II puntata / Elogio del neokitsch (berlinese)

23 Aprile 2019

Qui la prima puntata.

 

Il Kitsch comunista. Il suo modello è la cerimonia detta del primo maggio. […] Quando il corteo si avvicinava alla tribuna centrale, anche i visi più annoiati si illuminavano di un sorriso, come a voler dimostrare di essere doverosamente contenti o meglio di essere doverosamente d’accordo.

M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere.

 

Il culto delle immagini nei regimi totalitari ha dato esiti diversi a seconda del tempo, del luogo e delle culture coinvolte, ma è partito da un’esigenza comune: rappresentare, illustrare, divulgare il discorso egemonico rendendolo quanto più possibile appagante, convincente e condivisibile. Le cerimonie e i culti che vi si consuma(va)no espleta(va)no la stessa funzione, che alle spalle avessero un ideale politico o religioso, la declinazione della “fede” in funzioni e celebrazioni rituali tende(va) a coinvolgere emotivamente e intellettualmente quanti più adepti possibile, a gestire e indirizzare le loro emozioni, a ottenere il massimo consenso. Le parate, sfilate, processioni dovevano altresì assumere proporzioni grandiose e stupefacenti, per numero di aderenti, per eccezionalità delle scenografie, per ricchezza di sinestesie, per organizzazione strategica e performatività dei partecipanti. Ovviamente queste considerazioni si riferiscono all’aspetto più esteriore ed estetizzante del tutto. A quelle componenti tutt’altro che trascurabili o prive di responsabilità, ma che, in teoria, altro non dovrebbero costituire che un’esplicitazione visibile e tangibile di convinzioni e principi ben più profondi. Sempre più spesso però, in passato come nel presente, tali aspetti hanno teso a prevalere e connotarsi come primari, a dispetto degli sforzi dei responsabili per ristabilire corrette gerarchie, in alcuni casi, o per loro stessa criptica istigazione, in altri. Tutto questo si chiama superstizione o idolatria e rimanda al ben noto episodio della costruzione del vitello d’oro, violentemente distrutto da Mosè, quando realizzò che il suo popolo praticava una metonimia e non una metafora creando un idolo da adorare al posto di Dio. Le sacre icone, bizantine, greche e russe, non raffiguravano i santi in esse “scritti” (e non dipinti, perché fosse chiara la differenza tra queste e le opere d’arte), ma rimandavano alla loro essenza, alla loro natura, divina o sacra. Portavano a vedere l’invisibile attraverso la contemplazione e la venerazione. Non l’adorazione che restava riservata a Cristo. Molte sono state nei secoli le mistificazioni di questi principi, alla cui base sta, ancora una volta, il kitsch. L’abbassamento della problematicità, il consumo banale e fisico, la dittatura del cuore (sempre per dirla con Kundera), la sostituzione dell’entità di culto con un suo simulacro o una sua rappresentazione figurativa o materiale. 

 

Due sono le realtà berlinesi che ci aiutano in queste riflessioni. La prima è un luogo in cui il kitsch e le sue raffigurazioni si sostituiscono alla storia. Anche in questo caso obliterando traumi, rimuovendo quanto di ostile e inquietante potesse ancora occhieggiare, motteggiando complessità del passato delicate e articolate, emozioni profonde e autentiche a cui vengono sostituite ordinarie riproduzioni che ammiccano al morboso e allo spettacolare. Mi riferisco al Check Point Charlie, l’isolato che ai tempi della città divisa ospitava il famigerato punto di transito tra il settore americano (quartiere di Kreuzberg) e quello sovietico sedicente “democratico” (quartiere di Mitte), riservato a militari delle forze alleate, diplomatici e cittadini stranieri, prevedeva per chi volesse attraversarlo una vera e propria gimcana tra sbarramenti di vario tipo atti a evitare azioni di sfondamento. La baracca, inizialmente di legno poi di metallo, eretta dalle forze alleate come base di controllo fu volutamente mantenuta in condizioni di provvisorietà per sottolineare, in pieno spirito da guerra fredda, il non riconoscimento di quel varco come legittimo confine internazionale. Oggi quella autentica è stata musealizzata e al suo posto ne sorge una copia ispirata al modello primigenio del 1961. Finti soldati in finta divisa, accanto a una catasta di sacchetti di sabbia, la presidiano pronti a mettersi in posa per le torme di turisti che affollano la strada. E, beffardamente, l’insegna di McDonald’s resta l’unico tratto autentico dell’immagine.

