Lawrence Wright / Texas, viaggio nell’America che verrà
Buona o cattiva che sia, tutti hanno un’opinione sul Texas. È uno di quegli argomenti capaci di scatenare una rissa, in America come oltreoceano. I liberal lo detestano, i conservatori lo adorano. Quanto ai texani, sono certi di essere i migliori. Se sognate la California, il Texas è il vostro incubo e Trump il suo profeta. Eppure – piaccia o no – il futuro degli Stati Uniti passa da qui. Non solo dal punto di vista strettamente politico.
Il nuovo libro di Lawrence Wright, Dio salvi il Texas, da poco in italiano per NR edizioni (trad. Paola Peduzzi, 284 pp.), ci conduce proprio qui – nel cuore del più grande e discusso stato repubblicano d’America – in un viaggio che fra memoir, saggio e inchiesta s’inoltra nei dibattiti più roventi del nostro tempo: dal petrolio al muro con il Messico.
Giornalista per il New Yorker, drammaturgo, sceneggiatore e già Pulitzer per Le altissime torri, magistrale saggio su Al Qaeda, Wright ha trascorso in Texas gran parte della sua vita e all’occhio del reporter unisce la sensibilità e l’ironia affettuosa di chi è di casa.
“Ho imparato ad apprezzare ciò che lo stato rappresenta, sia per chi ci abita, sia per chi ci osserva da fuori”, scrive. “I texani si considerano dei gran lavoratori, fiduciosi, immuni alle nevrosi – un distillato delle migliori qualità d’America. Gli stranieri considerano invece il Texas la carta d’identità nazionale, il luogo in cui si scatenano gli impulsi nascosti e turbolenti degli americani”.
Per dare un volto e un nome a questi impulsi, non serve molta fantasia. Dall’individualismo sfrenato all’ossessione per il potere e il prestigio, i valori di solito associati al Texas s’incarnano in “un miliardario narcisista di Manhattan che ora sta seduto nello Studio Ovale”. È un paradosso che strappa il sorriso e se fosse tutto qui non ci sarebbe molto da aggiungere.
Basta però spingersi oltre la facciata, per cogliere l’impeto di un cambiamento epocale in atto. Il Texas cresce a ritmi stupefacenti. La California, sua antitesi politica, è ancora lo stato più popoloso. Ma entro il 2050 i texani raddoppieranno, toccando i 54 milioni e mezzo – la somma degli abitanti di California e New York. Tre città del Texas, Houston, Dallas e San Antonio sono già fra le prime dieci città più grandi degli Stati Uniti; l’undicesima è la capitale, Austin. Nel giro di un decennio Houston e Dallas-Forth Worth si attesteranno ciascuna sui nove milioni di abitanti (a New York, per dare il senso delle dimensioni, sono otto).
Questo colosso non è un monolite. Benché non elegga un democratico da vent’anni il Texas, che ha dato all’America tre presidenti, è politicamente diviso come il resto del Paese. Il potere è in mano ai conservatori più accesi, il dibattito partigiano e talvolta ai limiti del grottesco. L’attenzione al sociale di Lyndon Johnson e l’approccio moderato di George H.W. e George W. Bush – che Wright a tratti sembra rimpiangere – appartengono al passato.
Come a Washington, i repubblicani sono però spaccati fra chi insegue i puri interessi dell’economia, quell’intolleranza alle restrizioni di cui il Texas è modello, e i fautori di un’agenda “culturale” che si accanisce contro l’aborto, l’immigrazione e i diritti Lgbt (tristemente celebre, nel 2017, la battaglia sull’accesso ai bagni dei transgender).
Intanto, la popolazione cambia in direzione opposta. Il Texas è lo stato dove la comunità ispanica e latina cresce con maggiore rapidità. A San Antonio è già la maggioranza. Da qui l’affondo repubblicano contro gli immigrati, la stretta al confine e l’insistenza sul muro. Dall’osservatorio del Texas il confine appare assai meno minaccioso di come lo dipingono a Washingon: è una realtà con cui, nel bene o nel male, si convive da sempre. Lo sviluppo demografico dello stato adombra però un futuro che per molti somiglia all’apocalisse.
In queste turbolenze, traballa la mitologia consacrata da tanto cinema e letteratura – il cowboy, il pioniere, il petroliere. Lo stereotipo del texano, stivali, Stetson calcato in testa e pick up rombante, regge anche se spesso è solo una messinscena. Ma nuovi miti si impongono – “gli hipster, i guru informatici, i musicisti, i magnati dei videogiochi e gli artisti che hanno rimodellato l’immagine dello stato e il modo in cui noi stessi ci consideriamo”. Se il petrolio rimane fonte invidiabile di ricchezza, le esportazioni di tecnologia ormai superano quelle californiane.
È un Texas, quest’ultimo, più sottile ed elusivo di quello tradizionale. A differenza dello stivale e del cappellaccio, “non può essere appiccicato su una tazza o su un paraurti”, nota Wright. Non ancora, per lo meno. I texani hanno il business nel sangue e qualcosa prima o poi s’inventeranno.
