Germania anno zero

12 Gennaio 2015

Negli Stati Uniti e in Inghilterra la Germania è di moda. Così pare leggendo articoli di riviste e visitando mostre. In Italia, invece, la Germania appare oggi come una maestra arcigna e severa, che si fa beffe degli sforzi di rigenerazione politica ed economica intrapresi dal Belpaese a guida Renzi, e che non perde occasione per impartire a noi, e alle altre nazioni del Mediterraneo, lezioni di amministrazione virtuosa della cosa pubblica e del bilancio dello stato. Angela Merkel è il ritratto vivente di quest’attitudine sanzionatoria, la sua aria da brava massaia della politica è oggetto nel Bel Paese di commenti irriverenti, che tradiscono, come sempre in questi casi, un senso di inferiorità che si ammanta del suo contrario.

Nel mondo anglosassone invece la stessa signora, e la nazione che rappresenta, sono da qualche tempo al centro di un’attenzione di segno opposto. Si moltiplicano le iniziative tese a fornire una narrazione nuova del gigante tedesco: una vera e propria riabilitazione che ha eliminato i luoghi comuni sedimentati a partire dalle due catastrofi belliche del secolo scorso.

 

Angela Merkel in visita al Deutsche Historische Museum per la mostra: 1914-1918. The First World War

 

Deutschland è diventata una nazione cool, da scoprire, di cui narrare i grandi meriti culturali del passato ma anche e soprattutto la nuova creatività che sale dal basso, dagli esperimenti di convivenza multietnica, dalle nuove opportunità di lavoro, dall’immagine architettonica delle sue città in continua mutazione, a cominciare dal suo laboratorio di innovazione più spettacolare e amato all’estero che è Berlino.

Ed è da Berlino che si può partire per capire quanto la nazione tedesca sia cambiata, e soprattutto se si tratta di vero cambiamento.

In Unter den Linden Nr 2 si trova il “Zeughaus”, l’arsenale di Berlino costruito in stile barocco da Federico I di Prussia, elettore del Brandenburgo, tra il 1695 e il 1730. Oggi è la sede del Deutsches Historisches Museum, che ha ospitato da maggio a novembre dell’anno scorso una grande esposizione sulla Prima guerra mondiale. Per accedere all’ala dell’edificio che ospita la mostra si passa necessariamente attraverso lo splendido cortile interno, le cui finestre del pian terreno sono sormontate dalle 22 teste di guerrieri morenti scolpite in pietra arenaria dal grande scultore barocco Andreas Schlüter.

 

Teste mozzate dai vincitori prussiani, allegorie della vittoria contro turchi e francesi, che tuttavia di allegorico hanno poco: domina infatti la potenza dell’espressione concreta dei volti, la sofferenza che deforma le fisiognomie, le mascelle spalancate, l’orrore negli occhi nell’attimo che precede la fine.

La potenza militare del nuovo regno di Prussia riservava ai suoi nemici il terrore: la consapevolezza di avere osato l’impossibile e lo strazio del corpo come inevitabile punizione. La potenza icastica dei guerrieri morenti è il viatico a una mostra che fa i conti con un passato in cui il sogno prussiano si è infranto nelle trincee di Verdun.

Oggi, a distanza di cento anni, la Germania si vuole, e si sa, diversa e dunque presenta quel lontano passato come una specie d’inganno collettivo, in cui le singole nazioni coinvolte, tutte, e non solo quella tedesca, commisero errori di valutazione, o proiettarono attese di riscatto politico e di crescita economica. Ma altrettanto chiaramente spazza via il dogma della guerra inevitabile sottolineando la responsabilità determinante della propria classe dirigente.

 

Le ‘liturgie nazionali’, come le chiama Oliver Janz, giovane storico tedesco, autore del saggio 1914 – 1918. La Grande Guerra, tradotto di recente da Einaudi, erano generosamente presenti in tutti gli stati europei, ovunque “lo spazio pubblico fu riempito di monumenti, che celebravano monarchi, soldati, uomini di Stato, eroi nazionali e padri fondatori come Nelson, Bismark o Garibaldi”.

La liturgia tedesca non era necessariamente più marcata di altre ma in Germania, e in Austria, l’idea dell’inevitabilità della guerra si era propagata dalle gerarchie militari fino ai soldati semplici, dalla politica a tutti gli strati della popolazione.