 

In posa al finto Check Point Charlie.


Finti timbri con altrettanto finti visti di transito vengono apposti su finti passaporti per pochi euro. Eccola “l’emozione estetica interpretata non come atto critico, ma come dimensione meramente relegata ai sensi” (Mecacci). L’originale Haus am Checkpoint Charlie, esposizione inaugurata nel 1963 come museo che documentasse la storia del luogo e le sue violenze contro i diritti umani, è stata ampliata, trasformata in museo-spettacolo e accoglie a sua volta visitatori a frotte. Un’installazione di Frank Thiel del 1998, cassone luminoso come molti altri pensati in città per i messaggi pubblicitari, espone i ritratti di un giovane soldato americano e di un suo coetaneo russo (già non più sovietico, visto che le fotografie furono scattate nel 1994) che guardano l’uno verso il settore dell’altro. L’opera rimanda al famoso fronteggiarsi dei carri armati delle due potenze, breve ma minaccioso, oggi ignorato dai più, durante la cosiddetta crisi di Berlino del 1961. Tutto il resto, come anche gran parte di quanto già considerato, è paccottiglia, mercificazione del ricordo, souvenirizzazione della storia, “fruizione aberrante”: negozi di gadget, cartoline, libretti di bassa divulgazione, riproduzioni, falsi, brutte copie. Questi oggetti forniscono alla neoborghesia del turismo di massa in trasferta gli agognati appigli e sicurezze.

 

Souvenir al Check Point Charlie.


I Mauershop, al pari di molti media, vendono emozioni comode a prezzi neppure tanto bassi e non esitano a speculare sulle vittime della passata situazione, spettacolarizzando (e sgravando dai traumi) per fruitori dal palato grossolano eventi di portata anche tragica. Operazioni mimetiche che, nell’apparente tentativo di demonizzare esecrabili modalità passate, ne riprendono struttura e strategie, invitando a immedesimarsi nell’esperienza, ma restando emotivamente al riparo da ogni coinvolgimento profondo. Dall’attraversamento carico di tensione e allarme attraverso le barriere del checkpoint si è passati a una camminata scandita esclusivamente dalle tappe per le fotografie, scontate e uguali per tutti, dall’acquisto dell’oggetto ricordo (pezzi di muro con tanto di altisonante garanzia di autenticità), dove il movimento deve essere continuo e costante, lo sguardo indirizzato e obbligato, per assicurare scorrimento e investimento consumistico di quanti più possibili avventori. Tragicamente simile a quanto Walt Disney aveva ideato nel 1955, in un ambito ideologicamente e storicamente assai lontano da questo, nella sua Disneyland. Portarsi a casa un coccio di muro, autentico o fasullo che sia, illude che ci si appropri della storia, che la propria testimonianza diventi tangibile e dunque più credibile. Fruitori di merci in forma di storia privata della sua complessità, di emozioni fittizie, di accelerate pseudo esperienze globalizzate e pronte all’uso con la sola aggiunta di una goccia di denaro. 

Si tratta di una riproposta del passato in forma agevolata e abbrutita, rimaneggiato nella sequela di bancarelle che, come in molte parti d’Europa, offrono ai turisti sedicenti reperti di tracce tangibili di un trionfo sorpassato e umiliato. Sono le nuove “rovine”: divise dell’armata rossa e dell’esercito tedesco orientale, colbacchi, cinture, stemmi e decorazioni che fanno d’ogni erba un fascio, elmetti e mostrine ormai prodotti in serie senza neppur più preoccuparsi di credibilità o somiglianza con gli originali, tanto distanti nel tempo e nella memoria questi ormai sono. Privati del loro inquietante significato di autentica rovina e trasformati superficialmente in maceria, merce raffazzonata da consumo kitsch.

 

Bancarelle di souvenir “politici”.


