S-ballare serve a qualcosa

22 Settembre 2015

Dionisiaco/apollineo: nelle stagioni della nostra vita quante volte siamo entrati e usciti da queste opzioni esperienziali? Prima le canzoncine, poi il rock e il gusto di ascolto che si affina (o non si affina diventando o meno “intellettuali” o “non-intellettuali”)… poi adolescenza e giovinezza offrono la svolta “politica”: essere dentro o fuori? Ballare o s-ballare? La dimensione antropologica della festa è sempre stata calendarizzata, steccata da margini di controllo sociale al cui interno ognuno «fa ciò che vuole» (Rabelais, Gargantua); dai riti greci (baccanti, riti orfici) ai Carnevali medievali… Quanti quadri di Brueghel sembrano uno scatto da un free party degli anni Novanta? L’eccesso genera caos, e per quanti il caos è bellezza? Se la musica classica è armonia apollinea, il jazz è free, è improvvisazione, è generazione di imprevisto e mai udito all’interno di un preciso spazio di ascolto sociale: il concerto.

 

       

Da sinistra: Civilization ends here; Castelmorton flyer

 

Anche la scrittura letteraria, la scrittura che scrive di altre scritture, ovvero la critica, può avere i suoi steccati: scava nella tua competenza, costruisci la tua influenza, sii autorevole, concentrati su un tuo dominio, oppure no: vaga. Geoff Dyer, che abbiamo conosciuto in Italia nel 1993 grazie alla immediata traduzione Instar del suo Natura morta con custodia. Storie di jazz (But Beautiful 1991), ha costruito nel tempo una sua genealogia di critico che scrive di ciò che ama, e non di ciò che studia; o meglio di scrittore che studia ciò che ama, per scriverne. Come ha scritto Susan Sontag, altra icona nella genealogia eccentrica di Dyer, uno scrittore si interessa “a tutto”, e non necessariamente, che lui voglia o non voglia, esprime il meglio di sé nella narrazione. Dyer reinventò il jazz raccontando le vite immaginate di grandi dell’innovazione free, e con Il sesso nelle camere d’albergo (Otherwise Known as the Human Condition 2011) ha rivendicato il diritto di mettere insieme in un libro i più svariati “scritti d’occasione”: prefazioni, pezzi giornalistici, diaristica. Maestro numero uno per Dyer è lo sguardo fotografico di John Berger, il suo proliferante scrivere tante piccole cose di tante piccole diverse cose, e tra le pagine più belle di questa raccolta ci sono i ritratti di grandi fotografi, talvolta sconosciuti e emarginati nelle loro vite: Joel Sternfled, Richard Misrach, William Gendney, Miroslav Tichý. Non è importante ciò che vediamo, ma come lo vediamo. Importante è come lo raccontiamo, ovvero come conduciamo chi ci legge all’esperienza estetica dell’incontro con una creazione. Prima di Berger, altri antenati di Dyer sono il David Herbert Lawrence dei report compulsivi dai suoi viaggi, trasformati in reddito giornalistico, un modo precoce per cancellare la visione seriale del turista e aprire gli occhi sensoriali del viaggiatore; o la Rebecca West dei suoi sterminati diari e report del Viaggio in Iugoslavia (Black Lamb and Grey Falcon: A Journey Through Yugoslavia 1941).

 

 

