Bagliori estremi. Microfinzioni argentine contemporanee
Scrivi, ti prego. Due righe sole, almeno –questa la preghiera di Dino Buzzati contenuta in un celebre frammento raccolto nello zibaldone intitolato Siamo spiacenti di – perché, alla fin fine, tra cumuli di carta appallottolata, sminuzzata o nascosta, una riga si potrà salvare, forse proprio quella scritta con i nervi a fior di pelle, digrignando i denti, rompendo la punta del lapis sul foglio sforacchiato da minuscoli asteroidi di grafite. Contemporaneamente o quasi (la cronologia diventa elastica quando le coincidenze letterarie scavalcano a piè pari gli oceani), Manuel Puig pubblicava a Buenos Aires il suo romanzo Boquitas Pintadas. Nell’edizione italiana scompare il riferimento esplicito al noto brano di Carlos Gardel perché si sceglie di pubblicare l’opera con il titolo Una frase, un rigo appena, parole prese a prestito dalla canzone Scrivimi, il cui ritornello, cantato da Luciano Tajoli, recita: amore scrivimi/ non lasciarmi più in pena/ una frase, un rigo appena/ calmeranno il mio dolor.
A distanza di qualche decennio, nel 1994, Einaudi pubblica un’antologia con i migliori racconti brevi e brevissimi del concorso letterario indetto dalla casa editrice insieme a la Repubblica e alla trasmissione televisiva Babele per quegli scrittori (letterati in erba e professionisti) che avessero scelto di fare della concisione virtù, mettendosi alla prova con la scrittura di un racconto che non superasse le quindici righe. Il grazioso volumetto s’intitola proprio come il refrain della celeberrima canzone che ha emozionato intere generazioni di emigranti.
Tuttavia, come segnala Anna Boccuti, traduttrice e curatrice dell’antologia di microfinzioni argentine Bagliori estremi (Edizioni Arcoiris, 183 pp., 12€), nel panorama letterario italiano la prosa brevissima sembrerebbe un’invenzione più che recente, nonostante non siano mancati i precursori. Gianni Rodari, ad esempio, ha lasciato finissimi esempi di narrativa minima, ibrida e dal marcato accento ludico che ben si inseriscono nella tradizione novecentesca della brevità come risultato di geniali strategie discorsive. Dal canto suo, Italo Calvino, sognando di scrivere un volume di racconti di un solo rigo, ha reso più agevole la strada che ora Marco Belpoliti ripercorre con la riscrittura, in quattro tweet giornalieri di 140 caratteri, delle cento fiabe italiane raccolte dall’autore nato a Cuba.
Antiche e contemporanee in egual misura, quel centinaio di “piccole, feroci creature” che Boccuti ha selezionato per il pubblico italiano sono microcongegni discorsivi in cui è costantemente presente il dettaglio meta- e la rifrazione intertestuale. Nelle pagine dell’antologia, in effetti, sono udibili la voce composta di Shahrazâd e i passi appesantiti di Sancio Panza, a cui Franz Kafka aveva dato il permesso di ammattire lo sciagurato idalgo mancego per divertirsi a sue spese; sono visibili, tra un capoverso e una maiuscola, le orme di un rettile estinto che si trascina – stanco e insonne – cercando un tale di nome Augusto, forse l’indiscusso maestro guatemalteco della narrativa brevissima (cfr. Augusto Monterroso, Opere complete e altri racconti, trad. di Hado Lyria, Milano, Zanzibar, 1992), sul cui rigo quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì si almanacca tutt’oggi.
Sicché, il segreto tanto del narrare breve quanto dell’aggiustare complicate questioni sentimentali di separazioni e lontananze parrebbe proprio consistere nel comporre una frase (ma anche più di una, l’importante è che non si superi lo spazio di una pagina) che implichi molto di più di ciò che contiene, vale a dire un significante così denso da potere funzionare come serbatoio di significati concentrati che, all’occorrenza, sprigionino voci, immaginari, allusioni, e sappiano comporre, sul naso di chi legge, all’altezza della fronte, complessi sistemi di urbanistica onirica e architetture intertestuali. Proprio come ribadisce David Lagmanovich, autore presente nell’antologia, lucido teorico della microfinzione come genere autonomo, non si tratta di togliere ma di disporre solo le parole reputate insostituibili, le uniche che vale la pena scrivere. In questo senso, la microfinzione è innanzitutto una sfida intellettuale della quale la riga difesa da Buzzati e la frase bramata da Tajoli paiono essere, in Italia, felici preludi, perché alluderebbero alla brevità fulminante e alla precisione certosina, caratteristiche riconducibili a questo tipo di scrittura.