La seconda realtà berlinese a cui faccio riferimento ci trasporta in ambito religioso; è un negozio assolutamente unico nel suo genere, anche per la specificità di chi lo gestisce e lo fa vivere. Si chiama Ave Maria e tratta articoli devozionali. Non souvenir religiosi, attenzione, già nella denominazione sta una vera e propria dichiarazione di intenti. Nacque nel 1995, poco dopo la caduta del muro, nella sua collocazione originale di Potsdamer Straβe 75, fondato da un’insegnate di latino, Ulrike Schuster, ma affidato da una quindicina d’anni, anima e corpo, a una napoletana (di San Giovanni Vesuviano, per l’esattezza) naturalizzata berlinese, Rachele Cutolo, fervente cattolica ma, per quanto integralista su molti aspetti, di mente molto aperta ed evangelicamente disponibile ad accogliere nel suo negozio chiunque, a condizione, e su questo ha davvero un sesto senso, che non si vada là per irridere lei e la sua fede religiosa. Un paio di anni fa la gentrificazione in atto nella zona costrinse le due donne ad abbandonare la sede primigenia e a trasferirsi a poche decine di metri, in una via traversa, Lützowstr. 23. Per alcuni mesi un ritratto di padre Pio sulla vetrina ormai vuota ha indicato la direzione da seguire per raggiungere la nuova sede, poi tutto è stato rimosso e oggi l’ennesimo negozio di abbigliamento troneggia là dove Ave Maria aveva visto la luce. Paradossalmente i vicini di casa di oggi sono gli irriverenti e scanzonati gestori e clienti del Kumpelnest 3000, uno dei locali più trasgressivi della Berlino notturna. 

 

I due locali fianco a fianco.


Nato il 1° maggio 1987, come tesi di laurea per la Scuola Superiore d’Arte, scommessa culturale e commerciale, il Kumpelnest 3000 resiste dalle lontane notti di Berlino Ovest nel piccolo spazio che era un bordello, mantenendone arredi e atmosfera, dove il kitsch consapevole è parte dello spirito che lo regola, della clientela, del mondo queer che continua a tirarci mattina pigiato fino a non potersi muovere, proprio come dice il suo nome: in un nido di amici. Scrive a proposito di kitsch Marco Belpoliti, e le sue considerazioni calzano alla grande con le scelte etiche ed estetiche di questo locale: “la nuova estetica se ne frega della cultura alta; non si misura più con lei, e usa la categoria della parodia per inglobare l’intero universo culturale tradizionale stravolgendolo. Il trash si sostanzia nell’appariscenza, nel gusto trasversale, nel ‘dire le cose in faccia’”. Nonostante anche gli orari di apertura delle due realtà non coincidano proprio, gli inizi non sono stati da buon vicinato. “Mi sputavano sulla vetrina”, racconta Rachele, “ma poi ci siamo conosciuti.” E non ci si stupirebbe oggi di trovare tra santi e Madonne di Ave Maria anche qualche drag queen del Kumpelnest. Rachele annovera tra le proprie clienti le lucciole della Potsdamer Straβe. La zona era molto malfamata fino a poco tempo fa e le ragazze esercitavano sui marciapiedi giorno e notte. “Anche a Napoli le prostitute dei quartieri tenevano immagini della Madonna nei bassi dove lavoravano”, commenta impassibile e racconta di una coppia gay che, proprio davanti al suo negozio, si è stupita che lei intrattenesse rapporti di amicizia con un ragazzo devastato dall’aids. Non ha paura di “contaminare” il suo negozio con figure fuori dagli schemi. Non cerca l’artificiale oasi di purezza (kitsch) nella rutilante capitale, anzi; la “merda” non le fa paura. Ho già usato per lei il termine evangelico, lontano da ogni lettura clericale, e lo riprendo con piena convinzione. Non cerca e non vuole assolutamente fare proselitismo, anzi. Semplicemente la sua porta è aperta per chi desidera entrare. E lei non ha certo paura di aggressioni o insulti. Se necessario sa difendersi eccome, in perfetto tedesco e in un italiano leggermente inficiato dai molti decenni di vita berlinese, caratterizzato dal suo intercalare preferito: “Signore mio, perdonami!”.

