Provvisto di occhi, vai
Recentemente ho visitato la mostra Emilio Vedova. Disegni alla Fondazione Vedova di Venezia.
Su una lunga parete, un inesauribile tappeto di segni, forme, colore: 347 disegni l'uno accanto all'altro senza soluzione di continuità, realizzati in epoche diverse, su diverso supporto, in diverso formato, con diverse tecniche. L'impatto è fortissimo. Germano Celant, curatore di questo ipnotico allestimento, non ha seguito un criterio cronologico o tematico o dimensionale, o qualsiasi altro criterio immediatamente riconoscibile. Lo spettatore è messo di fronte a una superficie dinamica, traboccante, complicata, difficile da leggere e da dominare da cui lo sguardo è rapito, ma fatica a trovare modalità di lettura. All'ingresso della mostra è disponibile un pieghevole che riporta la mappa dei disegni, ognuno numerato, di cui una legenda riporta titolo, data, dimensione, tecnica.
Dato che l'occhio per sue logiche interne rimane colpito da alcuni disegni facendoli emergere dal magma, è inevitabile andare a cercare sulla mappa il pezzo desiderato. In quel momento si capisce che leggere la mappa è ancora più difficile che leggere la superficie cangiante dei disegni, perché trovare all'interno della logica del tappeto la posizione esatta di un frammento costringe a un grado di osservazione e calcolo faticoso. E, quando ci si riesce, il più delle volte la risposta è deludente e monocorde: la maggior parte dei disegni è Senza titolo ed è tecnica mista su carta. In sostanza, quello che le parole hanno da dire sulle singole parti di quella che il curatore ha delineato come un'unica opera creatasi nel tempo per stratificazione, non è di nessun aiuto nel qualificare l'esperienza di chi osserva. O meglio: le parole sono di aiuto nel dar conto della propria inutilità. In questo modo l'osservatore è lasciato a se stesso e alla propria capacità di stare davanti a un'immagine. In pratica è lasciato dichiaratamente solo di fronte alla sostanza dell'esperienza estetica.
Negli ultimi anni, alcuni musei ed esposizioni hanno optato per questo approccio che definirei “traumatico”, inducendo i visitatori, attraverso la sottrazione di parole e informazioni, a una riflessione personale sul vedere, sull'arte e sul suo ruolo, sul compito dell'osservatore. Mi viene in mente in particolare La magnifica ossessione, esposizione del 2013, curata da Cristiana Collu, al Mart di Rovereto, per celebrare i primi dieci anni di vita del museo, aprendo le sue collezioni al pubblico. Il criterio espositivo di Collu accorpava nelle sale opere di ambito tematico simile, ma non ordinate cronologicamente o con qualsiasi altro criterio tradizionale, e lasciate prive di didascalie. Così, trovandosi di fronte a una sala di gessi o a una parete di ritratti o manifesti o fotografie o disegni architettonici privi, tutti, di indicazioni facilmente reperibili (le dida erano fruibili non in prossimità dell'opera, ma su un supporto cartaceo a parte) l'osservatore era chiamato a un compito interpretativo radicale, che prevede la messa in moto di risorse personali di immaginazione, capacità di associazione e intuizione, linguaggio, memoria, cultura in grado di supportarlo nel precario e sfuggente compito di decodificare e ricercare un senso.
Insieme a Vedova e alla Magnifica ossessione, mi è tornato in mente l'Atlante delle immagini o Mnemosyne di Aby Warburg, del 1928, opera tardiva e incompiuta, nata per filiazione dagli studi di quello che fu uno degli iniziatori dell'iconologia e dalla biblioteca che fu l'atto di nascita del Warburg Institute con cui collaborarono studiosi come Gombrich, Panofsky, Yates, Wind, Momigliano. Warburg immaginava questa grande pubblicazione come una lunga collezione-sequenza di immagini organizzate secondo criteri interni – associazioni tematiche, formali, simboliche –, da leggere senza supporto di testi, attraverso l'osservazione, il confronto e la comparazione, per riconoscere l'emergere e l'evolvere di forme, figure, espressioni, motivi, gesti archetipici e ricorrenti nel corso della storia delle culture umane.
