Una conversazione / Jacopo Benassi. Sono un fotografo di compleanni
Jacopo Benassi è sdraiato a terra nel suo studio. Due fotocamere sono puntate su di lui in diverse posizioni. Osservo il suo corpo che si muove. Comincia a suonare la chitarra. Lo fa a modo suo. Pizzica le corde, le sfiora delicatamente. Suona con ogni parte di sé. Abbraccia la chitarra, la tiene sospesa, la appoggia a terra. Le mani e i capelli si muovono in maniera sinuosa in sintonia con i suoni. Un dispositivo fa scattare automaticamente le due fotocamere e le immagini vengono proiettate sul muro. La luce trasforma Jacopo in una statua. Lo sguardo modella il corpo e la fotografia lo pietrifica. Ma al contempo la musica sembra animarlo, il ritmo è il suo respiro. Così anche le foto sembrano prendere vita. Sto assistendo alle prove della performance che metterà in scena al Centro Pecci di Prato il 16 e il 17 di ottobre, insieme a Kinkaleri, in occasione della sua mostra intitolata Vuoto, a cura di Elena Magini.
Jacopo vive e lavora a La Spezia. Sono più di trent’anni che fa il fotografo. Fra le sue numerose attività ha dato vita a Talkinass Paper and Records e prodotto magazine e live di artisti della scena underground. Nel 2010 ha preso parte a No Soul for Sale alla Tate Modern di Londra, un evento curato da Maurizio Cattelan e Massimiliano Gioni. Nel 2009 la 1861 United Agency ha pubblicato una sua monografia con più di quattrocento fotografie: The Ecology of Image. Inizio a chiedergli della sua mostra in corso a Prato.
Decidi di intitolare la tua mostra “Vuoto”. Eppure hai riempito il Centro Pecci delle tue fotografie. Ci hai trasferito persino il tuo studio. Viceversa, il tuo studio che dovrebbe essere vuoto è colmo della tua presenza, più potente di qualsiasi immagine. Verrebbe da dire che il vuoto non esiste. Come nasce allora l’idea di questa mostra?
La verità è che svuotare uno studio è come privarsi di oggetti e attrezzature che tu usi tutti i giorni. È la prima volta che svuoto lo studio, e l’immaginario che io ne avevo è cambiato.
Questo ti dà un senso di vuoto, di partenza, proprio come quando parti che svuoti un armadio. Poi hai ragione a dire che la mia presenza qui è tanta. Così si è riempito di nuovo. E in particolare si riempie di cose che posso fare adesso, come provare le performances, oppure lavorare sull'archivio, che non ho portato per questioni di sicurezza, anche perché ci lavoro molto. L'idea che è venuta quando sono state qui Cristina Perrella e Elena Magini era quella di svuotare tutto e riempire il Centro Pecci. Era quella di creare una situazione con il mio studio a Prato, ma non perché si potesse dire "ah! lo studio dell'artista!". Comunque il vuoto è anche il cambiamento. Ti svuoti e ricominci. Questa cosa mi ha svuotato un po' a livello mentale e mi ha liberato di tante cose. Mi ha permesso di capire come posso muovermi dopo. Per esempio, questa idea di installazione che è in me da anni, sta prendendo forma. Il fatto di accatastare mobili e metterci le foto intorno, è un esempio. Non devo per forza appendere le foto al muro. Mi piace sempre di più l'idea di appoggiarle e questo crea delle sculture. Le fotografie ci sono, ma la cosa più importante è tutto quello che c'è intorno. Comunque sono legato ancora molto alla fotografia perché è il mio mezzo, mi aiuta a fare altre cose, come le performances. Perciò la fotografia è in primis su tutto. Va bene? Ti ho spiegato il vuoto?
Certo. Ma c'è un'altra cosa che mi ha colpita in quello che mi hai appena raccontato: l'importanza che dai all’archivio. Eppure l'archivio riporta a un’immagine di "pieno" più che di vuoto...
L'archivio è importante per me. Sono i files, i negativi, gli hard disk. Io non fotografo tanto. Cerco sempre di limitare il mio lavoro. Anche per questa mostra ho usato molto l'archivio che ho accumulato negli anni.