 

Rachele Cutolo nel negozio Ave Maria a Berlino.


Non aspettatevi le pacchianate che si trovano nei chioschi italiani a ridosso o all’interno di centri religiosi importanti. Nessuna santa Rita ricoperta di lustrini, nessun san Francesco che cambia colore a seconda del tempo che fa, nessun furgone funebre con la bara di padre Pio, nessuna Madonna con lucette intermittenti o Sacri Cuori magnetici palpitanti. Rachele ha fatto piazza pulita quando ha iniziato a lavorare nel negozio: “50 sacchi di plastica di robaccia ho buttato via”. Gli oggetti in mostra e in vendita sono in massima parte ispirati alla sobrietà, taluni non mancano di valore artistico anche notevole, pochi sono gli scivoloni commerciali. Il kitsch cattolico dilagante in patria sembra non aver trovato terreno troppo fertile in questo avamposto berlinese. Una ciotola contente Madonne di plastica piene di acqua benedetta (Lourdes?) è come abbandonata in basso, in un angolo, quasi a significare il non gradimento dell’articolo a fianco di altri assai più dignitosi.

 

Riproducibilità tecnica delle Madonne contenenti acqua benedetta.


Il negozio Ave Maria di Berlino.


Accanto a rosari, croci, candele di ogni foggia e dimensione, vanta un ricco assortimento di incensi, in cristalli e in bacchette. Alla domanda se non ritiene che la vendita di bastoncini di incensi con profumi diversi a seconda del nome del santo o della santa che portano non si avvicini al paganesimo, risponde sicura che questa non è la sua intenzione. Che le confezioni sono preparate da istituti religiosi e che l’uso che gli acquirenti ne faranno esula dalla sua giurisdizione. A modo suo ribadisce un concetto già espresso in queste pagine. A rendere kitsch una cosa o una pratica è il fruitore, non l’oggetto in sé. Rachele è consapevole che molti dei suoi clienti compiano acquisti non spinti dalla fede, ma se non intravede atteggiamenti sospetti elargisce i propri beni a piene mani. Al regista Rosa von Praunheim, che voleva girare uno spot nel negozio, negò l’autorizzazione già concessa quando si rese conto che il gioco si faceva spinto e blasfemo e cacciò lui e la sua troupe. In fondo ciò che esige altro non è che rispetto. Non nasconde una predilezione per il Papa emerito, trascurato secondo lei dagli italiani a favore di Francesco.

 

Il negozio Ave Maria di Berlino.


La sua clientela, per sua stessa ammissione, conta le figure più disparate, e a Berlino non potrebbe essere altrimenti. Dai trovarobe dei teatri, ai sacerdoti, dai consumatori credenti e praticanti ai curiosi che ci finiscono per caso e restano affascinati o attratti da quel repertorio. Qui la raffigurazione sacra non intende sostituirsi alla religione, almeno negli intenti. Qui il kitsch, o quanto di kitsch non manca sugli scaffali, non diventa pervasivo, non assume una prospettiva politica, non si sostituisce alla storia, come nel caso precedente. Lascia aperte prospettive, è disponibile al dibattito, all’interpretazione, addirittura all’ironia, come dimostra la posa in cui Rachele Cutolo si è fatta ritrarre da me.

Una testata cattolica tedesca ha dedicato recentemente un articolo ad Ave Maria, titolando proprio Für manche ist es Kitsch (Per alcuni è kitsch). Moltissimi siti web le hanno riservato attenzione, ma Rachele non ha familiarità con la rete. Preferisce parlare con i suoi clienti, dedicando loro anche ore a raccontare e discutere, e lasciandoli liberi di girellare per il negozio, aprire cassetti e stipi, con la massima fiducia. La sua dedizione alla causa è stata motivata dalla guarigione del marito dopo la scoperta di un cancro. Che sia stato miracolo o no, la signora Cutolo ogni anno va in ritiro spirituale in un monastero. Sa di essere nota a Berlino anche come “Rachele la pazza”. L’ironia e l’auto ironia, se ancora ce ne fosse bisogno, sono la miglior garanzia che intorno a lei non ci sia solo kitsch.

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