In tutti e tre questi casi vi è la scelta consapevole di escludere la parola per consentire un contatto più profondo e meno passivo con l'immagine, promuovendo una lettura che solleciti la capacità di attenzione e osservazione e mobiliti tutte le risorse immaginative del soggetto. Mi viene in mente a questo proposito ciò che Neil McGregor, direttore del British Museum, scrive in Storia del mondo in 100 oggetti (Adelphi 2012), nell'introduzione, a proposito dell'interpretazione di manufatti artistici di diverse culture: «Per comprendere gli altri serve uno sforzo titanico di immaginazione poetica combinata a una rigorosa conoscenza.» In tutti e tre i casi la scelta di escludere i codici verbali o di metterne in luce la fondamentale parzialità o addirittura inutilità ai fini dell'esperienza visiva, evidenzia un ambito in cui l'immagine sta sola davanti all'osservatore e lo interroga. Si appella a lui irriducibilmente attraverso i suoi codici, dichiarandosi autonoma dalla parola, anzi ostacolata dalla sua presenza.
Che esperienza è, dunque, quella che si fa con l'immagine? Un'esperienza estetica, ovvero una situazione in cui sperimentiamo significati attraverso la percezione di segni, forme, colori, figure, composizioni, sequenze. Dunque li sperimentiamo attraverso i codici delle immagini, sebbene siamo abituati ad attribuire questi ultimi al dominio della parola, e benché ci troviamo in un contesto storico, sociale e culturale in cui le immagini hanno un peso enorme nella comunicazione e produzione culturale globale.
Una fra le maggiori studiose francesi di libri illustrati, Sophie van der Linden, nell'articolo E se il senso avesse un senso?,uscito sulla rivista trimestrale Hors Cadres. Observatoire de l'album et des littératures graphique, nel terzo numero del 2009, interamente dedicato agli albi senza parole per bambini, mette in luce il problema della diffusione dell'aniconismo o analfabetismo relativo alla lettura delle immagini: «Nella letteratura per ragazzi, gli album senza testo sono stati concepiti in un prospettiva pedagogica. In questi album il testo appare come mancante: l'impresa dei piccoli lettori è quella di far risorgere la parola sottratta. Di fatto si offrono a coloro che non sanno ancora leggere. Di fatto, ma anche per volontà, perché la maggior parte degli album senza testo nascono dall'idea comunemente ammessa che, se un bambino non sa leggere un testo, agevolmente leggerà un'immagine.
Questo presupposto (non lettore di testo=lettore di immagini) poggia su una falsa evidenza. Perché una storia, per parole e/o immagini, quello di cui ha bisogno è un lettore. Ci sono analfabeti di tutte le età. E anche aniconici di tutte le età. Ne ho incontrati a decine nella mia carriera di formatrice. Si può essere insegnanti o bibliotecari, avere più di vent'anni di esperienza e non sapere leggere un album senza testo. Leggere nel senso primo di decifrare, della denotazione. Questo non è vergognoso se si considera che l'album senza testo si rifà a una padronanza di codici di grande sottigliezza. E si comprenderà che l'album senza parole, esattamente come un racconto, non tollera una moltiplicazione arbitraria di significati. Un libro senza parole non è un libro in cui si possa inventare la storia a piacere e a cui si possano affibbiare infinite interpretazioni.»