 

Bandiera Tedesca Imperiale, 1914, Parigi, Musée de l'Armée

 

È questa molla che spiega l’attivismo germanico e il successivo fallimento della strategia militare impostata su una guerra rapida sul fronte occidentale per poi agire vittoriosamente su quello orientale.

La Germania che si presenta nella mostra di Berlino è dunque una nazione che fu sconfitta dagli errori dei suoi generali, ma più ancora dalla sua ubriacatura ideologica: da un nazionalismo innervato di darwinismo sociale, come spiega bene Janz nel suo studio, dove la sopravvivenza del più forte è anche quella del migliore.

Da un lato, l’ideologia dall’altra gli oggetti della guerra, le sue tracce materiali: i luoghi, le armi, le suppellettili, i reperti, i mezzi, le tecnologie. E i milioni di mutilati e di morti di tutte le nazioni coinvolte perché la guerra, questo il messaggio, non è stata una fatalità inevitabile ma il risultato delle valutazioni superficiali tanto dei militari quanto dei politici e di una lunga serie di errori.

 

La mostra di Berlino dice molto della Germania di oggi: una nazione che ha rinunciato consapevolmente e programmaticamente a una ‘verità nazionale’ per adottare un punto di vista ‘globale’ sotto le insegne di una storiografia che si presenta come ‘scientifica’.

Il risultato appare tranquillizzante, vuole esserlo, quindi grado zero della retorica e diplomatica distribuzione degli attori sulla scena, ciascuno con i suoi interessi e con il suo fardello di colpe. Persino le interpretazioni, le letture, le prospettive appaiono dimesse, minimaliste, quasi reticenti. S’impone lo stile della Germania di questi anni, quello impersonato perfettamente dalla Cancelliera Angela Merkel: concretezza, moderazione, fine delle grandi narrazioni e del “Grande Stile”.

 

A pochi passi dallo Zeughaus, scendendo sulla sponda sinistra della Sprea, c’è l’ingresso nel “DDR Museum”. Ancora storia tedesca, quarant’anni dell’altra Germania, quella comunista sotto l’ala protettrice dell’Unione Sovietica, la Repubblica Democratica Tedesca.

Di quella storia, finita con l’abbattimento del Muro nel 1989, il museo esibisce con dispendio di tecnologia interattiva la cultura materiale, gli stili di vita, il mondo del lavoro, la scuola, il tempo libero, il suo motto è “La storia toccata con mano”.

La rappresentazione scenica, che non disdegna trovate a effetto, risulta efficace. Il ‘teatro’ della DDR si popola di figure e di oggetti dai tratti grotteschi, comici, ridicoli. Come la vecchia Trabant esposta, e in cui si è invitati a entrare. L’auto per i tedeschi è ancora oggi la concentrazione simbolica del desiderio appagato, il premio dell’operosità senza cedimenti, come mostra il parco automobilistico in circolazione per le sue strade e autostrade; è la cifra morale del buon cittadino. Così è stato fin dagli anni Cinquanta, tanto all’Ovest quanto all’Est.

 

DDR Museum, Berlino

 

La Trabant era l’auto per eccellenza della DDR, uno status symbol, acquistarla richiedeva anni di sacrifici. Nelle sue linee esageratamente semplici, all’insegna di una funzionalità assoluta, palesava tutta la mediocrità estetica della nazione. Il ‘design’ era un lusso da capitalisti. Auto, case, edifici pubblici dovevano uniformarsi a un criterio di razionalità elementare, fatto di linee rette orizzontali e verticali e di una gamma di colori estremamente limitata, tale da impedire qualsiasi tentativo di individuazione. L’uniformità geometrica e cromatica era una sorta di equivalente figurale della virtù politica, della superiorità morale dello stato socialista contrapposto all’anarchia degli stili e al protagonismo individuale dell’Occidente capitalistico.

 

Usciti dalla Trabant, nella mostra, s’incontrano gli altri ‘mondi della vita’ di quella nazione: la fabbrica, la scuola, i luoghi della cultura, i teatri, il cibo. La trovata più spettacolare del museo è il ristorante, dove gli ospiti si trovano tra le mani una carta con i cibi tipici della Germania comunista: il ‘Ketwurst’, l’Hot dog dell’Est e poi la celebre cotoletta alla contadina del Meclemburgo, e la ‘Grilletta’ in tutto identica all’Hamburger ma guai a usare il nome americano.  

