La menzogna di Arlecchino
Che sia una riscrittura di una riscrittura di una riscrittura e, dunque, un lavoro sull'idea di tradizione, lo si capisce fin dal titolo, dalla scelta del testo. Come dice lo stesso Antonio Latella nell'intervista sul libretto di sala che accompagna lo spettacolo, del resto, «Il servitore di due padroni si presta perfettamente a questo scopo». Infatti. Chi meglio di Goldoni – cui il regista torna dopo una straordinaria Trilogia della villeggiatura – per fare i conti col passato e col presente? Del teatro, della cultura, della società.
L'esito è quello di un raffinato e complesso sovrapporsi e rimpastarsi di riscritture differenti che accompagnano il testo dal Settecento a oggi, da Goldoni a Ken Ponzio – che riscrive la drammaturgia per Latella –, passando per Strehler, ma anche per Heiner Müller. E per la televisione, la pubblicità, la musica pop; decenni e secoli di storia del teatro, scontri di classe, di genere, generazionali e culturali. Le indicazioni goldoniane sono sviluppate nel senso più stretto del termine: vengono aperte, svelate, esplorate, restituite in tutto il loro complesso intreccio di allusioni.
ph. Brunella Giolivo
Non soddisfatti del versante per così dire più interno e filologico, Ken Ponzio e Antonio Latella procedono a caricarle dello zeitgeist attuale: nella Commedia dell'Arte c'erano delle coppie di opposti che funzionavano insieme (maschio/femmina, ricco/povero, vecchio/giovane), qui la questione si complica, facendole cortocircuitare in un discorso unico e facendole e aggiungendovi altre opzioni come l'ambiguità sessuale, il nuovo sotto-proletariato, la diffidenza razziale nell'era della post-globalizzazione. Intanto, epoche, stili, immaginari si mescolano: basti guardare i costumi – qualcuno anni Cinquanta, qualcuno che fa il verso al Settecento, qualcun altro iper-contemporaneo – o, sul versante più strettamente teatrale, alla rielaborazione della gestualità-stereotipo della Commedia dell'Arte, che in qualche momento si fa vera e propria coreografia pop, da ballo di gruppo o mega-concerto.
ph. Brunella Giolivo
Anche gli intrighi del testo goldoniano sono complicati e attualizzati, ad esempio resuscitando, fra poltergeist televisivi e storie bibliche, Federigo nei panni di Arlecchino e approfondendone il possibile legame incestuoso con la sorella Beatrice, tirando poi in ballo, con la sua mascolinità, la conseguente ambiguità del rapporto con Clotilde, qui rappresentato con scene sessuali molto esplicite.
La cifra della riscrittura, si sarà capito, è quella estrema del pensiero postmoderno, che chiama in causa tutte le versioni possibili dell'oggetto della propria creazione, le illumina di una luce differente mescolandole fra loro e le passa al bisturi con dispositivi come la ripetizione in loop, la deriva del senso, la parodia, sempre con il rischio di bloccarsi nell'evocazione e di divorare tutto, disinnescando le logiche – le grandi narrazioni (tipo il ragionamento sulla borghesia) – del discorso originario.
ph. Brunella Giolivo
E dunque, l'attenzione si sposta dalla storia all'interpretazione: l'esito è quello di una profonda operazione filologica che, anche se a volte rischia di andare a rubare la scena al qui-e-ora di quel che succede fra attori e personaggi, diventa l’opportunità di avvicinare il lavoro instancabile di studio che Antonio Latella compie (e che da anni sta compiendo) sul dispositivo teatrale e sulla funzione registica. Il suo scopo dichiarato è quello di lavorare sul tema della menzogna, oggetto di una tetralogia di cui questo Servitore è il terzo capitolo (dopo il dittico hitleriano formato dal monologo A.H. e la messinscena delle Benevole di Littell, prima di un prossimo Peer Gynt in Russia). E così, si aggiunge un ulteriore livello a questo spettacolo in cui il magma di riferimenti e rimandi interni ed esterni al testo e al teatro si è già sbranato buona parte della storia: il testo si fa – anche con precisa coerenza filologica – pretesto per parlare del teatro. La stratificazione ulteriore – ma forse sarebbe meglio dire fondamentale, vista la sua pregnanza nel Servitore e nell'opera del regista – è quella del ragionamento sulla teatralità, che viene messa in discussione, decostruita e svelata lungo tutto lo spettacolo.