In tutte le epoche, il linguaggio delle immagini è stato strategico, e oggi non è diverso. Nel Rinascimento erano i papi e i principi a stabilire, insieme agli artisti, i programmi iconografici di quadri e affreschi, ossia i significati politici, spirituali, storici, letterari di cui questi erano intessuti. Ugualmente oggi le aziende fanno enormi investimenti in comunicazione, per costruire le immagini adeguate al mercato e ai loro prodotti. Ma pensiamo anche al valore che le immagini hanno in tutti i campi della comunicazione: dalla segnaletica stradale, ai libretti delle istruzioni di migliaia di prodotti tecnologici, all'informazione, che sia veicolata in rete, attraverso giornali, tv, siti, blog, social network, ai manuali tecnici e scientifici, ai manifesti politici. Le immagini hanno un'efficacia immensa. L’illustratore Saul Steinberg affermava che: “Disegnare è un modo di ragionare”. E sappiamo quale inimitabile strumento di indagine e studio fosse per Leonardo il disegno, in grado di sondare tutti i campi del sapere umano – pittura, scultura, architettura, anatomia, ingegneria, idraulica.
Non conoscendo latino e grammatica, Leonardo aveva difficoltà con la parola scritta, che gli era ostica; così per riflettere sulle cose, disegnava. Italo Calvino nel capitolo Esattezza di Lezioni americane riporta una frase che Leonardo scrisse su uno dei suoi quaderni di anatomia: «O scrittore, con quali lettere scriverai tu con tal perfezione la intera figurazione qual fa qui il disegno?». Parole che mettono in luce l'irriducibilità dell'immagine rispetto alla parola.
Saper leggere, decodificare le immagini, quindi è sempre stata una competenza fondamentale.
Allora come interpretare l'aniconismo di cui parla van der Linden, fenomeno vistoso per chiunque si occupi di libri illustrati e particolarmente di quelli senza parole, ovunque e da sempre guardati con diffidenza in ambito scolastico ed educativo? (Basti dire che un editore quando presenta a partner stranieri un progetto di libro illustrato senza parole spesso si sente chiedere di aggiungere qualche riga di testo in funzione della vendibilità). L'impressione è che sia conseguenza di un discorso critico (in particolare in ambito pedagogico), che da un certo momento in poi, e fino a tempi recenti, ha perso la capacità di considerare forme e contenuti come parte dello stesso processo di trasmissione della cultura e del sapere, attribuendo alla parola un primato sull'immagine, identificandola con il principale veicolo di senso. Errore clamoroso, anche perché in questo modo si consegnano le immagini al dominio degli specialisti, creando una frattura pericolosa fra chi le crea in modo mirato e chi le fruisce, senza consapevolezza.
Nel 2005, mentre stavo preparando un corso sul rapporto fra parola e immagine nei libri illustrati per l'Accademia Drosselmeier di Bologna, corso che è durato fino al 2009, decisi di inserire nel programma una lezione sui libri illustrati senza parole. In quel periodo in Italia questo tipi di libri non era molto diffuso e anche la letteratura critica in merito latitava. Perciò per studiare l'argomento mi rivolsi in particolare alla produzione libraria francese e americana, dove questi libri erano era più diffusi. Mi chiesi per cominciare come le letterature straniere denominassero questa tipologia di libro: i francesi, album sans texte; gli anglosassoni, wordless book. Però poi rovistando in rete trovai il sito di un artista americano (del quale poi purtroppo smarrii il riferimento) che per la sua produzione di libri di sole immagini usava il termine silent book. Quel nome mi piacque subito molto. L'autonomia silenziosa e pensierosa con cui i bambini stanno soli di fronte alle immagini mi parve premiata da questo nome che adottai e proposi nel corso delle lezioni. Lo utilizzai anche nel catalogo 2006 della casa editrice Topipittori, per spiegare il nostro primo libro senza parole, Chiuso per ferie, illustrato da Maja Celija su mia sceneggiatura, storia di una appartamento estivo rimasto vuoto in cui i personaggi delle foto di famiglia prendono vita: «Nella lingua inglese, i libri illustrati senza parole si chiamano silent books. Una definizione molto adatta per questo tipo di libri che fanno della lettura un’esperienza speciale. Secondo il filosofo berlinese Walter Benjamin, nei libri illustrati l’immagine evoca nel bambino la parola. In questi libri, infatti, l’attenta osservazione della sequenza visiva, vera e propria esperienza conoscitiva, costruisce il racconto. È il lettore, attraverso quel processo silenzioso, interiore e personalissimo che è la lettura, a pronunciare dentro di sé le parole della storia, e quindi a determinarne il corso e il senso.»
