Parole Jelinek. Teatro
L’Emilia Romagna dedica una rassegna itinerante all’opera letteraria, teatrale e saggistica del premio Nobel 2004 Elfriede Jelinek. Si intitola Festival Focus Jelinek ed è a cura di Elena Di Gioia. Da ottobre a marzo attraverserà, da Piacenza a Rimini, teatri, biblioteche, aule scolastiche e universitarie con spettacoli, letture, performance, laboratori, convegni, in un tentativo di raccontare da più prospettive una scrittrice ruvida, corrosiva, a volte imprendibile, sempre capace di interrogare in modo radicale i nostri tempi. Doppiozero ha chiesto ad alcuni critici e studiosi di stilare durante il Focus un piccolo catalogo di Parole Jelinek, sei, una al mese. Questi lemmi vogliono essere chiavi per entrare nei paesaggi di decostruzione e di memoria, di scabra analisi e di disgusto, di scrittura e di evocazione di voci della scrittrice. Sono: teatro, parola, miti d’oggi, Lieder (ma forse anche leader), potere, patria.
Postdrammatica
È un’inarrestabile trituratrice di realtà, Elfriede Jelinek. Lei, il mondo che ci circonda, le persone, gli affetti, le dinamiche storiche e sociali, i miti, il passato che agisce nella memoria, nella letteratura, nelle arti, i nazismi vecchi e i nuovi fascismi, la xenofobia, i nazionalismi, gli scontri di oggi li frantuma in infinite schegge e con quelle ricompone un caleidoscopio simile a un poliedrico, inesauribile specchio ustorio. Là ritrovi, per deformazioni e rivelazioni, una (im)possibile immagine (o fantasmagoria) del mondo esploso in cui viviamo.
Sceglie tutte le arti della parola per quest’opera volta a scardinare dalle fondamenta le nostre molte o poche certezze, e sembra affascinata in modo irresistibile dalla libertà del teatro dove, ancora una volta, mina i pochi, residui canoni ancora non travolti dalla contemporaneità. Se c’è un’autrice a pieno titolo postdrammatica, quella è Elfriede Jelinek.
I suoi testi non hanno trama, sviluppo, azione: sono spesso flussi di coscienza, o meglio di parole, provenienti dalla letteratura, dai media, dalla vita, dai ricordi, dalla storia, in una tempesta di suoni, frasi, slittamenti e giochi verbali, pensieri, incollati a volte a nomi emblema, non a personaggi, a volte solo a una voce (la sua, dell’autrice?) che si sdoppia, si triplica, si moltiplica. Indica semplicemente come “uomo”, “donna”, “atleta”, “un altro atleta”, “la vittima”, “un altro colpevole” i personaggi del suo lavoro più noto (e più diluviale), Sport, con un procedimento di riduzione della personalità simile a quello del teatro espressionista. In quella pièce compaiono anche, è vero, Ettore e Achille e sottotraccia Pentesilea (non a caso figure mitologiche e letterarie, da Omero a Kleist) e una Elfi Elettra che oltre a richiamare l’eroina devota al padre dell’Orestea è una controfigura della scrittrice (alla fine di Sport l’altro, più esplicito, suo doppio, l’autrice, parlerà dello strepito, del rumore della folla e dell’attonito silenzio per la morte del padre, ebreo, in una società dove il nazismo travestito da democrazia, il pregiudizio, il primato dell’economia, la xenofobia alla Haider, la paura, il senso di accerchiamento che genera autismo, endogamia, non sono mai morti).
In quella stessa opera c’è un’indicazione dirimente, che rende il suo teatro – irto, difficile da leggere e da ascoltare – pronto per essere messo in scena, per essere addossato (e “riscritto”) da attori e registi. Nella didascalia inziale, lunga quasi una pagina, le prime parole, precedenti qualche prescrizione, sono: “L’autrice non dà troppe indicazioni, ha imparato col tempo. Fate quello che volete”. Poi parte con indicazioni precise, che però avrebbe già autorizzato a trasgredire.
Elfriede Jelinek foto di Ferdinando Scianna, 1991
Voci
“Il teatro delle voci” lo chiama Luigi Reitani nell’introduzione al volume Ubulibri (2005) che comprende Sport. Una pièce e Una piccola trilogia della morte. E in questo senso Elfriede Jelinek si colloca in una precisa genealogia austriaca, tra autori che odiano il loro paese, che nutrono disgusto per la sua ipocrisia velata sotto i buoni sentimenti, per il fascismo annidato sotto il cattolicesimo, la socialdemocrazia, l’esaltazione delle tradizioni locali. Si tratta di un gruppo nutrito di intellettuali pronti a fare il contropelo al linguaggio dei media e a quello medio, accusati di essere occultatori di realtà. Il capostipite è Karl Kraus con il suo Gli ultimi giorni dell’umanità, una polifonia discorde di parole sulla guerra (la Grande Guerra), tratte dai giornali dell’epoca, nei quali il patriottismo è malattia inoculata dagli strilloni, nutrita dai discorsi dei potenti, un virus che entra nei corpi per assoggettarli ai grandi interessi e ridurli a carne da macellare nell’olocausto dell’inferno di fuoco e fango delle trincee.
