Perché la clinica si occupa di radicalismo / Manchester. Chi sono gli estremisti?

24 Maggio 2017

Ancor una volta una strage. Manchester, ancora una volta il radicalismo colpisce nel nome di un dio distruttore, il volto coperto, la voce quasi soffocata. Un fatto politico, un fatto storico, un evento clinico: come pensa quel volto nascosto dal velo? Perché la clinica si occupa del radicalismo? Come si permettono gli psicoterapeuti, che dovrebbero stare chiusi nel mondo della patologia del soggetto, di occuparsi del sociale? Con quale diritto? Con quale competenza? Spesso gli stessi clinici, nonostante le riflessioni di Freud a partire dalla Grande Guerra, hanno sottovalutato le patologie individuali che portano ai disastri sociali, come accadde al Processo di Norimberga (1945-1946). 

Gustav Gilbert (1911-1977) e Douglas Kelley (1912-1958) ricevettero l’incarico di valutare le condizioni psicopatologiche di alcuni tra i più importanti gerarchi nazisti, tra costoro Hermann Goering. Usarono alcuni test diagnostici, in particolare il test delle macchie di Rorschach e il Test di Appercezione Tematica (TAT) di Murray. 

 

I risultati di queste somministrazioni negavano la presenza di psicopatologia in termini legali. Tuttavia Gilbert, al contrario di Kelley, concluse che molti dei processati avevano disordini di personalità sociopatica di tipo paranoide e narcisista, ma non si trattava, a quel tempo, di patologie legalmente definite.

Qual è la differenza tra costoro e quel volto coperto dal velo? Oppure si tratta di un fenomeno che, benché non identico, è in grande misura equivalente? A partire da fine secolo, e nei primi vent'anni di questo nuovo millennio, assistiamo a un risorgere massiccio di patologie collettive, che non trovano risposte valide nel campo della psicopatologia classica – tutta presa da categorie diagnostiche standardizzate, neurotrasmettitori e comportamenti individuali – e mostrano forme complesse, che neppure le categorie del politico, troppo riduttive per altre ragioni, sono in grado di gestire e analizzare a fondo. Non che la lettura politologica non serva, ma la politologia si ferma al paradigma dell’attore razionale, non ha strumenti per comprendere l’inconscio, che non si limita ad agire sul piano dell’individuo patologico, ma ha le sue manifestazioni più importanti in campo sociale e relazionale. L’inconscio si osserva solo “a posteriori”, a partire dagli effetti prodotti nel sociale, dai suoi disastri.

 

Per questa ragione si tratta di analizzare sistemi psicotici che emergono da esperienze relazionali che, a loro volta, producono psicopatologie invisibili all’occhio del clinico che dissocia l’individuo dall’ambiente.

Di recente ho partecipato a un seminario internazionale sul radicalismo tenutosi a Milano. I relatori, Micol Ascoli – psicoanalista e psichiatra al Refugee Therapy Centre di Londra – e Felipe Galvez – psicoterapeuta sistemico e docente presso l’Università di Santiago del Cile – hanno presentato casi clinici e interventi di gruppo in relazione a una forma particolare di radicalismo: i terroristi animalisti. 

Nell’era della globalizzazione, il clinico si domanda se, al di là delle differenze specifiche, ci sia un genus che accomuna il “discorso radicale” e le sue pratiche. Hanno qualcosa in comune islamisti, antiabortisti, neo-nazisti, animalisti antagonisti, fondamentalisti d’ogni tipo? Condividono una posizione sul mondo?

La risposta emersa dal seminario è sì; il radicalismo condivide un pattern essenziale di antagonismo che si fonda su principi assoluti e certezze apodittiche (che significa dimostrate senza bisogno di prove empiriche).

 

 

In questo senso – questo il paradosso dei sistemi psicotici – il radicalismo è universalista e globalizzato, non ammette differenze, anche se, in quasi tutti testi antagonisti, una delle finalità coscienti è la lotta dura “contro la globalizzazione”. Anzi, e qui entra in campo il fenomeno dell’inconscio sociale, il radicalismo non vede i particolari, oppure li considera pericolose espressioni del nemico, inclinazioni perverse. 

Al convegno di Milano, abbiamo discusso la valutazione clinica di militanti animalisti radicali, incarcerati per avere compiuto attentati terroristici contro i laboratori di sperimentazione sugli animali. Azioni che accomunano quei gesti a quelli degli antiabortisti nord-americani, che mettono bombe nelle cliniche dove si pratica l’interruzione di gravidanza.

Ciò che rende “speciali” questi soggetti è l’assenza di soggettivazione rilevata dalle interviste cliniche. Sono soggetti “privi di sé”, hanno sacrificato la soggettività alla causa. Nelle parole di Galvez, sono de-soggettivati. 

 

Durante l’intervista clinica, uno può apparire un bonario signore pacato, l’altro un giovane impetuoso, il terzo ostile e mutacico. Ciò che li accomuna è che loro, dentro l’intervista clinica, non ci sono, al più, come nel caso del signore bonario, c’è la rappresentazione di un falso sé nella maschera di un middle class man inglese. 

Ognuno di loro appare, dalle interviste cliniche, come appendice della causa. La causa è la dimora della loro essenza, fortezza inespugnabile, loro sono solo un principio attivo, così come la miccia è ciò che innesca l’esplosivo.

Di questi argomenti si sono occupati recentemente Gérard Haddad, Hamid Salmi e Åsne Seierstad; quest’ultima ha scritto la biografia del neo-nazista, Anders Breivik; i primi due hanno fatto riflessioni sul fondamentalismo islamista. Di loro ho scritto in doppiozero negli ultimi tempi. 