Nello scrivere questo testo avevo ben presente anche quanto scrive Italo Calvino nella quarta lezione americana, Visibilità, quando racconta della delusione cocente quando, abituato a leggere da piccolissimo e analfabeta, i cartoon americani pubblicati dal Corriere dei Piccoli negli anni Venti, una volta imparato a leggere scoprì che le didascalie mal tradotte erano meno interessanti del suo “fantasticare dentro le figure”. E conclude: «Questa abitudine ha portato certamente un ritardo nella mia capacità di concentrarmi sulla parola scritta (l'attenzione necessaria per la lettura l'ho ottenuta solo più tardi e con sforzo), ma la lettura delle figure senza parole è stata certo per me una scuola di fabulazione, stilizzazione e composizione dell'immagine.»
In realtà la definizione silent book è scorretta: nessuno, l'ho scoperto dopo, in area anglosassone la usa per indicare i libri senza parole per i bambini. Inoltre, come mi si fece notare nell'articolo I silent book uscito nell'ultimo numero del 2006 della rivista Il pepe verde: «nella nostra esperienza di laboratori abbiamo verificato che incontrando questi libri tutto può succedere tranne che [i bambini] stiano zitti!» Vero, ma tuttavia da quel momento, almeno in Italia, il nome ebbe una certa fortuna, cosa di cui mi assumo integralmente la responsabilità.
In realtà, a farmi cadere in errore fu anche un illustre precedente: il Mutus Liber, cioè Libro muto, testo cardinale dell'alchimia di un misterioso autore, Altus, pubblicato nel 1677 a La Rochelle dal tipografo Pierre Savourette, che mi fu fatto conoscere, mentre stavo studiando questi temi, da mio marito Paolo Canton, collezionista e bibliofilo. Per analogia con il nome silent book, il titolo Mutus Liber mi colpì parecchio, e ancora di più mi colpì il fatto che gli alchimisti offrissero agli iniziati un libro che li guidasse ai misteri dell’Opus e della filosofia ermetica, deliberatamente senza parole, solo dotato di figuris hieroglyphicis, cioè figure geroglifiche. Con ciò li si invitava esplicitamente ad accedere alla conoscenza attraverso la purezza della sola intuizione. Cito da Wikipedia: «La caratteristica originale di questa pubblicazione, che affida l'esposizione dei principi della grande opera al simbolismo di 15 tavole, è la quasi totale assenza di ogni testo di accompagnamento. Fanno eccezione il frontespizio latino […], un brevissimo Au lecteur (al lettore) in lingua francese interposto tra frontespizio e la seconda tavola, il motto latino Ora, Lege, Lege, Lege, Relege, Labora et Invenies ovvero Prega, leggi, leggi, leggi, rileggi, lavora e troverai, che accompagna la tavola 14, e il motto Oculatus Abis (provvisto di occhi, vai) che si legge nell'ultima tavola.»
Come scrive lo studioso di esoterismo Andrea De Pascalis: «Gli alchimisti ci hanno lasciato molte migliaia di libri. È evidente che essi amavano scrivere e desideravano essere letti, ma preferivano non essere capiti. Questo perché l'alchimia è Arte Sacra, è il Segreto dei Segreti, e come tale va protetta dai curiosi, dagli indegni, dai non iniziati.»