Un pezzo per Sport, Squadra
Arriva, questa corrente, al maestro della Jelinek, variamente imitato, citato, smaterializzato nella sua opera, Thomas Bernhard, inventore di voci dentro voci dentro altre voci, in una riflessione ironicamente dolente del reale come spettacolo che confonde i punti di verità, scollando le idee e le cose dalla loro rappresentazione, disgiungendo parole, opinioni e mondo in un labirinto senza uscita. Scrive nel raccontino brevissimo L’imitatore di voci (1978; versione italiana nell’omonimo volume Adelphi del 1987):
Per noi, sul Kahlenberg, l’imitatore di voci ha effettivamente imitato altre voci, più o meno celebri, completamente diverse da quelle imitate per la Società di Chirurgia. Abbiamo anche potuto esprimere dei desideri, e l’imitatore di voci ci ha accontentati con la massima premura. Quando però gli abbiamo fatto la proposta di chiudere il programma imitando la propria voce, lui ha detto che non ne era capace.
E dietro c’è quel disperato ronzio, che emerge dalla bergère nell’ombra di A colpi d’ascia (1984, Adelphi 1990):
tu hai vissuto solamente una vita recitata, non una vita vera, solo un’esistenza recitata, non un’esistenza effettiva, tutto ciò che ti riguarda e tutto ciò che sei è sempre stato soltanto una recita, mai qualcosa di effettivo e di reale.
Nuvole Casa
Nella Jelinek anche la trama svapora. La vita diventa totale disperato intarsio di voci, mediasfera, logopatia, discorso per frammenti sul mondo, vaniloquio del mondo su se stesso. Sono accennati e disseminati contrasti, azioni, movimenti drammatici. Ma si moltiplicano a tal punto, in modo allo stesso tempo stratificato e esibito senza pudori, pornograficamente, da bloccare qualsiasi dialettica, qualsiasi sviluppo e trama, proiettando la scena verso l’immobilità assoluta o verso vorticose insostenibili accelerazioni. Il mondo, le persone, i personaggi (le maschere che potrebbero rappresentare l’umano), tutti collassano nelle parole. Ogni frase, ogni mezza frase, ha un senso così forte, così tanto da scavare, da colorare di senso in una messa in scena, da portare il discorso e il fluire teatrale all’implosione.
Siamo oltre il silenzio rastremato di Beckett, oltre la parola silenzio del mondo, e al di là della vertigine fantasmatica del senso di Bernhard. Oltre la fine del moderno; al di là dell’esplorazione dolorosa della molteplicità postmoderna. Siamo nel naufragio, nello scardinamento, sotto le macerie della monumentalità e dell’ottimismo, sgretolati dai crolli del 1989, del 2001, in una sontuosa cappella funeraria a se stessa e l’umanità.
FaustIn and out, Foto Elia Falaschi 2014
Siamo oltre il teatro come l’abbiamo conosciuto. Scrive l’autrice in Ich möchte seicht sein (Vorrei essere superficiale, un testo del 1983): “Non voglio recitare né stare a guardare altri che recitano. Non voglio nemmeno spingere altri a recitare. La gente non dovrebbe dire e fare cose come se fosse reale”. Rifiuto della rappresentazione, ostentazione di lacerti di realtà senza la mediazione del personaggio, per scardinare quella stessa realtà, mostrarne la faccia in ombra, impazzita:
Non so bene, ma non voglio un gusto sacrale di divinità richiamata in vita sul palco. Non voglio teatro. Forse voglio solo mettere in mostra delle attività da esercitare per rappresentare qualcosa, ma senza un senso più elevato. Gli attori dovrebbero dire quello che altrimenti non dice nessuno, perché non è mica vita quella. Devono mostrare lavoro. Devono dirci cosa sta succedendo, ma che non ci vengano a raccontare che in loro avviene tutt’altro, un qualcosa che si può leggere indirettamente nei loro volti e nei loro corpi.
Ancora esibizione pornografica di una realtà fuori scena, oscena, senza mediazioni. Interiorità, esteriorità, letteratura, cose: tutto mescolato, in un unico flusso di parole, con l’intento di rivelare, riproducendo per eccesso, per straripamento, i meccanismi dell’occultante esibizione mediatica. Una specie di ruvida, dura cura omeopatica, per sprofondamento nell’abisso:
Le cose sono immagini apparentemente innocenti, ma è necessario andare dietro le cose, strappare via questa innocenza e dare alle cose la loro storia. [...] Io cerco di decostruire la realtà. Questa realtà, io la faccio ogni volta per così dire a pezzi, come se separassi a strappi le tende di un sipario, per rabbia contro il testo che c’è dietro (da un’intervista a Renata Caruzzi).
