Sandro Campani. Bellezza

19 Ottobre 2011

 

Questa rubrica raccoglie una serie di interventi che esplorano il tema delle forme, della bellezza/bruttezza, da punti di vista molto diversi fra di loro. Ne parleranno storici dell’arte, scrittori, critici, scienziati, musicisti, filosofi, esperti di paesaggio.

 

Sandro Campani è nato in provincia di Modena. Nel 2005 ha pubblicato presso Playground il suo primo romanzo È dolcissimo non appartenerti. Nel 2010 ha scritto i testi del graphic novel Non ti avevo nemmeno notato, sempre presso Playground, e ha pubblicato la raccolta di racconti Nel paese di Magnano per Italic Pequod.

 

Appare la bellezza mai assillante né oziosa

Languida quando è ora e forte e lieve e austera

L’aria serena e di sostanza sferzante.

 

(Giovanni Lindo Ferretti, in Brace, Tabula rasa elettrificata, CSI, PolyGram 1997).

 

Di fronte al mio balcone c’è una casa. Ha quattro piani. È mezza di sasso e mezza di mattoni, mezza intonacata e mezza no. La parte in mattoni ha dei buchi nel muro, le aperture a croce che c’erano sempre nei fienili, buchi da cui vanno e vengono le tortore. La parte che dà sulla strada è abitata, la parte sul retro invece no. La parte sul retro è quella che vedo io. C’è una scala esterna che sale a una porta scrostata di legno, una ringhiera di ferro arrugginito e il pianerottolo su cui stanno da otto anni un frigorifero, una pila di cassette da uva, qualche tubo di ferro e qualche coppo. Addossato al pianerottolo c’è un garage prefabbricato di lamiera, F.lli Dieci; addossate a questo le gabbie dei cani da caccia, nascoste da una siepe molto alta che non basta ad attenuare i loro latrati e d’estate la puzza dei loro escrementi. Nell’angolo tra il garage prefabbricato e le baracche dei cani c’è un fico. Il fico fatica ad alzarsi da terra. Sotto al fico un ammucchio di lamiere, ondulati per coperture in plastica, manici e teste di zappa scombinati, pali di legno che in attesa d’essere tagliati si sono ingrigiti e sfibrati, un ranghinatore, una sedia a rovescio.

 

Il fico è un albero, per me, un albero che dice sole e polvere, calura, poca pioggia, vespe che camminano fra lo spiaccicume, piume di volatili che fanno starnutire. Il fico è un albero da sporco e da pollaio.

 

Quando, otto anni fa, per motivi di lavoro decisi di scendere dalla collina e venire ad abitare giù, l’agente immobiliare che mi portò a vedere quest’appartamento, quello in cui poi sono venuto a stare, aprì la porta finestra sul balcone e mostrandomi la casa lì di fronte mi disse: - Qui, questa baracca, la tirano giù e ci fanno un parco.

 

Sei anni fa, in un bar non sodove, rividi casualmente quell’agente immobiliare, e guarda e riguarda, non riuscivo a ricordarmi chi lui fosse. A un certo punto mi venne inmente, e gli dissi (ero un po’ ubriaco): - Ecco chi sei, te, ciao, te sei quello che tiravano giù tutto e ci veniva un parco.

 

Mi sono affezionato a questa casa che ho davanti; senza fare fatica e senza accorgermene. La collina, da cui vengo io, è piena di case del genere. Più la bassa collina in verità che quella alta, dove tutto è più ordinato e intonso, alberi più freschi e sottobosco più pulito. La bassa collina, quella dove fa caldo da credere d’essere già in pianura, e invece della terra buona ci sono calanchi e smottamenti e le case dormono infrattate fra siepi e pergolati, circondate dalle mosche, con la facciata sporca di verderame, e gli oratori son già costruiti di mattoni, non di sasso, e i cani stanno alla catena e si lamentano. Nella bassa collina, un cortile vero era così: ingombro di ferraglie e di pollame.

 

Non c’era l’isola ecologica, una volta, tutto si buttava ammucchiato intorno a casa, non c’era carne scelta in scatoletta e bisognino, il cane stava alla catena, mangiava gli avanzi e se era il caso si picchiava.

 

Non c’era estetica, una volta, e per chi vive e lavora non c’è ancora. I vialetti verdi erbosi, le carriole di legno ornamentali ricolme di begonie sono roba per villeggianti cittadini.

 

Uscito da questo mondo per sempre, non posso fingere di non essere viziato dall’estetica e poterci rientrare a piacimento. Se sviluppi il minimo strumento culturale per guardare il tuo mondo dal di fuori, laconsapevolezza ti allontana, l’estetica arriva e ogni cosa si sdoppia, non è più una semplice cosa. È la cosa e il giudizio sulla cosa, il posizionamento della cosa, nella tua memoria, nel tuo gusto, nell’affetto.

