Secoli dopo, l’Internet of Things (IoT) che sta per collegare ogni dispositivo del pianeta è paragonabile a un sistema nervoso animale o non consegue una reale unità? Il nostro sistema nervoso è fisicamente integrato come voleva Camillo Golgi agli albori della neurofisiologia e come, mutatis mutandis, sostiene il neuroscienziato Giulio Tononi o è un insieme di neuroni separati? L’ecologia ibrida tecno-umanistica ci pone delle domande antiche in una veste nuova. Vita, pensiero e tecnologia sembrano ombre di un principio unitario, non più termini incommensurabili.

 

Complessivamente credo sia condivisibile la tesi dell’autrice secondo cui  «coloro che, nelle discipline umanistiche, rimangono convintə che esista un divario incommensurabile tra ciò che i computer possono fare e ciò che i cervelli umani sono in grado di raggiungere dovrebbero riformulare la loro argomentazione tenendo conto del fatto che le attività cognitive nonconsce di basso livello sono e saranno sempre necessarie per la formazione dei pensieri di alto livello dei cervelli» (qualche asperità linguistica è dovuta, forse, alla traduzione). Oggi l’ideale umanistico è chiamato a rispondere sul proprio fondamento così come, del resto, le scienze forti sono tenute a superare il fossato galileiano. La tecnologia che macchinizza la mente e mentalizza le cose ci impone di elaborare una nuova antropologia, ma anche una nuova fisica dove la generosa ontologia presa in prestito dall’autrice (cognizione, coscienza, informazione, contenuto, significato) trovi un fondamento reale e non solo una legittimazione culturale.

 

Tirando le fila, mi permetto di dire che L’impensato è uno di quei casi dove soggetto e oggetto coincidono; l’autrice e le sue opinioni sono più interessanti se visti come l’espressione storica di una parte del mondo culturale che non per il contenuto in quanto tale. È un segno importante dei tempi che una esponente della cultura letteraria americana reagisca quasi con furia iconoclasta contro la persona come sede del flusso di coscienza. Quel grande ciclo che aveva avuto inizio con William and Henry James e che, non a caso, aveva congiunto arte e scienza della mente (alla fine dell’Ottocento più psicologia che neuroscienze), oggi si risolve nell’invasione da parte dell’intelligenza artificiale del mondo dei soggetti in un umanesimo digitale che rinuncia alla propria essenza: la coscienza. Non sono sicuro che sia un prezzo da pagare.

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