ph. Brunella Giolivo
Dopo un primo atto tutto sommato realistico – si fa per dire, visto che le didascalie sono recitate, le scene ripetute, eccetera –, ambientato in un rassicurante corridoio di un grande albergo, con luci, porte, piante di plastica e tutto quanto, c'è una seconda parte dove lo spettacolo si disintegra e, con lui, la scena, il testo, i personaggi. Paradossalmente, dopo aver smontato tutta la scenografia e aver dato vita a pezzi di più smaccata performatività, si torna alla tradizione di Goldoni e di Strehler, con le parole originarie, i lazzi, le mosse comiche versione dopoguerra. Come se attualità e tradizione convivessero e il processo di rottura della convenzione, proprio quando si esplicita, si chiudesse con il suo ritorno (con Arlecchino che ricalca quello di Moretti e dice le parole di Goldoni). Il discorso sul teatrale, infatti, è più chiaro nella prima parte dello spettacolo, piuttosto che in questa seconda dove si fa insistentemente sovraccaricato: con una struttura drammaturgica più solida, i rapporti fra i personaggi netti, il canone comico-goldoniano e seguenti ben riconoscibile, il lavoro sul teatrale fatto da Latella e dai suoi attori emerge più nitido ed efficace. A partire dall’ambientazione, un interno di passaggio con molte sedie, in cui tutti sono di volta in volta spettatori, e dalle didascalie recitate da Brighella (intenso, nella sua presenza continuativa, Massimiliano Speziani) al telefono che, non solo introducono, ma in qualche modo istruiscono tutto lo spettacolo, chiamando le entrate e ordinando le azioni da compiere.
ph. Brunella Giolivo
Per proseguire con battute e gag smaccatamente meta-teatrali: “Io odio gli a parte!” si dispera il Federigo-Beatrice di Federica Fracassi, il dottor Lombardi (Annibale Pavone) che non si presta a un'acrobazia cosiddetta tipica da Commedia dell'Arte interrompendo il gioco con un siciliano stretto, un duello senza spade che non si compie proprio perché gli attori si accorgono della mancanza dell'arma. E gli assoli della brava, bravissima Elisabetta Valgoi, la cui energia compressa sempre sul filo della deflagrazione dimostra quanto il dispositivo possa esprimersi al meglio in certe attorialità.
ph. Brunella Giolivo
Alla fine del Servitore di Ponzio-Latella si potrebbe pensare che la tradizione e la sua decostruzione possono convivere, anche se certo non pacificamente. Un esempio emblematico è l'impostazione interpretativa di Roberto Latini, straordinario attore-autore chiamato a interpretare un Arlecchino tutto bianco, che ha perso le sue losanghe e si è tolto la maschera, e lungo tutto lo spettacolo dimostra un ventaglio di gradi e tonalità recitative di vertiginosa apertura: ammiccante e inquietantissimo, vaporoso e più che terrigno, sempre sfasato, un passo avanti o un passo indietro rispetto a tutto il resto. Il suo plurilinguismo è allo stesso tempo sviluppato e messo in dubbio dall'attore, che si inceppa sulla dizione in passaggi vistosamente intenzionali.
La sua gestualità è ovviamente in contrasto con quella comunemente legata ai comici, ma allo stesso tempo ne rispetta il canone che pensiamo le appartenesse: invece che i piedi aperti, l'Arlecchino di Latini al contrario stringe le ginocchia, gira le punte verso l'interno; ma il senso di disequilibrio e precarietà, di rivoluzione dietro l'angolo, è sempre lo stesso, come se permanesse il senso di quello stile recitativo, il suo scopo, ma non le forme che ha preso nel corso degli anni. È questa la bella “menzogna” di questo Arlecchino, che va a chiudere il cerchio di un lavoro raffinato e complicato, ambiziosissimo nel suo stare in bilico sull'orlo della tradizione, che sembra allo stesso tempo voler accogliere e tradire, rompendo il canone sul piano delle forme che ha assunto lungo i secoli, ma mantenendone attiva la struttura, la logica, il senso.
Roberta Ferraresi (Il Tamburo di Kattrin)