"Coco", di Lee Unkrich e Adrian Molina / La gioia irreversibile della morte
“Che cos’è la morte?” Quando un bambino ce lo chiede non è semplice rispondere. “La nonna è andata in cielo” oppure “ci continua a guardare da un altro luogo”. È difficile però dare l’idea di che cosa sia l’irreversibilità, la definitiva scomparsa di qualcosa o qualcuno, il fatto che anche in un mondo che pare aver accorciato tempi e spazi fino a rendere tutto sempre accessibile, c’è qualcosa che invece finisce per sempre. È forse per questo che da sempre gli essere umani si sono immaginati l’esistenza dei defunti oltre la morte del loro corpo, come per relativizzare l’assoluta caducità della propria esistenza su questo mondo. Nella cultura messicana, ad esempio, si pensa che i defunti continuino a vivere nell’aldilà sottoforma di scheletri, ma che una volta all’anno vengano a trovare i propri cari che continuano a ricordarli. È il famosissimo Día de los Muertos, che cade tra il 31 ottobre e il 2 novembre, culto sincretico pre-colombiano poi ripreso nel calendario delle festività cattoliche, e ormai celebratissimo non soltanto nel Messico del Sud dove è nato, ma anche in tutte quelle parti degli Stati Uniti dove la popolazione di cultura messicana è dominante, come in California o in Texas. È un giorno dove nelle case messicane si costruiscono degli altari decorati con fiori di tagete, detti ofrendas, dove vengono poste le foto dei propri antenati per far sì che ritornino, almeno per un giorno, là dove sono vissuti quando erano in vita.
La vita e la morte insomma. O per meglio dire, la presenza della morte nella nostra vita. È un tema che farebbe venire le vertigini anche alle più alte speculazioni filosofiche, ed è abbastanza stupefacente pensare che proprio questo sia il tema di Coco, il nuovo film della Pixar: cioè un cartone animato il cui destinatario principale sono dei bambini (che è cosa diversa di un film da bambini… anzi, la complessità e la profondità di Coco mettono in imbarazzo la stragrande maggioranza dei film “per adulti” che si vedono al cinema normalmente). Ma un’industria dell’entertainment come la Pixar che ha già prodotto Inside Out o Up non è certo nuova all’idea di affrontare temi tutt’altro che semplici in una forma narrativa per ragazzi, anche se forse questa volta il regista Lee Unkrich e il suo team sono riusciti a fare qualcosa di ben più strabiliante persino dei loro illustri predecessori.
I morti non sono mai solo morti, ma danno anche forma alla storia, alla cultura e ai desideri di una famiglia. E come accade sempre col passato rischiano di determinare e ingabbiare il futuro. Se uno nasce da genitori e antenati poveri è spesso destinato a fare la stessa fine, così come chi è figlio di dottori finirà molto probabilmente per fare carriera. I Rivera, i protagonisti di Coco, sono dei calzolai e il destino di chi nasce in quella famiglia sarà quello di essere dei calzolai, senza fare troppe storie. Ma come sa bene la psicoanalisi, una famiglia non trasmette solo i propri insegnamenti espliciti, ma anche e soprattutto i propri non detti, i propri silenzi, in una parola i propri sintomi. E i Rivera un sintomo lo trasmettono molto chiaramente: il proprio odio per la musica. “Siamo l’unica famiglia di tutto il Messico che odia la musica” dice Miguel, il protagonista dodicenne del film. Il peccato originale della famiglia sarebbe proprio quello del patriarca, il trisnonno di Miguel, che un giorno decise di abbandonare la famiglia per andare a fare il musicista mariachi traumatizzando la madre e poi la figlia (ora inferma e in sedie a rotelle) che ha atteso tutta la vita che lui tornasse. In cima all’ofrenda di casa dei Rivera, c’è una foto con il volto del padre strappato, perché tutte le memorie famigliari hanno una ferita, un personaggio mancante, un trauma da nascondere, un qualcosa insomma che manca e che rende l’insieme dei ricordi incompleto.
È in quel tassello mancante dell’album famigliare dei Rivera che andrà a inserirsi la vicenda di Miguel. Il passato non ci determina mai fino in fondo, c’è sempre una possibilità, anche se piccola, di riarticolare e di rivisitare la memoria degli antenati. E Miguel farà proprio quello, vivrà il suo Día de los Muertos facendo il percorso inverso: sarà lui che andrà a visitare i propri antenati per trovare il suo desiderio e essere artefice della sua vita, e non saranno loro a fare visita ai vivi per mostrare alla famiglia quello che è stato il passato. I morti e gli antenati riguardano il futuro, riguardano cioè quello che noi vorremo fare di loro, senza che il peso della loro memoria ci schiacci. E così Miguel deciderà, in barba al divieto famigliare (o forse proprio per via di quello) che lui farà il musicista lasciando tutti nello sconcerto.
Il viaggio di Miguel nell’aldilà che compone la parte centrale del film non è solo visivamente da lasciare a bocca aperta con una ricchezza cromatica mai vista prima nei film della Pixar, ma è anche un vero e proprio bildungsroman con il quale il ragazzino scoprirà se stesso andando alla ricerca di quel tassello mancante della propria memoria famigliare. Il colpo di genio di Coco però è nel mostrare come la memoria non sia solo una vicenda di “scoperta” di qualcosa che c’è già e che rivela la verità della storia famigliare, ma sia una questione di testimonianza. Miguel scoprirà che i morti non vivono per sempre nell’aldilà: nel momento in cui il loro ricordo svanisce dalla mente dei vivi, il loro scheletro scompare per sempre e lascia il mondo dell’aldilà così come il loro corpo aveva lasciato quello dell’aldiquà. E questa seconda morte, quella per così dire simbolica (che, si dice nel film, “prima o poi arriva per tutti”) è davvero irreversibile.
Il vero ricordo insomma non può essere custodito per sempre e non è impresso in nessuna fotografia, vive solo nella memoria flebile di una vecchia bisnonna inferma che non riconosce più nemmeno i suoi famigliari. Coco, appunto. Bisogna imparare a vivere con la fragilità e l’incertezza della memoria dei propri cari, con qualcosa che non è custodito da qualche parte per sempre ma di cui solo noi possiamo essere artefici e testimoni nel presente partendo dai propri desideri più che dall’insegnamento di un passato già dato. Sapendo che la vita è un equilibrio fragile proprio perché è destinata inevitabilmente e irreparabilmente a essere cancellata da questa terra. E questo, ci dice Coco, lungi dal paralizzarci, deve diventare il vero motivo della nostra gioia.