Tra gli incastri arditi delle membra nelle bettole bonaerensi e gli approcci maldestri nelle balere della Bassa padana c’è poca differenza, a voler ben guardare, perché ciò che conta è la nobilitazione letteraria del gusto per il melodramma ruspante, il sentimento colloso, la passione seriale per i tormenti radiodiffusi che caratterizza una parte dell’esuberante panorama letterario sudamericano della transizione tra le generazioni del Boom e del Post-Boom. Tale letteratura si rivolge a un lettore che divora storie di ogni tipo, che si sgrovigliano nella promiscuità dei registri e affiorano dalla mescolanza di linguaggi dove i punti di vista si sovrappongono e gli espedienti letterari rinvigoriscono con l’inserimento, a fini farseschi, di materiali narrativi eterogenei.
Epistolari febbrili, brandelli di conversazioni telefoniche, note di cronaca locale, ritagli di giornale, inaffidabili ragguagli di narratori tendenziosi, proverbi, citazioni, atti amministrativi, slogan pubblicitari, messaggi di condoglianze, lettere, telegrammi, i testi dei boleri più canticchiati mentre ci si impomata la zazzera... In questo caleidoscopico e parodistico affresco di frammenti narrativi indipendenti di cui si arricchisce la narrativa argentina del periodo storico che coincide parzialmente con l’ultima dittatura militare (1976-1983) si acclimata, per poi germinare rigogliosa, la microfinzione, che con tali frammenti ha in comune il gusto per lo spiazzamento del lettore attraverso inaspettati incroci tra estetiche, generi e formati diversi. In questo senso, per arrivare ai giorni nostri, un tweet ben congetturato (paiono cinguettii i testi di Fabián Vique dedicati a Dio contenuti nel volume), un sms o un’email così laconica da poter competere con il pippirippirippippi di Giovanni, l’ellittico telegrafista di Enzo Jannacci, potrebbero potenzialmente rientrare in quelle formule narrative, silvestri e indomabili, così come le ha definite il narratore messicano Edmundo Valadés, che suscitano vivaci dibattiti nei paesi ispanofoni.
Soprattutto in Argentina (ma anche in Messico e in Colombia), si manifesta una rinnovata predilezione per le mirabolanti miniature che riconoscono nelle eleganti cesellature poetiche del Modernismo, negli sperimentalismi delle avanguardie storiche, le greguerías di Ramón Gómez de La Serna, i Cronopios di Cortázar, le Finzioni di Borges, così come nella sorprendente opera di Macedonio Fernández, le favole di Monterroso e le miscellanee di Adolfo Bioy Casares solo alcuni dei loro progenitori, forse i più conosciuti.
Soprannominate “narrazioni bonsai”, riproducono in piccole dimensioni la perfezione formale della short story e resistono ai limiti della loro natura pigmea grazie ad un apparato radicale ben saldo nel terreno della letteratura universale che permette loro di far fiorire, e a volte persino fruttificare, l’immaginazione di chi le accudisce con speciale premura.
Le tredici sezioni del libro costituiscono un percorso di lettura sinuoso, per nulla scontato. Tale percorso, sempre passibile di stravolgimenti e variazioni, fornisce all’opera una forte unità strutturale fondata sulla molteplicità semantica e simbolica; al contempo, arricchisce le potenzialità narrative delle singole unità.
Solo leggendo il libro si comprende a pieno perché la curatrice si rivolga, nella sua nota introduttiva, “all’intrepido lettore”. In effetti, non è da tutti avere il fegato di vagare, solitari e guardinghi, tra le righe, gli spazi bianchi e le soglie testuali di quest’antologia senza temere conseguenze che possano turbare il sonno, proprio come nelle narrazioni di Raúl Brasca, Carlos Culleré, Luisa Valenzuela, Valeria Ildiko Nassr, Rosalba Campra, Ana María Shua e Norberto Luis Romero, tra gli altri, presenti nelle sezioni “Oltre la veglia” e “Brividi”.
Del resto, ce n’è per tutte le sfumature dell’ardimento letterario: la riprogettazione di paesaggi mitici, la fondazione di città immaginarie, le fusioni tra gli affascinanti discorsi sulla genesi del mondo e il carattere demiurgico dello storytelling. È persino possibile imbattersi in spiazzanti momenti di autocoscienza compiuti da alcune microfinzioni, le più spregiudicate, che non solo riflettono sulla propria natura, ma pretendono anche di dare dei consigli ai testi successivi su come evitare le trappole dell’autocompiacimento, scherzando, in questo modo, con l’inevitabile sequenzialità della lettura. Ancora: si possono ammirare i raffinati andirivieni della scrittura della memoria, che saltella sulle tappe cruciali della storia ufficiale, e le reinterpretazioni audaci di personaggi fiabeschi; si ascoltano, con l’orecchio teso della curiosità impudente, le confessioni dei più noti personaggi letterari circa tremende malefatte compiute a scapito di altri. A tutto questo s’aggiungono, come se non fosse già abbastanza, l’immancabile tema del doppio, le ironiche moltiplicazioni dell’antico gioco tra sogno e realtà, l’invenzione di esseri immaginari... Insomma: chi più ne ha più ne metta, purché si consideri quel rigo appena l’unità minima delle nostre chimere, così lontane e così vicine, come bagliori estremi la cui scia siderale ferisce gli occhi.