Come fai ad associare quest'idea di vuoto e rinascita, come mi dicevi, con l'archivio, che invece è qualcosa di stabile, ferreo, un testimone silenzioso…
Sì... È vero... Ma lo devi domare. Tutto quello che hai nell'archivio, se non è stampato, è nullo. Per me non vale niente. Perciò non guardo all’archivio con l'interesse da fotografo. Mi piace trovare delle similitudini, creo dei dittici, dei trittici, metto insieme diverse foto, anche se adesso la mia testa è lontana dall'idea di costruire delle immagini. Ora sto pensando alla mostra che farò in gennaio dalla mia gallerista Francesca Minini a Milano. Un lavoro completamente nuovo, che è stato fatto quest'estate.
È molto strano. Speriamo che piaccia. C'è sempre la mia luce, il mio modo fotografare, il bianco e nero. L'unica cosa che si potrebbe dire è che si tratta di un altro mondo. Comunque posso dirti che l'archivio c'è. Ma c'è anche il vuoto. Lo gestisco bene. È come quando fai un libro. Dopo che lo hai stampato, hai chiuso una cosa e ne apri un'altra, nel senso che cerchi di passare al passo successivo. Arrivare al Pecci è un punto di arrivo. Ho portato tutto. E il lavoro non sono le foto in se stesse, ma è l'installazione che c'è al centro, dove ho messo anche le foto dei miei amici. È un atteggiamento di riflessione. Comunque, in questo periodo, sono pigro. È come se avessi mille voci che mi parlano. Sono pigro, mi annoio.
Cosa significa?
Sono una persona che ha bisogno di date di scadenza. Devo avere il pepe al culo. Nonostante questo, per esempio, faccio molto lentamente le prove per lo spettacolo al Pecci. Poi arriverò al giorno che devo partire e non ho provato un cazzo. Improvviserò. Amo l'action directe, non premedito mai le mie cose, così come le mie fotografie. E amo sempre pensare che sono un fotoreporter in un campo di guerra, devo stare attento a muovermi, essere veloce. Così, anche nella performance. Ho paura a provare perché poi imparo delle note e rovino lo spettacolo. Ho capito che devo sdraiarmi, suonare in una posizione diversa, perché riesco a muovermi meglio. Se impari a suonare è un po' come andare all'Accademia, ti può rovinare. Io voglio essere come Trisha Brown che diceva che anche cadere è danzare. Io mi sono ispirato alle sue parole. Cado, inciampo, tocco lo strumento e suono con il mio corpo. E la fotografia documenta tutto.
Fotografi di notte. Persone, alberi, foglie, città. Penso a Dying in Venice. Nella notte, di solito, ci si nasconde a se stessi e agli altri. Il buio è avvolgente. Tu invece illumini tutto. Spari violentemente la luce del flash contro ogni cosa. Perché?
Mah... Sergio Fregoso, un grande fotografo di La Spezia, colui mi ha insegnato a guardare, mi diceva che io non aggiungevo luce alla luce, ma ne emettevo una completamente nuova che cancellava la luce che c'era. Perciò, non è che io scelgo di fotografare di notte, semplicemente scatto in situazioni dove il mio flash possa coprire la luce che c'è. Si può paragonare alla luce di un pittore.
Fammi un esempio.
Caravaggio ha la sua luce, Jacopo Benassi ha la sua luce. Io non sono Caravaggio, purtroppo! Però mi piace l'idea che la mia luce è sempre la stessa da anni. È una luce che ti frega, perché è domestica. Io faccio fotografia domestica, la foto del compleanno. Jacopo Benassi fa le foto del compleanno, come quella che fai a tuo figlio con la pellicola dentro, la torta davanti e i suoi amici dietro. Solo che io guardo che macchina uso, l'inquadratura, la solita ottica e il bianco e nero.
Torniamo all’uso del flash…
La luce del flash è vitale ma anche dura. Mette tutti sullo stesso piano. È giusta, un po’ come dire: “la legge è uguale per tutti”. Lo stesso vale per le forme. Io ammiro Florence Henri perché guardava dentro il mirino e costruiva una fotografia nel fotogramma. Riusciva, spostando la macchina, a costruire delle forme diagonali. Ho lavorato molto sulla diagonale, le mie foto sono “sporche” ma precise.
La natura che appare nelle tue foto è rigogliosa, ma spesso ricorda la morte. Il melograno spaccato sembra un’immagine barocca: mostri le viscere. E poi accosti le foto della natura ai ritratti, come accade in Bologna Portraits. Cosa rappresenta per te questa natura?