Provvisto di occhi, vai è una indicazione perfetta anche per un altro libro che portai a quelle lezioni: il Codex Seraphinianus, altra opera che conobbi grazie a Paolo nell'edizione extralusso di Franco Maria Ricci edita nel 1983 (esiste fortunatamente un'edizione per tutti di Rizzoli): un compendio di un mondo alieno in 400 pagine che conserva la classica partitura dei trattati antichi, dalle scienze della natura a quelle dell'uomo, attraverso la seduzione di immagini ispirate alle miniature e alle antiche illustrazioni scientifiche in compagnia di una scrittura immaginaria e indecifrabile rigorosamente impaginata in titoli, capitoli, paragrafi, elenchi del tutto incomprensibili. Una operazione di grande sottigliezza e ironia con cui Luigi Serafini, architetto, pittore, scenografo, ceramista, illustratore, costumista, trasforma il lettore in “nuovo analfabeta”, inducendolo a passare senza interruzione dall'immagine al testo (in cui ogni tanto galleggia una parola leggibile) per frustrarne incessantemente le necessità verbali, essendo qui la parola più misteriosa e inaccessibile dell'immagine. Che sia così, in effetti, sempre? viene il dubbio alle prese con il Codex. Siamo certi di conoscere davvero il senso delle parole? O è la nostra passività di lettori che ce lo fa credere? Il senso dei libri silenziosi, muti o senza parole potrebbe apparire dunque questo: risvegliarci al senso attraverso la pratica rigorosa e autonoma dell'attenzione. In questo senso è emblematica l'attrazione che questo artista esercitò sul quanto mai visivo Palomar-Italo Calvino che per la sua raccolta di saggi Collezione di sabbia volle in copertina proprio uno dei meravigliosi occhi-pesce che nuotano nel Codex.
Nei silent book destinati ai bambini, nella gran parte dei casi, delle parole non rimane traccia. O meglio, di esse sopravvivono per lo più solo il titolo e i nomi degli autori. La collana Sans paroles di Autrement Jeunesse (della quale qualche volume è stato pubblicato in Italia da Terre di Mezzo) fu però talmente radicale da aver pubblicato copertine mute. Titoli deliziosi sono Mon lion di Mandana Sadat, Le voleur de poule di Béatrice Rodriguez ed Edmond di Juliette Binet. È, quest'ultima, un'autrice che ama sviluppare questa silenziosa forma di espressione in storie enigmatiche su temi come la maschera (Edmond), il doppio (La vie de Jonas e Le rêve de Jonas, editi in cofanetto da Gallimard) e l'ombra (L'ombre de Igor, sempre Autrement). Sul tema del sogno e di una beata, avventurosa solitudine Marie Caudry e Gauthier David propongono la memorabile Balade de Max, edita da Albin Michel, che tutte le parole raduna in una incantevole pagina di diario posta a inizio libro per affidare il resto della vicenda alle sole immagini. In Le jeu de l'oie (Autrement), Marie Saarbach usa la struttura del celebre gioco per raccontare una trascinante storia iniziatica in cui le parole corrispondono ai nomi presenti in ogni casella (che ricordano anche i nomi delle carte dei tarocchi). È dunque interessante notare che la composizione di un silent book può prevedere l'ingresso di parole, ma sempre con il contagocce e utilizzate nella relazione con l'immagine in modo tale da renderla del tutto autonoma, o meglio, acuendone e sottolineandone la vertiginosa polisemia.
L'editoria francese edita poi bellissimi imagier, ovvero libri di sole immagini (fotografie, illustrazioni eccetera) per piccoli: sorta di cataloghi tematici, lunghe sequenze visive in cui il bambino è chiamato a immaginare, scoprire e trovare i nessi fra una figura e l'altra, procedendo alla conoscenza e al riconoscimento delle cose e dei fenomeni nel loro multiforme manifestarsi. In questo senso rimangono esemplari i volumi di Katy Couprie e Antonin Louchard editi da Editions Thierry Magnier: Au jardin, À table, Tout un monde. Una collana di deliziosi imagier affidati ognuno a un illustratore importante è Les imagiers edita dalla ginevrina La Joie de lire e affidata a calibri come Albertine, Chiara Carrer o Haydé. In area tedesca, Gerstenberg ha pubblicato i quattro grandi e magnifici albi che Susanne Rotraut Berner, premio Astrid Lindgren Memorial Award 2016, ha dedicato al passare delle stagioni in un medesimo luogo, inducendo i piccoli lettori non solo a confrontare attentamente le pagine del libro per seguire i cambiamenti del paesaggio nel tempo, ma anche le pagine dei quattro libri fra loro. Una fuoriclasse dei libri senza parole è poi la coreana Suzy Lee, edita in Italia da Corraini: L'onda, Mirror e Ombra, sono tre imperdibili storie silenziose la cui nascita e genesi è magistralmente spiegata nel saggio La trilogia del limite.