La Locandina di Jackie e le altre. Teatri di Vita
E ancora, scrive Jelinek, in Sinn egal. Körper zwecklos (Senso indifferente, corpo inutile, 1997):
io li butto nello spazio come bastoncini di shangai, questi uomini e queste donne a cui sono ancora appesi agli angoli della bocca brandelli di Heidegger, Shakespeare, Kleist, fa lo stesso chi, dove cercano invano di nascondersi dietro nomi altrui, ovviamente molto spesso il mio; e, senza essere toccati, dovrebbero poi toccarci, gli attori, ma a nessuno è concesso tremare, uscire dal seminato, essere urtante. Beh, urtare possono pure. Lo dico perché tanto è una cosa che non cambierà mai. Ho già detto tante volte che non voglio teatro da loro. Perché quando fanno teatro compromettono, come succede con l’incontro col proprio Io, in sogno, davanti allo specchio, negli occhi dell’amante, allora compromettono il rapporto che hanno l’uno con l’altro e il rapporto con quello che dicono, ossia pensano, ossia dovrebbero essere. Però non possono nemmeno voler essere se stessi. Il peggio è quando cercano di fare collimare quello che dovrebbero diventare con quello che sono già. La sfida invece consiste molto più nel fatto che loro, come prosciutti color carne che non tanto hanno l’aspetto di carne, ma sono proprio carne, appesi nell’affumicatoio, nel vano di un’altra dimensione, che non è realtà, ma nemmeno teatro, ci trasmettano qualcosa, una notizia i principianti, un messaggio i più esperti. E allora si accorgono di essere essi stessi il proprio messaggio. […] Ciascuno è se stesso. Sono quello che sono. Come Dio, che è quello che è. È un compito bello e importante, no? Gli attori SONO la parola, non parlano.
Complessa richiesta, contraddittoria, che nel momento stesso in cui sembra desacralizzare il teatro, aprire ai flussi del comportamento, al patchwork, al collage, ritira la mano e chiede, in quell’essere quello che sono, come Dio è quello che è, di agire sulla soglia, nel limite, sul mistero.
Il teatro non è un atto conosciuto. È qualcosa da inventare. Da reinventare. Con la possibilità dello scacco. Di rimanere avvinti nelle parole. Di non riuscire a sgrovigliarsi dai suoi labirinti. E questa è la sfida del teatro di Elfriede Jelinek.
Le amanti. ph Chiara Ferrin
In scena
Per portare in palcoscenico Elfriede Jelinek, bisogna percorrere quel limite, guardarla nel fiume di pagine senza riverenze, decidere di prenderla di controverso. Dare appigli alle derive verbali, rivelare i corpi cancellati, offesi, il dolore, l’occultamento di molti cadaveri rimossi dagli anni zero, da lei seppelliti, a sua volta, sotto un mare di parole: nel Festival Focus Jelinek, ci hanno provato e ci proveranno con vari spettacoli.
Jackie e le altre (da Jackie, su Jacqueline Kennedy Onassis, un mito d’oggi – o di ieri?), è stato messo in scena da Andrea Adriatico per Teatri di Vita. Ha debuttato al festival Orizzonti di Chiusi e si può vedere ancora a Ravenna al teatro Rasi e a Bologna a Teatri di Vita in gennaio. In parallelo il regista di Teatri di Vita ha creato Delirio di una TRANS populista (in scena in gennaio a Bologna). Tre altri “pezzi” (Sport è uno stük, un pezzo oltre che una pièce, come diceva delle proprie creazioni Pina Bausch) hanno debuttato al festival Vie (Modena-Bologna): Le amanti di Teatrino Giullare (dall’omonimo romanzo: a Teatri di Vita in febbraio); Un pezzo da Sport con la regia di Andrea Adriatico (a Teatri di Vita in febbraio); Nuvole. Casa, una lettura di Chiara Guidi con il contrabbasso di Daniele Roccato (Cesena Biblioteca Malatestina in dicembre; Archiginnasio di Bologna in febbraio).
Debutteranno Faustin and out, con la regia di Fabrizio Arcuri per l’Accademia degli Artefatti (teatro Due di Parma in dicembre, Arena del Sole di Bologna in gennaio, Teatro Diego Fabbri di Forlì in febbraio); La regina degli Elfi di Angela Malfitano / Un atto e l’altro (Bologna e Montescudo in marzo). Brani dal teatro di Elfriede Jelinek saranno usati in laboratori per le scuole. Alle opere della scrittrice saranno dedicate performance di Ateliersi e Fanny & Alexander. Tre attrici, Anna Amadori, Elena Bucci e Chiara Guidi leggeranno a Cesena, Ravenna e Bologna il suo discorso di accettazione del Nobel, In disparte. Il programma completo su Festival Focus Jelinek.