È il crogiolo di queste contraddizioni a fare dello stato una cartina di tornasole. “Poiché il Texas è una parte di quasi tutto quel che è l’America moderna – il sud, l’ovest, le pianure, le comunità ispaniche e immigrate, il confine, la divisione tra le aree rurali e le città – ciò che accade qui tende a influenzare in modo sproporzionato il resto della nazione. L’Illinois e il New Jersey saranno pure più corrotti, il Kansas e la Louisiana saranno pure più disfunzionali, ma non hanno la responsabilità del Texas, che è quella di incarnare il futuro”.
Vado spesso in Texas e i suoi immensi contrasti non smettono di stupirmi. Il Lone Star State è meno rurale di quel che si pensa. A est il boom del petrolio negli anni Trenta ha lasciato una scia di cittadine fantasma – Tyler, Longview e Kilgore, dove ai tempi d’oro in un solo quartiere c’erano 44 pozzi.
I bei palazzi lungo le Main street sono stati abbandonati e l’unico business è la nostalgia: polverosi negozi di antiques, general store da cartolina aperti solo nel weekend, bed and breakfast al sapore del tempo che fu. Lo scrittore Joe Lansdale (La trilogia del Drive in, La sottile linea scura) è nato da queste parti, a Gladewater. Tracce di quell’infanzia attraversano desolate gran parte della sua opera.
A qualche ora di macchina, lo scenario si ribalta. Le immense fortune del petrolio hanno trasformato Dallas e Houston in metropoli di musei e teatri, shopping e ristoranti. Il traffico è frenetico e la forbice tra ricchi e poveri estrema ma è una boccata d’ossigeno dopo l’austerità della Louisiana, dove vivo. In Texas il fermento è nell’aria.
Quanto a Austin, vent’anni fa una cittadina universitaria, è ormai avviata a diventare la nuova Silicon Valley. Google, Amazon e Facebook hanno già messo radici e altri sono in arrivo. È il paradiso degli hipster, un’oasi democratica dove la scena musicale è fiammeggiante e i magnifici parchi sempre pieni di gente. Qui hanno preso casa i registi Richard Linklater, Terrence Malick, l’attore Matthew Mc Conaughey e lo stesso Wright (per la cronaca, la regina Beyoncé è di Houston).
Più a sud, San Antonio custodisce i miti della nascita del Texas – Fort Alamo e Davy Crockett, l’epopea dell’indipendenza e le missioni spagnole che scandirono la drammatica evangelizzazione di queste terre. Non per caso il viaggio di Wright prende il via proprio da qui. San Antonio simboleggia la Storia e al tempo stesso ci mostra il volto dell’America che verrà.
Multirazziale e multilingue – la più grande comunità musulmana del paese è proprio in Texas. Un mosaico di identità, tradizioni e appartenenze: l’opposto della Trumpland che ha trionfato alle ultime presidenziali. Il sogno dei democratici è che gli ispanici del Texas si presentino in massa al voto come fanno in California. Quel giorno il Lone Star State potrebbe diventare blu.
Le città, fra le più internazionali d’America, spingono nella medesima direzione. E così l’afflusso nei suburbi di nuovi immigrati, portatori di culture diverse da quella repubblicana. Il Texas, sostiene Wright, è già di fatto uno stato democratico. Peccato che non vada a votare. L’affluenza alle urne è fra le più basse del paese; l’elettore medio bianco, in età, agiato: il profilo tipico del repubblicano. Lo stato finisce dunque per spostarsi sempre più a destra e con lui il resto del paese.
Il risultato è un’ipoteca pesante sugli anni a venire. A furia di guardare indietro – a un passato in cui le minoranze erano prive di potere, la scienza taceva e l’aborto era tabù come i diritti Lgbt – il Texas rischia di presentarsi all’appuntamento con il futuro a mani vuote.
L’immensa ricchezza generata dall’industria petrolifera non si è tradotta in investimenti per la popolazione e lo sviluppo. Lo stato è in fondo alle classifiche federali in termini di spesa per l’istruzione e risultati accademici. Poiché un bambino su dieci negli Stati Uniti è texano, il fallimento finirà per ripercuotersi a livello nazionale.
Non va meglio con le infrastrutture. Il Texas spende poco per strade, dighe, oleodotti, parchi, ferrovie, sistemi energetici, smaltimento rifiuti e acqua potabile. “Per uno stato che in trent’anni raddoppierà la popolazione, non c’è stata alcuna preparazione. Di tutta la baldanza che i texani mostrano, c’è invece una grande timidezza davanti alle sfide del futuro”, conclude Wright.
“Il Texas non è il solo ad attaccare la diversity né l’unico determinato a stravolgere la nostra vita quotidiana, ma senza un’istruzione di alta qualità e infrastrutture modernizzate le industrie del futuro sceglieranno altri stati in cui svilupparsi. Il rifiuto di affrontare queste sfide a me pare non soltanto imprudente ma anche molto un-texan, non texano”.
Dio salvi il Texas non offre facili ricette né slogan d’effetto. Wright intercetta la pancia del paese nelle sue contraddizioni, sogni e frustrazioni. Spazzati via i pregiudizi delle élite e i luoghi comuni sull’eccezionalità dello stato, finiamo per ritrovarci al crocevia fra presente e futuro. E dove andrà il Lone Star State, andrà l’America. Il Texas, per dirla con John Steinbeck, è uno stato d’animo.