 

Per cui sono quasi sicuro che ci sia molto di estetico e staccato dalla vita nel mio amore dei cortili ingombri di rottami. Mi fermo spesso a rimirarli, a rumigarci dentro, ci scrivo su, mi commuovo, accarezzo i ferri, mi sporco e mi annuso le mani. Ricordo sempre la casa di mio nonno, anche lui venuto giù dalla montagna, per un periodo della sua vita, quello che dalla mia nascita andò fino ai primi anni Novanta, quando di anni io ne avevo quindici e mio nonno stava ancora, da mezzadro, in una casa colonica in pianura fra Bosco e Pratissolo di Scandiano, Reggio Emilia, in fondo a una strada sterrata affiancata da una fila di querce. La casa era fredda, di stanzoni enormi, il bagno era all’esterno, attaccato alla stalla; c’erano una turca e un fil di ferro ritorto appeso per sostenere la carta, e mentre facevi la cacca sentivi l’odore e il muggire delle mucche al di là della parete.

 

Anche lì, fuori casa del nonno, per tutta l’estensione di campo che non era ancora vigna, non c’era un metro libero da robe e bagagli raccattati, rattoppati, mai buttati, in attesa d’essere disfatti o rimontati. Intorno alla cuccia del cane, legato a un albero là in fondo al prato, c’era una distesa di trattori fermi, bindelli, portiere d’auto e bidoni da latte, sgadore. Alcuni trattori erano a cingoli, altri a ruote. Alcuni erano vecchissimi, con le ruote posteriori di metallo, enormi; alcuni squadrati, alcuni affusolati e tondeggianti com’era negli anni cinquanta; alcuni senza motore, alcuni senza carrozzeria, tenuti insieme da corde da fieno. In mezzo ci facevano il nido le galline, e io e mio fratello giocavamo tutto il giorno di Natale, senza aver bisogno, per un giorno intero, di allontanarci verso la ferrovia in fondo alla vigna, o la strada asfaltata oltre le querce, per cercare qualcosa di nuovo.

 

Credo che fosse un appagamento simile a quello che si cerca nei percorsi accidentati costruiti per il gioco con le biglie, in certi giardini cinquecenteschi, con grotte scavate nel tufo e mostri coperti da barbe di muschio, o nelle incisioni di Piranesi: era anche una costruzione estetica quel che io e mio fratello trovavamo di esaltante fra i rottami, la loro disposizione che smetteva, una volta imparata, d'essere casuale, ma diventava quasi naturale e inamovibile (provate a giocarci a nascondino, per esempio: quel tale ferro che spunta e a cui bisogna stare attenti ogni volta che si svolta il tale angolo); tanto che quando succedeva, raramente, che tornassimo il Natale successivo e mio nonno avesse spostato o fatto sparire qualcosa, ci restavamo male, e il mondo andava ripensato.

 

Poi, inizio anni Novanta, mio nonno è tornato a Carpineti, e poi è morto.

 

Qualche anno fa son passato, una notte tornando da Reggio, dalla statale tra Pratissolo e Bosco e ho fatto lo stradello, ora asfaltato, fino là. Il campo era sgombro, ripulito. Ogni baracca che non fosse di mattoni era stata abbattuta e riciclata. Un cortile di ghiaia bianchissima e fine, la stalla riadattata, i caseggiati rifatti e ridipinti di quel giallino che va adesso, quel giallino che sta insieme al rosa e a quel rosso un po’ casa cantoniera: ci colorano tutti gli edifici in quello stile finto senese trecentesco con cui fanno anche gli outlet vicini alle autostrade, e tutti i quartieri nuovi in tutte le campagne urbanizzate del Nord, indistintamente, sicché non sai mai dove sei perché le case dappertutto si somigliano, e danno la sensazione curiosa, pur solide e grandi, di non assomigliare a vere case, ma più che altro alla realizzazione in scala uno a uno delle simulazioni al computer che ne avevano fatto i geometri. E fra queste case gialline rosine e rossine, a volte verdine, ci mettono i parchi, con la pista ciclabile e i laterizi drenanti e i tigli giovani diritti e un pinco panco; sicché tu stavi in mezzo alla campagna e a prendere la bici in due minuti sei in mezzo ai polli e ai fichi, e invece no, davanti a casa devi avere questa simulazione di una periferia gentile, col suo bel parco piantato regolare.

 

Così è un po’ di tempo che penso, che se incontrassi nuovamente quell’agente immobiliare, lo ringrazierei di quella sua bugia professionale; gli direi grazie che non era vero, che tiravano giù tutto qua davanti perché ci facevano un parco. Mi sono cari il fico e i rottami, e sebbene insopportabili, anche i cani.

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