La produzione anglosassone di wordless book, prevalentemente americana, concepisce questi libri in modo diverso dall'editoria europea, decisamente più orientata alla sperimentazione. I libri senza parole anglosassoni si concentrano su una modalità narrativa più tradizionale e riconoscibile, legata alla struttura del racconto per ragazzi – un inizio, un protagonista, una fine, una serie di prove da superare, una sequenza di eventi avventurosi – oltre che fortemente influenzata dai linguaggi cinematografici. Un caso esemplare in questo senso è quello di David Wiesner (alcuni dei suoi libri sono pubblicati in Italia da Orecchio Acerbo), autore di quasi ossessivo perfezionismo, nonché vincitore compulsivo di Caldecott Medal e Honor, ovvero i più prestigiosi riconoscimenti americani per la letteratura illustrata per ragazzi. Fra i suoi libri meravigliosamente narrati per immagini con precisione, logica e regia impeccabili, riconoscibili per le atmosfere surreali e visionarie, vi sono Tuesday, Flotsam, Sector 7, Mr. Wuffle. Autore di successo stellare è anche Raymond Briggs, autore di The snowman (Il pupazzo di neve, in Italia per Edizioni EL), dalla cui anima profondamente cinematografica è nato un celebre lungometraggio animato, proiettatissimo a ogni Natale.
Altro maestro del genere è l'australiano Shaun Tan, il cui straordinario The arrival (L'approdo, oggi edito da Tunué), vincitore di una montagna di importanti premi, racconta la storia di un emigrato alle prese con una cultura e un'organizzazione sociale di cui non conosce le regole, i significati e la lingua. Fortemente autobiografico, dato che Tan viene da una famiglia di origine cinese ed è stato immigrato a sua volta, il libro è nato dalla volontà di raccontare la vicenda di un uomo che, costretto da condizioni politiche ed economiche avverse, lascia la moglie e la figlia per affrontare un lungo viaggio verso una terra sconosciuta in cerca di futuro. Per realizzarlo Tan ha studiato a lungo i documenti fotografici dell'archivio di Ellis Island, cercando di costruire l'immaginario di un migrante che da un angolo sperduto di mondo arrivi improvvisamente in una complessa e incomprensibile megalopoli. Tan spiega che la scelta di eliminare le parole dalla storia si delineò man mano che procedeva nello studio dei documenti, quando comprese che l'assenza di testo avrebbe messo il lettore nelle medesime condizioni del protagonista, costretto a osservare senza chiavi di lettura, le immagini di una città, di una cultura, di una scrittura illeggibili e aliene.
In Italia la produzione di libri senza parole è stata a lungo disertata, dopo una certa fortuna fra gli anni Settanta e Ottanta, dovuta a Emme Edizioni la cui fondatrice, Rosellina Archinto, ne intuì le grandi potenzialità educative. Nel suo catalogo infatti hanno trovato casa silent book diventati poi classici fra i quali Il palloncino rosso, L'uovo e la gallina, Mangia che ti mangio, La mela e la farfalla, L'albero di Iela Mari. O autori come Luigi Puricelli ed Ermanno Cristini con i loro “documentari in forma di albo illustrato” (come li definisce Ilaria Tontardini in Senza parole: il respiro delle immagini, in La casa delle meraviglie. La Emme edizioni di Rosellina Archinto, a cura di Loredana Farina, Topipittori): Il papavero e Il ragno e la sua tela. Ma anche mirabili atlanti storici e geografici come quelli di Mitsumasa Anno: Bric à brac e Il viaggio incantato.
