Ando Gilardi. Wanted!

8 Marzo 2012

È morto Ando Gilardi uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, autore di libri davvero straordinari, fotografo lui stesso, direttore di riviste, giornalista, fotoreporter, e altro ancora; oltre che fondatore della Fototeca storica nazionale.

 

I suoi libri sono stati riediti negli anni da Bruno Mondadori, l’ultimo ha come titolo Meglio ladro che fotografo (2007). Michele Smargiassi ne ha tracciato un bel profilo su La Repubblica di lunedì 6 marzo, e lo ricorda nel suo blog; lo voglio qui ricordare con un pezzo scaturito dalla riedizione di Wanted! Storia, tecnica ed estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria uscito nel 2003 (Bruno Mondadori, Milano, pp. 210).

 

 


Il viaggiatore che entra nel territorio degli Stati Uniti, munito di regolare passaporto e visto d’ingresso, deve sottoporsi a una doppia pratica: posare le dita della mano su uno scanner elettronico che registra rapidamente le impronte, mentre un’altra macchina, anch’essa digitale, ritiene istantaneamente l’immagine del viso e probabilmente anche quella della sua iride. In questo modo presso la polizia federale americana si costituirà in breve tempo un gigantesco archivio visivo destinato a superare ogni precedente raccolta di foto segnaletiche del passato. Una misura preventiva contro il terrorismo, ma anche un sistema per schedare, senza che abbiano commesso alcun reato, un numero altissimo di persone. Oggi, grazie alle moderne tecnologie, quattro milioni di schede segnaletiche digitali, realizzate da un corpo di polizia qualsiasi, possono trovare posto nel cassetto di una semplice scrivania.Viviamo in una società in cui, come aveva previsto Andy Warhol, stampando l’avviso segnaletico per una delle sue prime mostre, ciascuno può diventare il protagonista di un “Wanted!” affisso nella bacheca di un museo invece che in quella di una stazione di polizia, o viceversa.

 

Alla fine degli anni Settanta, Ando Gilardi, uno dei più curiosi e inclassificabili studiosi di fotografia, aveva edito presso l’editore Mazzotta un libro con questo titolo, Wanted!, primo volume di una serie promessa intitolata “Sillabari della fotografia”. Era un volume eccentrico dal sottotitolo programmatico: “Storia, tecnica e estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria”.

L’autore segnalava con forza l’esistenza di un rimosso nelle origini stesse della fotografia: l’uso poliziesco e giudiziario. La fotografia, inventata all’inizio dell’Ottocento, si è sviluppata e diffusa grazie a due prerogative: la sua facilità e l’utilizzo a fini di controllo e normalizzazione. Della prima si occupano tutte le storie della fotografia, mentre la seconda è generalmente omessa, oppure la si ritrova solo nei capitoli dedicati alla storia della psichiatria o delle indagini poliziesche. Charcot e Lombroso, lo studioso francese dell’isteria e il criminologo italiano, sono due esempi eclatanti dell’uso “scientifico” della fotografia ad uso diagnostico, classificatorio e investigativo.

 

 

Wanted!, che è stato ristampato dalla Bruno Mondadori con una nuova introduzione, si presenta come una straordinaria Wunderkammer della fotografia criminale, l’esposizione e insieme il racconto dell’uso abnorme della fotografia. L’atteggiamento di fondo di Gilardi, autore di una Storia della fotografia pornografica (anche questa edita da Bruno Mondadori) ha tuttavia qualcosa di curiosamente perverso, nel senso etimologico del termine. Mentre denuncia infatti ciò che è accaduto nel periodo tra il 1839 (anno in cui l’invenzione di Daguerre e Niépce viene presentata al pubblico nell’aula del Senato francese) e il 1978 (anno in cui le Brigate rosse scattano un fotografia segnaletica e giudiziaria ad Aldo Moro, sequestrato in un loro covo, e la recapitano ai giornali italiani), descrive e documenta visivamente gli abomini commessi attraverso l’uso della fotografia.

Si tratta di una storia singolare, bizzarra, ma anche dolorosa e terribile, che ha come protagonisti ladri e prostitute, malati di mente e rivoluzionari, donne di malaffare e assassini, appartenenti per la maggior parte alle classi subalterne e popolari. Due sono i personaggi principali, accanto a una folla di comparse e di attori secondari: Alphonse Bertillon, oscuro impiegato diventato capo del servizio d’identificazione della Prefettura di Parigi alla fine dell’Ottocento, e Umberto Ellero, inventore, pochi anni dopo, delle “Gemelle Ellero”, la macchina fotografica per realizzare le immagini segnaletiche.

 

La ripubblicazione di Wanted! è avvenuta in un momento particolare, non solo per l’iniziativa assunta dall’amministrazione americana, ma anche per la contemporanea diffusione di un nuovo sistema di riproduzione delle immagini che avrà probabilmente lo stesso impatto che ebbe alla fine degli anni sessanta la prima macchina Polaroid a sviluppo immediato. Oggi la maggior parte dei telefoni cellulari sono in grado di ottenere un’istantanea digitale a colori e di inviarla ad altri nell’arco di alcuni secondi. Tra foto segnaletiche e fotografie realizzate impugnando un cellulare probabilmente c’è una parentela, la medesima che esiste tra le foto giudiziarie e criminali e foto-tessera realizzate mediante le Photomatic per uso burocratico oppure solo per divertimento. La parentela riguarda il problema dell’identificazione, o meglio dell’identità. Ma prima di affrontare quello che è il problema centrale della fotografia ad uso segnaletico (criminale, psichiatrico, giudiziario), vale forse la pena di riassumere la tesi esposta in Wanted!.

 

La nascita della fotografia ha dato via a un doppio uso delle immagini: da un lato, l’idea della creazione di immagini artistiche (la produzione del “bello”), accessibili a tutti; dall’altro, la possibilità di realizzare immagini “oggettive”. Ellero e gli altri creatori della fotografia indiziaria pensavano, scrive Gilardi, che il foto-ritratto segnaletico produce un’immagine oggettiva del soggetto fotografato, che non sempre sappiamo vedere con i nostri occhi. La fotografia produce la realtà, e svela il “reale” che è in ciascuno, compresa la propensione a delinquere. Di più: il ritratto, scrive Ellero in un suo volumetto del 1908, produce un’opera astratta, attraverso la quale si raggiunge “l’assoluto della conoscenza” della realtà. La fotografia è, come la lente di Sherlock Holmes, uno strumento scientifico, cioè oggettivo. Noi sappiamo che l’immagine è un fatto mentale, prodotta dal nostro cervello, e che lo strumento utilizzato per visualizzarla può essere diverso: fino al Cinquecento il disegno aveva il medesimo ruolo della fotografia; le immagini digitali inviate da Marte e riprodotte sui nostri schermi o giornali sono, dal punto di vista della produzione delle immagini, la medesima cosa delle lastre di Niépce.

 

 

Qual è allora la questione? L’identificazione, meglio: l’identità. Lo spiega molto bene una pagina di un romanzo di Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore. Il protagonista, un militante comunista, osserva i documenti di identità delle persone che si recano a votare nel seggio costituito dentro l’istituto del Cottolengo. Tra di loro ci sono delle suore. Amerigo Ormea non può fare a meno di trovare una perfetta somiglianza tra la loro realtà interiore e la fotografia sulla carta d’identità. Come si sa, nessuno riesce a riconoscersi nell’istantanea incollata sul documento che ha in tasca: Ma quello sono io?. Le suore invece sì. “Posavano – pensa Ormea – di fronte all’obiettivo come se il volto non appartenesse più a loro: a quel modo riuscivano perfette”. Sono dimentiche di sé, hanno superato la soglia tra immediatezza della vita e beatitudine perché contemplano la morte.

 

Il nostro problema davanti alla macchina fotografica che ci identifica è quello di dare un’immagine compiuta e veritiera di noi. Tuttavia nessuno posto davanti alle “Gemelle Ellero” riuscirebbe a trasmettere all’obiettivo un senso di beatitudine. E non solo per una ragione soggettiva, ma anche per una evidente ragione oggettiva: è lo sguardo che produce il criminale, lo sguardo classificatorio e punitivo della macchina che ci ritrae e, con feed-back, il nostro stesso sguardo spaventato, iroso, depresso, angosciato. L’identità, premessa per l’identificazione, è un oggetto che dipende da molte variabili, tra cui anche la realtà esterna; l’identità con una retroazione produce realtà, e questo è un paradosso con cui la fotografia ha iniziato a partire dai ritratti criminali a fare drammaticamente i conti.

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