Speciale
Speciale Gianni Celati | Alberi e parole
C’è una pagina in Avventure in Africa che rileggo spesso. Celati arriva a St Louis in Senegal, osserva quello che ha davanti e lo descrive. Mi piace immaginare che il suo sguardo sia collegato alla mano, che registra nell’ottavo taccuino le cose e le azioni che avvengono davanti ai suoi occhi. Cose qualunque e azioni normali, raccolte senza aggettivi né affettazione né giudizi: “Una donna che spulciava il figlio sul gradino di casa, le capre che mangiavano bucce di banana,… la sfilata di alberi dell’Avenue Mermoz,… le ombre della grandi acacie, tamerici, cespugli di eucalipti”. Si va avanti così per diverse righe, regalando a chi legge la possibilità di vedere quello che lo scrittore registra con il pudore e il rispetto dell’osservatore curioso e discreto. E il quadro di quella città prende forma nella mente del lettore seguendo il ritmo lento della matita che anziché disegnare scrive nomi. Nelle ultime tre righe della pagina c’è uno scarto improvviso, e quel mondo è violato da un furto: “Finché non è arrivato rombando il fuoristrada degli americani, e l’americana senza scendere ha filmato tutto”.
La contrapposizione tra una pratica rispettosa dello sguardo e l’atto tracotante di chi si vuole impossessare di qualcosa senza degnarsi di neppure guardarla è una pagina esemplare su che cosa possa essere una scrittura profondamente etica, che ci interroga.
Una volta mi è capitato di pranzare con Celati e, dopo pranzo, di fare con lui una passeggiata nelle colline dell’Appennino emiliano. Conoscendo i suoi scritti e il suo amore per il camminare, pensavo a una lunga passeggiata verso Canossa. E invece restammo imprigionati nel primo boschetto dietro casa per qualche ora, semplicemente a togliere edera, vitalba e altre piante infestanti da querce, olmi, frassini, aceri campestri, ciliegi selvatici. Era stata un sua idea o forse soltanto una reazione spontanea, non meditata, a un suo modo di guardare le cose. Appena cominciata la passeggiata aveva visto questi alberi sommersi dai rampicanti, forse sofferenti, certo costretti; e aveva cominciato con le mani a disbrogliare gli intrecci di liane e rami che salivano sui tronchi fino alle foglie in alto. E la contentezza che provava nel liberare questi alberi dalle loro incrostazioni fu contagiosa per me e per chi era con noi. E ci trovammo tutti a tirare queste liane, a sfrondare gli alberi da questi parassiti indesiderati che, alla lunga, li avrebbero soffocati.
Mi è sembrato quello un atto che solo chi è abituato a osservare con rispetto il mondo riesce a pensare. Un atto che richiede delicatezza, perché sfilando le liane e l’edera non si vogliono strappare anche le foglie o i rami degli alberi. Un atto che ha bisogno di tempo. Così come di tempo ha bisogno il tradurre, il raccontare, che è qualcosa di diverso, forse, dal riempire file di fotografie o scaffali di pubblicazioni, senza mai scendere dal fuoristrada, senza mai davvero accordarsi con il ritmo delle cose.