Dopo questa parentesi, un lungo silenzio. Basti dire che nel 2005, quando pubblicammo Chiuso per ferie, il libro ricevette una stroncatura su Sfoglialibro, il supplemento di Biblioteche Oggi dedicato alle biblioteche per ragazzi e scolastiche italiane, in cui si sottolineò come l'editore avesse voluto “risparmiare sui testi” e ci si indignò per l'avviso posto a inizio libro: «Confidando nell'acume dei suoi piccoli lettori, l’autore non ha ritenuto necessario tradurre in parole questa storia, affidata al solo potere delle immagini. Nel caso i genitori dei lettori incontrino difficoltà di comprensione, suggerisce senz’altro ai bambini di raccontare loro, pagina per pagina, i fatti straordinari che vi accadono.» Un invito ironico alla collaborazione fra generazioni che fu letto come una diminuzione del ruolo di educatori degli adulti.
L'editore Lapis una decina di anni fa inaugurò I senza parole, una collana «per consentire a tutti i bambini di leggere prima di “saper leggere”, utilizzando un strumento magico: la fantasia!». E qui torniamo alle parole di Sophie van der Linden e al suo dubbio circa la leggibilità universale delle immagini, e alla sua riflessione che in realtà per accedere alla lettura delle immagini sia necessario essere in possesso di codici raffinati.
Potremmo allora, per cercare di ricomporre la questione, riflettere sulla definizione di Gregorio Magno che riteneva le immagini “il libro degli illetterati”, aprendo a distinguo importanti. In questa accezione l'immagine può essere considerata non come succedaneo per analfabeti della parola, ma piuttosto come un linguaggio, un codice vero e proprio, atto a esprimere, raccontare, comprendere. E non per analfabeti: ma per illetterati, vale a dire persone che, in quanto prive di lettere, non vengono ritenute prive tout court della possibilità e capacità di leggere: una distinzione sottile, ma determinante che andrebbe sempre tenuta presente, per non ricorrere a etichette facili, ma dalle conseguenze nefaste. Per esempio, che ci siano letture più o meno importanti sulla base dei codici in cui sono formulate, laddove invece non è importante stabilirne la gerarchia, quanto piuttosto interessante osservarne differenze e specificità. È sufficiente mettere davanti ai propri occhi una pagina scritta in un alfabeto o in una lingua che non si conosce, per capire immediatamente che la condizione di illetterati ci riguarda tutti. Allora ben vengano i libri senza parole, a ricordarci i limiti del nostro linguaggio e del nostro mondo.
Nota: I titoli di silent book che ho citati sono solo un'esigua minoranza rispetto alla produzione editoriale nel mondo e nel nostro paese. Qualora foste interessati all'argomento, il consiglio è di fare riferimento al grande archivio di libri senza parole aperto dal 2102 presso Scaffale d'Arte, al Palazzo delle Esposizioni di Roma. L'apertura di tale archivio è legata alla mostra biennale, Libri senza parole. Destinazione Lampedusa e a un progetto di biblioteca per bambini e ragazzi italiani e migranti nell'isola di Lampedusa. Tutti e tre i progetti sono a cura di IBBY, International Board on Books for Young People, la più importanza organizzazione internazionale di promozione della lettura, fondata nel 1952 da Jella Lepman, fondatrice anche della Internationale Jugendbibliothek di Monaco, una delle più ricche biblioteche per bambini del mondo, e del Premio Hans Christian Andersen, considerato il Nobel della letteratura per ragazzi. I libri per l'archivio, la mostra e la biblioteca sono stati donati a Ibby dagli editori di oltre 23 Paesi di tutti i continenti. La mostra finora ha avuto due edizioni e ha toccato diverse città, in Italia e nel mondo. Se desiderate informazioni, le trovate qui.