 

A ben vedere nel DDR Museum si coglie sotto traccia una strana combinazione di spettacolarità e malinconia. La domanda che aleggia nell’aria è: perché la storia ha dovuto prendere quel corso, si poteva evitare? Perché quei diciassette milioni di tedeschi nati nella parte sbagliata della nazione hanno dovuto subire decenni di angherie, di controlli quotidiani, d’ipocrisie ideologiche funzionali ai disegni egemonici dei sovietici? Come se alla fine a pagare le colpe dei tedeschi fossero rimasti solo loro, passati da una dittatura all’altra senza soluzione di continuità.         

In realtà, le grandi questioni della storia rimangono sullo sfondo, i curatori del museo sono più interessati agli effetti comici, come ad esempio il goffo tentativo di instaurare una moda femminile comunista in grado di contrapporsi a quella capitalistica dell’Occidente. E così gli spazi pubblici, le fabbriche, i luoghi della vita associata, le case private, tutto doveva competere con l’altra Germania sul terreno di un confronto etico: a Est la distribuzione delle risorse secondo il bisogno, livellando i salari e l’offerta di servizi dello stato, a Ovest la diseguaglianza dei poveri e dei ricchi.

 

In questo mondo costruito e pianificato a tavolino, gli ideatori del museo non ci fanno entrare per la porta dell’ideologia, ma attraverso l’esperienza sensoriale: si entra nelle case private, si vedono gli oggetti della vita quotidiana, i cibi sulle tavole apparecchiate, se ne immaginano gli odori, in un gioco continuo tra il virtuale dei filmati e il reale degli oggetti disposti nelle sale.

Sembra quasi di entrare in una IKEA dell’Est in cui non solo c’è la casa ma anche la scuola, l’ufficio pubblico, il teatro, la birreria.

 

Il visitatore deve poter provare le stesse sensazioni di chi ha vissuto l’esperienza dello stato socialista. Conta l’aisthesis, la percezione sensoriale; il logos, la spiegazione è il criterio della vecchia tradizione museale ormai travolta dalla spettacolarizzazione dei nuovi allestimenti. La storia complessa e contraddittoria di una nazione viene scomposta nelle linee semplici di una commedia di costume, in cui i cattivi sono stati sconfitti dalla loro stessa stupidità. Per molti anni quella vicenda era stata rappresentata in Occidente come la tragedia di un popolo privato delle sue libertà elementari, con i suoi disperati tentativi di fuga e l’ordine di sparare dato ai gendarmi che controllavano il confine con la Repubblica Federale. Oggi quella storia è rappresentata come una grande farsa su cui venticinque anni fa è calato il sipario, uno spettacolo per turisti in cerca di emozioni, da gustare tra una visita a un museo e un giro in battello sulla Sprea.

 

Forse le forme dell’elaborazione del lutto passano anche attraverso la comicità, il ridicolo, l’assurdo. Ma se i tedeschi si raccontano oggi quella storia come se assistessero a una commedia verrebbe da ricordare la frase di Francis Bacon, secondo cui nel teatro della vita umana solo a dio e agli angeli è concesso di fare da spettatori.

 

All’indomani del crollo dell’altra Germania, nel clima di euforia che ne seguì, Hans Mayer ricordava nel suo La torre di Babele (1991) che quella tragicommedia era nata sotto auspici assai diversi: dopo il 1948 molti intellettuali – il più noto era Brecht oggi di nuovo celebrato almeno in Italia – pensarono che dalle rovine della Germania nazista si potesse edificare una società senza classi, culturalmente rigenerata e libera di progettare il suo futuro. Si sa come finì: la torre crollò nel giro di pochi anni. La distrussero, scrive Hans Mayer, i politici asserviti agli interessi di Mosca: il compagno Ulbricht e poi il suo successore Honecker. E l’utopia fece la fine di tutte le utopie: divenne la foglia di fico che doveva coprire gli interessi della potenza egemone.