La più recente ricerca in questo campo è contenuta nel libro di Fethi Benslama: Un furioso desiderio di sacrificio, che conia un neologismo per identificare la forma islamista di questo radicalismo: “supermusulmano”. Haddad, Salmi, Benslama sono clinici, Seierstad è una biografa, ma il suo testo è illuminante per la clinica del radicalismo.

 

Benslama dichiara “di proporre una lettura dell'invenzione dell'islamismo” diversa da quella politologica “attualmente in voga”. Secondo Benslama, l'obiettivo fondamentale dell'islamismo “consiste nella creazione di una potenza ultrareligiosa che si riallacci al sacro arcaico e al dispendio sacrificale, pur avvalendosi della tecnologia moderna”; secondo quanto emerso dal seminario di Milano sul radicalismo, potremmo estendere questa considerazione anche alle altre forme. 

 

Il radicale ha la sensazione di vivere la realtà come un mondo falso, privo di verità. Un mondo in cui ogni fonte d’informazione è imbroglio, senza alcuna fessura o porosità, nello stesso tempo crea continuamente fonti d’informazione ideologica al fine di influenzare gli altri alla propria ideologia. 

La società radicale, alla quale si richiama il militante fondamentalista, sembra un insieme di mondi richiusi su se stessi, ontologicamente separati, zone di conforto più o meno tribali, ma dotate di prodotti globalizzati ad alta tecnologia, pronte a combattersi se entrano in collisione. Un noto militante radicale animalista proclama che un mondo sostenibile non dovrebbe avere più di 50 milioni di esseri umani. Che si dovrebbe fare degli altri oltre 6 miliardi? Che tipo di “soluzione finale” prospetta? Oggi, con i mezzi tecnici che conosciamo, costui non dovrebbe avere i problemi che ebbero Heyrdich e Eichmann a Wannsee. 

 

Invece, secondo il neo-nazista Breivik, il programma dovrebbe deportare tutti gli islamici dall’Europa e sterminare tutti gli europei da lui chiamati “marxisti culturali”. Alcuni militanti antagonisti, a loro volta, pensano che le dichiarazioni di Breivik non siano altro che programmi nascosti dei governi europei ai quali dare battaglia, un po’ come Don Chisciotte dava battaglia ai mulini a vento. Il supermusulmano è prima di tutto contro i suoi fratelli islamici che non praticano la religione in maniera rigorosa. Spesso i fondamentalisti religiosi sono convertiti di recente, ma non credono che il testo sacro possa essere letto in un contesto storico diverso da quello dell’epoca in cui fu scritto, come se il tempo fosse fermo.

Si tratta di modelli deliranti, che derivano dall’esigenza di una coerenza apodittica. La realtà là fuori non esiste, il mondo, per migliorare, deve andare sempre peggio, regredire. Dopo un lungo processo di civilizzazione, di intenerimento dell'animo umano, assistiamo a una regressione e a una fissazione sulla crudeltà, che diventa crudeltà mediatica, senza più traccia di tenerezza, né di rimorso. L'esempio della strage dei bambini ebrei presso la scuola Ozar-Hatorah, perpetrata da Mohammed Merah e da lui filmata con una telecamera fissata alla testa è paradigmatico del connubio tra nuove tecnologie e regressione psicotica. Tuttavia nel pronunciare il suo nome nuovamente, Mohammed Merah, noi lo identifichiamo, lo riconosciamo come soggetto responsabile, produciamo un rimorso, ricordiamo.

 

Il termine “dispendio sacrificale” usato da Benslama fa venire in mente Georges Bataille. Secondo Bataille, il sacrificio umano, presso alcuni mondi, è onore riservato alle dinastie reali, che sono anche divine. Bataille parla dei sacrifici aztechi. La società azteca è il paradossale opposto del moderno soggetto occidentale. 

Difficile da comprendere per noi, perché si tratta di qualcosa di “sovrumano”: nel sacrificio non c'è invidia, né vergogna, il suicidio è potenzialmente inesistente, non c'è neppure quel risentimento che conduce l'uomo all'assassinio, la coscienza è ordine collettivo e la morte rituale pubblico: il sacrificio del re, che è entità divina, è onore

 

Il capro, che viene sacrificato al posto dell’uomo, per salvare l’uomo dalla potenza distruttiva degli dei è astuzia (metis) che salva l’uomo e sacrifica l’animale. Questo scambio dell’uomo con l’animale, per il radicale, è la menzogna contro cui si batte. Come scrissero Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor Adorno (1903-1969) nella Dialettica dell’illuminismo, Ulisse, che si sottrae alla potenza degli dei, salva il “sé”, sottraendolo alla distruzione. In quel momento nasce il soggetto: per sottrazione.

 

I nuovi radicali denunciano questa astuzia, questa sottrazione del sé, intendono entrare nel tutto indistinto. Non c'è più la “mia” coscienza, non c'è più un “io” responsabile davanti alla comunità, a dio, alla società. C'è solo l'ordine collettivo al quale l'individuo è agglutinato, l'individuo, sulla Terra, è mero esemplare del collettivo, il sacrificio è l'unico tratto di distinzione, l'io diventa tale solo nell'altro mondo.

Se così fosse, saremmo di fronte a una “regressione” essenziale: il post-umano come equivalente tecnologico del pre-umano, la fine di quell'era, la più rapida di tutte, l'ultima, definita antropocene, l’era dell’ultimo uomo, che mai verrà sostituito con il superuomo, perché questo pagliaccio umano, saltando sul cavo, produrrà la sua caduta. Forse la poesia di Charlie Chaplin alla fine del Grande dittatore ci salverà.

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