Fotografo la natura da quando avevo venticinque anni e mi sono dichiarato gay. Ho cominciato a frequentare boschi e giardini di notte, per affrontare questo mondo che era molto pericoloso, adrenalinico, nascosto. Io cercavo di fotografare quando non c'era gente. Ma dietro i cespugli ci sono le persone, perciò gli alberi e i fiori sono ritratti di persone. Anche a Bologna ho fotografato di notte un giardino del Cinquecento a Palazzo Bentivoglio. Uscivo e mi immedesimavo. Quando fotografo i giardini e i fiori penso che dietro ci sia qualcuno. Le persone ci sono sempre: li hanno piantati, li curano e in quei posti ci fanno l'amore. A fine novembre uscirà un libro, si intitola Fags, in cui saranno pubblicate alcune foto presenti in mostra.
Le statue che ci sono nelle tue foto sono nude, armoniche ma anche ferite: il cranio rotto, il piede spezzato, il corpo frantumato. Le accosti al tuo corpo e a quello di altri. L’anno scorso, nel tuo progetto Crack, al Festival di Fotografia Europea, affiancavi corpi e statue ferite. Che rapporto c’è, secondo te, tra scultura e fotografia?
Durante il lavoro di Crack ho guardato il mio archivio e ho visto che avevo fotografato la scultura e poi i corpi. Andavano di pari passo. La scultura ti dà il tempo di fotografarla, mentre un corpo è più difficile. Si muove. La scultura è più facile e poi il corpo è nudo. Poi, tutto è svelato quando mi sono fidanzato con Augustin Laforêt, un restauratore francese. Lui ama i calchi e mi ha passato questa grande passione. Ho cominciato a collezionarli, specialmente in gesso. A un certo punto mi sono rotto una gamba. Venti giorni prima ero in Francia a fotografare statue nelle scuderie di Versailles. Lui e i suoi amici mi avevano fatto entrare quasi di nascosto. Ho notato una scultura rotta sostenuta da una catena: mi ci sono visto, era perfetta e ne ho percepito la pesantezza. Poi, a Parigi, avevo visto agli Champs-Élysées le vetrine rotte dai Gilet gialli. E allora mi sono detto: a questo mondo c'è chi distrugge e chi ripara. Dopo aver rotto la gamba, Augustin mi ha assistito per tre mesi. Mi ha riparato. Perciò ho cominciato ad abbinare le sculture rotte ai miei arti rotti, ma anche ad alberi spezzati. La mostra a Reggio Emilia era sui legami. Le foto si sono sviluppate da un dolore, che è diventato parte integrante del lavoro. Tutto si è consumato in poco tempo. Pensato e fatto. Ho raccontato il mio male. Comunque io amo la scultura. Le strutture che faccio per le foto sono di legno, mi piace lasciare un segno, per questo do dei colpi di accetta. Anche questa per me è scultura, come il taglio del vetro, la pennellata finale, il taglio della tela. Si può vedere cosa c'è dentro, entrare, uscire. Così ho contaminato la fotografia. E di questo sono felice. Non voglio più fare una foto senza una struttura che la regga.
Ho guardato il tuo libro Miss Q Lee ispirato al personaggio di un manga erotico giapponese. Miss Q Lee (Gianluca Petriccione) è un performer, prima uomo, poi donna, poi entrambi. Ci sei anche tu. Una foto mi ha colpita. Si vede una pentola dove stanno cuocendo sofficini e bastoncini di pesce. Non c’è tempo da perdere, ogni istante va consumato sino in fondo. Come è nato questo progetto?
È nato perché Gianluca è un grande amico. Lui suonava e abbiamo collegato la musica e le performances sonore. L'ho fotografato in diversi momenti. In alcune foto ci sono anch'io vestito da donna. Il 90% delle foto sono su pellicola. È una specie di tributo al suo personaggio. Ora è il mio collaboratore, mi aiuta. Ho fatto molte cose con lui. Abbiamo anche aperto insieme ad altri amici il Btomic, qui a Spezia. Tra poco dovrebbe arrivare, mi dice…
E infatti arriva. Gianluca Petriccione sorride. Si siede a un lato della scrivania di Jacopo. Gli chiedo se posso fare qualche domanda: come è nata Miss Q Lee, cosa ha significato nella sua esperienza di performer e musicista. Subito mi dice che lui e Jacopo sono amici da vent’anni. E poi si abbandona a un lungo racconto…
“Miss Q, dice, Lee è nato perché io sono sempre stato, e forse lo sono tuttora, un travestito. Principalmente in privato, e dopo sono anche musicista, principalmente in privato. E poi è nata l'idea di rendere pubbliche queste dimensioni private. Però è una cosa che può avere una valenza pubblica a condizione che ci sia rispetto. Sfortunatamente nel mondo della musica non ne ho trovato a sufficienza. Per questo, ho smesso di fare sia il travestito che il musicista. Questo libro rappresenta il mio privato, non c'è spettacolo.”
