Cinisello B. / Paesi e città
Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano; entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale.
dal Pirandello dei Giganti
… che reagiscono alla vita con contrazioni, ad altri impercettibili, di spasmo
da un commento all’opera di F. Tozzi
Pomeriggio quasi sera. La luce fredda passa tra le case troppo evidenti ma appiattite nella loro concretezza.
Azzurro difficile da guardare in questi giorni. Il cirro ampio sospeso racconta con due svolazzi sfrangiati in prospettiva come il cielo riposi sulle case: ha i passi adunchi, sfilacciati e luminosi, di un racconto per bambini: gli orli disseminati nell’aria, poi ripiegati nelle forme di uno spazio che si va allontanando: paesaggi maestosi, dice, e indica la distanza quasi ci si accorgesse per sbaglio di quel catino d’azzurro infinito steso al contrario sulle nostre teste.
Svolazzi fiammati di bianco e veli come raggi ridenti di un’inquieta ascensione; e in terra le ombre sono rattrappite nelle fessure delle strade, tra gli spifferi sibilanti e vivi dei pochi serramenti ancora in legno. Nei giardini a ridosso della strada i pini emergono per ciuffi irreali come macchie, illuminati solo sulla punta. Le persone passano rade e solitarie rasentando i muri.
Ora il riverbero di un sole già in declino getta i raggi accesi su una parete cieca disegnando l’ombra di una casa. Durerà poco: poi un’ombra più ampia calerà nel vuoto delle strade e da dentro stillerà il buio che qui è un misto di bianco lattiginoso e grigiorosa di un cielo sempre insonne.
Muri scaldati dolcemente per qualche breve istante e un arancio che ancora invigorisce sulle pareti di cristallo dell’ex Siemens, sulle cornici di intonaco bianco splendenti di fianco all’autostrada.
Di fronte la casa bassa sembra persa dietro un velo d’ombra. Due finestre alte e simmetriche marcate da colletti bianchi sporgono come occhi ciechi dalla facciata scura: casa disabitata come quinta di un teatro inesistente, casa incantata e disposta, come ogni incanto ancora assopito, a reggere sognante il proprio silenzio.
Solo ieri il freddo placava gli animi e il timore era come rattrappito nel bianco lucido del cielo, in una fitta ma rilucente tela di pioggia.
Qualche luccicore batteva a tratti nell’erba mostrandola viva e come rinnovata in un respiro disteso: il nespolo contorto dalle foglie dure era appena lavato, solo la scorza sembrava fradicia di un nero profondo e umido. I pochi prati dritti e disegnati davano come sempre l’idea di un verde impietoso: si respirava umidità e la pioggia era visibile nell’aria densa e colorata in quei teatrini di terra fatti di aiuole trasandate e secche per l’inverno, mattonelle grigie allineate di taglio per limitare i viottoli di ghiaia, croci di ferro per i panni conficcate nel terreno, immobili, a tagliare gli sguardi aspettando i mesi estivi. Le sedie in plastica bianca e quelle cromate coi filacci di gomma scolorita abbandonate e scomposte nel riquadro di cemento ed erba.
Aperture come spalancature, mi dico, seguendo quella sensazione di levità e di dilatazione che in inverno accompagna questi luoghi a ogni vago chiarore del cielo.
Il gallo baldanzoso in gesso stinto mima una voce stridula e sonora aprendo il petto sulle inferriate sottili del balcone. Qualche finestra affaccia direttamente sulla strada poco sopra il marciapiede: dai davanzali stretti sporgono vasi di primule, tappeti d’erba in plastica lucida, e ai bracci zincati delle inferriate si avvinghiano steli di fresia e papaveri di tela cerata.
Cerchi di terra fredda nei cotti sbeccati ammonticchiati sui balconi e a guardarli è come caderci dentro e scivolare per qualche istante su dure lastre di ghiaccio.
Come quando lo sguardo segue il grande vaso a tinozza sul margine del cortiletto spoglio di casa: dentro vive ancora qualche pianta grassa a forma di stella. Ogni tanto ne cadono dai balconi di questi rametti: qualche pezzo piove sull’asfalto con la polvere, a volte con le briciole delle tovaglie sbattute e degli scopini che sventolano tutti energici fuori dalle bocche dei palazzi ad ogni fine pasto. Si prendono e si piantano, per non farli morire, in nuovi vasi.
I vapori sulla superficie della città sanno di essenze sottili, scossoni, che nascono dall’immobilità e seguono il moto artificiale delle cose, scandiscono la vita non più dal di dentro ma in quella sottile striscia di incertezze, paure e desideri, moti del corpo sempre incompresi e ancora lontani dalla mente, precedenti, come impulsi sconnessi, fatti di tremiti e rossori improvvisi.
Ogni pietra, ogni sasso splende in quei pochi metri del cortile, come quando in inverno le cose stanno raccolte una accanto all’altra e non si capisce il senso di quel loro stare unite, ma si intuisce, invece, il senso della distanza, quel correre dello sguardo tra una cosa e l’altra in un rincorrersi di sole sponde. Da una superficie all’altra le cose si chiamano per nome “Sono l’albero”, “Sono la facciata,” “Sono la finestra, l’antenna, la grondaia”, così fragili e perdute nelle loro contratte solitudini. Così le facciate tronche dei palazzi con quell’aria ingenua di case bambine: il disegno preciso e piatto di un tetto, una o due finestre allineate in verticale che sporgono inconsistenti dalle pareti vuote fatte piccine dalla lontananza.
Sotto lo sguardo distante e rarefatto dei palazzoni siedono i tetti pesanti di villette aranciorosaverdi in fila sulla strada: il giardino intorno, qualche ramo spoglio che sporge tagliato dalla murella chiusa a strisce di cemento vecchio un po’ logoro. Basta alzarsi in punta di piedi per vedere ancora orti e giardini impensati chiusi insieme.
Ora il cielo è celeste: pungente, slarga lo spazio e lascia lo sguardo a contemplare la distanza. Schiacciati all’orizzonte un palazzo e una casetta. Qualche resto di cascina dalle pareti divise in colori sgargianti e il tetto basso muove con sé un’idea di miniatura. Non ci sono ombre, ma quell’azzurro pastello che alleggerisce lo sguardo e porta a percorrere tutte le distanze: così le linee orizzontali delle case, i tetti, i terrazzi si fanno davanzali. Lo sguardo si sporge, incrociando le braccia, a curiosare.
Al primo piano la nonna non si affaccia a salutare: è partita per l’ospizio comasco ormai da qualche mese. Forse è già qualche anno, e ora ne vendono la casa.
Il camion nel cortile attende un viavai d’uomini sudati su scale ed ascensore: mobili scuri che si accumulano, accatastati nel vano buio del furgone. Per l’intera giornata un odore, un misto di canfora e interno di vecchie case fiorite d’oggetti si diffonde dappertutto: odore di case ostinate che conservano irreprensibili i ricordi e ora si allontana, come escono le sedie, le lampade d’ottone, i mobiletti a specchio.
A sera il balcone è spoglio, la tapparella nuovamente abbassata.