Non c’è molta musica in questa raccolta di Dyer: ma a sorpresa, in un accostamento della West a Gillespie, eccoci: « Come per il sassofonista o il trombettista, il fattore di controllo, la cosa che permette alla West di spaziare in lungo in largo senza mai perdere l’orientamento, è il tono. La coraggiosa dimostrazione che il libro dà di come quel tono sappia assumersi parte del lavoro strutturale portante è fondamentale per la sua importanza innovativa. All’interno di una corrente coerenza tonale complessiva, la West si muove con disinvoltura tra i vari registri». Dyer, nei suoi scritti “personali”, nelle sincere scanzonate schegge autobiografiche si vede come un flâneur, tra gli anni Novanta e il primo decennio 2000: uno che ha sempre detestato il sistema del controllo sociale e del lavoro come disciplina permanente, che ha sempre cercato di scappare portando nell’età adulta codici che sono socialmente concessi soltanto a adolescenti o giovani. Non è zen, il suo concentrarsi sull’istante, e sulla inevitabile impermanenza di un piacere, ma già introducendo i diari dei fratelli Goncourt trova il nocciolo: «Già nel 1867 i fratelli Goncourt riflettevano sulla caducità di ogni piacere. “Tutto è unico, niente succede più di una volta nella vita. Il piacere fisico che una certa donna ti ha dato in un certo momento, il piatto squisito che hai mangiato un certo giorno, non li incontrerai mai più. Niente si ripete e tutto è senza uguali». Così, musicalmente, Dyer dal jazz slitta verso l’elettronica e la techno che si fa tekno, sfondando le mura carcerarie e circoscritte e regolamentate di una discoteca (anni Settanta e Ottanta) verso i free party (rave) degli anni Novanta e Duemila, verso l’anarchia delle Zone Temporaneamente Autonome (TAZ) teorizzate da Bey Hakim nel 1991; nella Fidanzata in coma, che Douglas Coupland, quello di Generazione X, scrive nel 1998 ambientandolo nel 1979, Karen ha una precisa premonizione: «La gente sembrava più… Più elettronica». Su questa linea, Carl Craig, condirettore del primo festival di musica elettronica di Detroit nel 2000, esagerava di poco dicendo che «al momento tutta la musica è musica elettronica».

 

Lo svogliato Dyer, creativo grazie ai sussidi di disoccupazione del welfare poi smantellato dalla Thatcher, dalle sbronze londinesi decide di andare anche lui verso Brighton, sede di alcuni dei primi free party dell’era rave. Droghe che sviluppano sensi e recettività si sostituiscono all’alcool che ottunde, e all’LSD psichedelico dell’era hippy subentrano MDMA e ketamina. Un modo diverso per reggere la noia esistenziale, un modo (dionisiacamente antico) per entrare in una zona di stati modificati di coscienza, sui deliranti beats-per-minute di Spiral Tribe e compagnia.

 

 

 

 

Da Brighton parte anche Muro di casse di Vanni Santoni (Laterza 2015), un po’ narrazione, un po’ reportage, un po’ documentario della prospettiva italiana sull’era dei free party, una quindicina d’anni di un certo tipo di tribalismo giovanile e musica da ballo sotto s-ballo, controllata nei perimetri degli accampamenti di camion a 120 bpm dal volteggiare di elicotteri e da posti di blocco di polizie prima stranite poi repressive: «Avevi un tempo una ragazza a Brighton. Vi eravate conosciuti a una festa; a volte veniva a trovarti, altre andavi su da lei. Quando eri là, spesso andavate a ballare, occasioni in cui lei e la sua compagnia mandavano giù quantità sorprendenti di pasticche». La lingua, la sintassi anche di Santoni, trascrivono l’oralità delle tribes. Spiegano bene perché questi branchi di giovani inglesi, francesi, olandesi, tedeschi, austriaci hanno rifiutato la discoteca in cui “tirarsi” e tirare l’alba optando per look rigorosamente survival/straccione/skater per gettarsi in nomadismi anarchici e improvvisazione di ritrovi (ecco chi ha inventato i flash mob) affondando nel fango e nel sudiciume in accampamenti per giorni, in cui notte e giorno vengono scanditi trip da muri di casse che fanno tremare il corpo e smantellano la mente, predisposta da droghe sensoriali e mai letali verso estasi memorabili: «Davanti all’orizzonte di quel mattino del ventotto dicembre 1994, mattino sterminato, che virava dall’azzurro al bianco, quel mattino ebbi l’impressione che al mondo non vi fosse nulla di spaventoso». Ecco il “qui e ora” di una illuminazione, un istante che non torna, come quello di cui scrivevano i Goncourt nell’Ottocento, una ex-stasi, un uscire fuori dal tran tran che deprime. Un rito che serve a qualcosa.

 

 

 

I libri:

Geoff Dyer, Il sesso nelle camere d’albergo (traduzione italiana di Giovanna Granato) Einaudi 2014, 418 pp., € 20,00

Vanni Santoni, Muro di casse, Laterza 2015, 136 pp., € 14,00

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