"Ma come nasce l’idea di questo personaggio di finzione?", gli chiedo.
“A me piaceva questo manga, dice Gianluca, perché era simpatico, perché rappresenta un po’ la purezza del gioco legata al travestitismo, che spesso si considera solo legato alla sessualità. Jacopo è stata la prima persona che mi ha fatto esibire. Io penso che sia una cosa molto preziosa mostrare i propri “limiti”.”
Il suo racconto mi offre lo spunto per un’altra domanda a Jacopo, su un libro il cui titolo è un gioco di parole: Paris is in Asia.
Ho immaginato che fossi andato in Asia e avessi cercato Parigi dall'altra parte del mondo. E invece no. Mi è piaciuto questo piccolo inganno. Asia è l’attrice Asia Argento.
Sì. Siamo stati a Parigi per Playboy. Le avevano promesso la copertina, ma non ce l’hanno messa. Così abbiamo deciso di non vendergli il servizio. L’abbiamo tenuto lì qualche anno e poi l’abbiamo autoprodotto. È un libro molto personale, mio e suo. Ci siamo divertiti come matti. È una specie di performance: vai in giro, documenti tutto, un reportage su di lei.
Hai collaborato con molti artisti. Sono nati diversi libri. Con il regista Paolo Sorrentino Gli aspetti irrilevanti, con il fotografo newyorchese Pete Voelker New York is not La Spezia/La Spezia is not New York, con il fotografo Kubiat Nnamdie Miami is not la Spezia/La Spezia is not Miami. Nel 2015 ho visto alla Pomo Galerie di Milano la mostra Princese. C’erano foto tue e di Lisetta Carmi. La decisione di collaborare smonta il mito dell’artista che produce in solitaria. Cosa significa per te?
Non sono un artista che lavora molto bene con gli altri. Sorrentino fa cose molto diverse e mi ha coinvolto per le foto. I fotografi li ho cercati on line. Mi piacevano tantissimo. Ho chiesto loro di fare degli split come nella musica punk anni Ottanta. Gli split erano fatti da due gruppi di diversi paesi che collaboravano per fare un disco. Una facciata ciascuno, perciò si chiamava split. Io ho fatto degli split fotografici. I temi erano liberi. Hanno avuto un successo incredibile. Sto collaborando anche con Magrelli. Lo ammiro molto. Si tratta di un lavoro su Roma.
Oltre alla mostra al Pecci, hai realizzato un libro molto bello dedicato al distretto tessile pratese. Si intitola The Belt.
Ho girato per qualche mese le fabbriche e la cosa più sconvolgente è il legame fra la spiritualità e gli operai. Ma anche il fatto che non c'erano le mense. Era bellissimo che mangiassero le cose portate da casa. Gli operai si lamentano, ma le mense sono orribili. Meglio la gamella vicino alla macchina, come facevano negli anni Sessanta. Pensavo ci fosse un legame politico, invece c'è la spiritualità che ha sostituito la politica. Non sono credente, ma anch’io amo la spiritualità dal punto di vista iconico. Sono attratto dal sacro.
Cosa vedi nel sacro?
Ci vedo coerenza, chi lo pratica, lo ama. Crede in qualcosa. Amo chi crede nelle cose. E poi c'è un piacere estetico. Come diceva Dan Graham: “Rock My Religion”! Comunque il mio è un immaginario del sacro legato al rock. Io penso che The Belt sia un insieme di umanità, spiritualità e macchine.
Oggi su cosa ti soffermi?
Vorrei fare solo autoritratti. Raccontare gli altri attraverso di me.
Jacopo Benassi. Vuoto, a cura di Elena Magini
8 settembre – 1 novembre 2020
Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato