Attaccati alla poltrona
Lunedì 11 febbraio l’attuale Papa, Benedetto XVI, ha annunciato le proprie dimissioni e dall’1 marzo tornerà a essere soltanto Joseph Ratzinger. Motivo? Ufficialmente, si potrebbe dire, per sopraggiunti limiti di età: il pontefice dice di essere “pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”, per il quale “è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo”, fino a “dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato”. L’annuncio è subito rimpallato su tutte le prime pagine di giornali, tv, siti web: non capita mica tutti i giorni una cosa del genere, tanto in Vaticano – sono 700 anni che non succedeva che un Papa rimettesse il proprio incarico, dal “gran rifiuto” di Celestino V – che altrove, nella a volte sorprendente gerontocrazia che governa il nostro Paese, nel 2012 lo Stato più vecchio d’Europa.
Il dato sotto gli occhi di tutti è quello che proviene dalla politica – anche nell’accento, in questa campagna elettorale, su inquietanti ringiovanimenti e giovanilismi –, ma non è che il teatro se la passi tanto meglio (anche qui con pressioni altrettanto preoccupanti sui famigerati giovani a vita). Sulla scorta di un vivace articoletto di Andrea Porcheddu di qualche mese fa, dando un’occhiata alle direzioni dei teatri stabili – organismo-base del sistema, che fra l’altro assorbe ogni anno, eccezion fatta per gli enti lirici, buona parte del Fus, Fondo Unico per lo Spettacolo – la situazione è lampante: su 17 teatri, 11 sono diretti da over 60, con 4 punte ben oltre i 70. Dunque, gli under 60 rappresentano solo un terzo; mentre i più giovani sono Giuseppe Di Pasquale a Catania, del 1963, Alessandro Gassman allo Stabile del Veneto e Alessandro Preziosi – il più giovane, appena quarantenne – a L’Aquila. Under 40? Nessuno. Non che in Europa, a un rapido sguardo, ce la si passi meglio; ma si notano in ogni caso incarichi, che da noi verrebbero sicuramente definiti “coraggiosi” (ma perché, poi?) ai forthysomething nelle realtà più prestigiose del continente: dalla nota direzione del tedesco Thomas Ostermeier, appena trentenne, alla Schaubühne berlinese, che guida tuttora, fino alla più recente nomina del quarantatreenne Emmanuel Demarcy-Mota al Théâtre de la Ville, massima istituzione teatrale francese.
Certo non è mica solo una questione di anni (o di genere, visto che nessuno, fra i direttori, è donna), perché l’età non è solo un dato semplicemente anagrafico. E poi, oggi, non si invecchia più come una volta, si è allungata l’aspettativa di vita e ne è incredibilmente migliorata la qualità. E, va detto, infine, che ci sono brillanti e vivaci esperienze (di scena e di direzione) come quella di Carlo Cecchi nelle Marche o di Luca Ronconi – che nel 2013 compie ottant’anni – a Milano. Per mettere meglio a fuoco la situazione e non ricadere nei facili, quanto pericolosi, giovanilismi – rottamatori e non – che ben si conoscono in questi tempi elettorali, è meglio fare un passo avanti e definire più precisamente il problema.
Piccolo Teatro di Milano
Se n’è parlato anche alle Buone Pratiche a Firenze nei giorni scorsi, un’iniziativa itinerante che si svolge annualmente sotto la direzione di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino di “Ateatro” e che, riunendo intorno a tematiche di pressante attualità buona parte della scena italiana, è stata definita “gli Stati Generali del teatro”. Il Direttore Generale dello Spettacolo dal vivo, Salvatore Nastasi, special guest della giornata, nel rispondere a cinque domande selezionate fra quelle proposte dalla community che ruota intorno all’iniziativa, non è andato per il sottile: fra “i dati incontestabili” che ingessano il sistema teatrale italiano – di recente vittima di un ulteriore taglio del Fus di 20 milioni di euro – c’è che “il sistema della stabilità ha fallito, perché non è più un sistema: è un insieme di associazioni o fondazioni rette da trent’anni dalle stesse persone”. “Vi sembra normale che in un Paese civile – si chiede il Direttore Nastasi – ci sia gente che dal 1980 è alla guida di un teatro stabile?”. Perché il problema, quindi, più e oltre che l’età, è quello della durata. Senza scomodare il guinness assoluto di Marco Bernardi (appunto allo Stabile di Bolzano da trentatré anni) o di Pietro Carriglio, classe ‘38, ininterrottamente direttore a Palermo – salvo la parentesi romana degli anni ‘90, naturalmente alla guida dello Stabile capitolino– dal 1978, basta dare un’occhiata in giro per l’Italia teatrale, per vedere quanto duri un incarico dirigenziale nel settore: quasi vent’anni per Pietro Valenti di Ert (alla guida della stabilità emiliano-romagnola dal ‘94) e Antonio Calenda (a Trieste dal ‘95), una quindicina per la celebre coppia Escobar-Ronconi, dalla fine degli anni ‘90 alla guida del Piccolo di Milano. Per cui in teatro, contrariamente al Vaticano di questi giorni, sembra vigere ancora la regola del “morto un Papa, se ne fa un altro”: è l’affollato fronte dei “direttori a vita”. E la situazione non migliora se si sbircia fuori dal giro della stabilità pubblica: basti pensare, per la lirica, a Zubin Mehta, direttore d’orchestra del neo-commissariato Maggio Fiorentino dal 1985, o a Pierluca Donin alla guida di Arteven, il circuito teatrale veneto, da vent’anni; fino alla scottante questione della stabilità di innovazione (la sotto-categoria adibita al teatro sperimentale), attraverso cui numerose compagnie, dalla tradizione consuetamente “di giro” italiana, hanno sperimentato un radicamento sul territorio che sembra essersi risolto con l’auto-elezione a direttori a vita.
Luca De Fusco
Ma, andando più a fondo, forse la durata dell’incarico non si può stabilire solo tramite la permanenza di una stessa persona alla dirigenza di un certo teatro in una determinata città. Basta mettere in fila gli incarichi successivi per rendersi conto di quanti “direttori a vita itineranti” possa vantare la scena italiana: dall’eccellente Luca Ronconi (fra Torino, Roma e Milano, in questo ruolo dal 1989) alle vicende legate a Luca De Fusco – tredici anni, aggiungendo all’attuale incarico quello ricoperto dal 2000 allo Stabile del Veneto –, oggi direttore a Napoli sia del teatro cittadino che del Festival e protagonista, per questo strano accentramento, di continue accesissime polemiche. Perché, cogliendo lo stimolo di quest’ultimo caso e seguendo le proposte del Direttore Nastasi alle Buone Pratiche fiorentine, il problema non è solo nell’età o nella durata dei direttori dei teatri stabili: la questione è anche che, essendo in buona parte artisti, fanno regie e utilizzano, così, porzioni (a volte piuttosto consistenti) dei fondi (pubblici) per produrre i propri spettacoli.
Salvatore Nastasi
Non facciamone solo una questione di età anagrafica – ci sono giovani ben più anziani di alcuni dei talentuosi artisti citati – o di durata – esistono imprese a conduzione familiare straordinarie, e che coinvolgono ben più di una sola generazione. Ma sarebbe curioso sapere se a qualcuno di questi direttori, plurisettantenni e/o alla guida di un teatro da più di vent’anni, sia mai venuto in mente di fare i conti con lo stato delle proprie forze, del proprio vigore del corpo e dello spirito – non solo certo della propria persona, ma anche e soprattutto della propria presenza nella struttura che dirigono – necessari ad amministrare una realtà complessa come una stabilità pubblica, fra creazione artistica, formazione, rapporti col territorio; o se, magari, si chiedano se non sia venuto il tempo, ormai, di farsi un po’ da parte e passare la sfida a qualcun altro, così, anche solo “per vedere di nascosto l’effetto che fa”: per provare cosa farebbe in una situazione del genere, con quella mission e quelle risorse – tanto per fare qualche nome celebre – un’Emma Dante, un Antonio Latella, un Fabrizio Arcuri, Silvia Bottiroli, Daniele Timpano, Babilonia Teatri. Non è dato saperlo, ma Salvatore Nastasi ha dichiarato che queste – la durata dell’incarico, oltre che la questione produttiva e la sotto-categorizzazione delle strutture, non una parola invece su uno dei problemi più seri e profondi della stabilità pubblica: il fatto che le direzioni, pur incardinate a livello nazionale, dipendano da situazioni locali e che le progettualità spesso, dunque, siano ostaggio dei frequenti cambi di bandiera, di giunta e di partito – sono le questioni che segnalerà, con tanto di proposte risolutive, alla prossima imminente dirigenza ministeriale. Ma nel Paese del “tutto cambi affinché nulla cambi”, non ci resta che restare a vedere.