 

Se i tedeschi di oggi si sono votati senza riserve alla Realpolitik, se sono i più strenui difensori dell’ortodossia economica europea ciò è dovuto non da ultimo al fatto che più di altri in Europa hanno toccato con mano il crollo delle ideologie del Novecento. Nel clima di rassegnazione generale che oggi domina in Europa i tedeschi sanno esibire una dose di realismo che sfiora il cinismo: per loro la storia come la natura non fa salti e le fughe in avanti, i passi più lunghi della gamba, il tenore di vita al di sopra delle proprie possibilità – sia per il singolo come per le nazioni – prima o poi presenta il conto e di solito comporta la perdita della libertà.

 

 

Berlino e il suo passato. Il flâneur a spasso per Berlino oggi incontra uno spazio urbano paradossale: accanto alle grandi sperimentazioni architettoniche degli ultimi vent’anni – il Sony Center e gli edifici di Potsdamer Platz, i nuovi musei, il quartiere governativo – si trovano i monumenti del passato riportati a nuova vita, ricostruiti con acribia filologica, il Reichstag, il Duomo, i musei della Museumsinsel.

Al di là della loro perfezione, queste ricostruzioni sembrano esibire in filigrana il loro passato di rovine. Il paradosso sta proprio in questo: più sono meticolosi i rifacimenti e più è evidente lo stato di distruzione da cui provengono. Quest’autenticità inautentica semina un sottile senso di morte in ciò che oggi vuole essere nuova vita.

 

E getta qualche dubbio sulla diagnosi lusinghiera che dei tedeschi ha dato recentemente George Packer sul “New Yorker” in un ritratto della Germania di Angela Merkel che ha fatto il giro del mondo. “Come uno scrupoloso paziente in analisi, – scrive Packer, – la Germania ha portato in superficie il suo passato, l’ha discusso infinitamente e l’ha accettato, e questo lavoro di molti anni ha consentito al paziente di vivere una successful new life.”

 

 

Un’intera generazione d’intellettuali e scrittori, da Günter Grass a W. G. Sebald, da Heinrich Böll a H. M. Enzensberger ha ricordato alla nazione tedesca, nata dopo la seconda Guerra Mondiale, che il suo successo economico e la sua tranquillità piccolo borghese è stata costruita sulla rimozione del suo atroce passato. Cos’ha determinato ora la grande svolta di cui parla Packer sulle colonne del New Yorker? È vera svolta? È davvero una successful new lifeO è cambiata semplicemente l’immagine della Germania all’estero, soprattutto nel mondo anglosassone? A questo riguardo diventa interessante la visita della mostra in corso al British Museum, “Germany: Memories of a Nation”, dove i tedeschi incassano oggi con moderata soddisfazione il riconoscimento di nazione non soltanto definitivamente riscattata dal suo passato, ma anche, e forse per la prima volta, ‘sentimentalmente’ vicina alle altre nazioni europee.

 

Quanto alla sua capitale esistono oggi molte Berlino: non solo quella monumentale della memoria o quella delle archistar. Intorno a questa capitale sta crescendo la città delle nuove comunità sociali, fatta di giovani e meno giovani, tedeschi e stranieri provenienti da tutto il mondo, precari per necessità e vocazione, artisti, studenti, musicisti, artigiani, un tessuto di nuove relazioni e nuove sinergie, che rappresenta un potenziale ancora tutto da esplorare. Da un lato, i vecchi emigrati lavoratori, turchi, italiani, greci, dall’altra gli ex studenti Erasmus dal Sud Europa, che dopo la laurea inutile nel loro paese sono ritornati e ora campano di lavori precari tra call center e pizzerie. E infine un ceto di neoborghesia colta e snob, bio-responsabile con l’auto ibrida che proviene dall’Occidente ricco, americani, canadesi, inglesi, francesi. Un melting pot in bilico tra neoproletariato etnico e nuovo ceto medio che si è insediato nei quartieri che oggi fanno tendenza: Neuköln, Kreuzberg e Prenzlauer Berg.

 

Il resto della Germania osserva con rassegnata diffidenza questo esperimento sociale: non è l’immagine che essa ha di sé, e forse nemmeno quella che vorrebbe dare al mondo, ma sono una certa Europa e America intellettuale che la vogliono vedere così e la politica tedesca asseconda ed esporta volentieri questo ritratto inedito della nazione.

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