L’ironico esistenziale di Lucia Calamaro

1 Marzo 2012

Questa stagione ce la ricorderemo come l’anno dell’“Orgoglio drammaturgico”. Dal nord al sud non si fa altro che parlare di nuova drammaturgia tanto che certe compagnie, le pugliesi a esempio, avrebbero tutto il diritto di dire “guardate che noi la nuova drammaturgia ormai la facciamo da anni”. Bisognerebbe interrogarsi proprio su quell’aggettivo che la precede: quanto è determinante o urgente oggi parlare di nuove forme? Dopo aver destrutturato le unità narrative e dialogiche compartimentando gli spettacoli in insiemi autonomi, dopo aver disintegrato il concetto di personaggio, attraversato il dispositivo in ogni suo meandro mostrandone al pubblico ogni ingranaggio, dopo aver benedetto l’ennesima stagione del Teatro Immagine, questa volta votata al digitale, in definitiva cosa rimane se non lo scheletro? Ecco forse bisogna iniziare a ricostruire i muscoli.

 

 

Non a caso gran parte della scrittura britannica (da Caryl Churchill a Tim Crouch), che spopola nei teatri di tutto il mondo, è una drammaturgia profondamente ancorata al reale inteso come fitta rete di relazioni interdipendenti globali. L’interrogativo perciò mi pare essere anche questo: il teatro deve accompagnarci – mettendoci in crisi – nel mare magnum delle frenetiche mutazioni alle quali la nostra società è sottoposta o può permettersi di chiudersi in un’intellettuale e costante interrogazione della forma?

 

 

Nella drammaturgia che si fregia di quel “nuovo” che forse dovremmo iniziare a cancellare dal nostro lessico di analisi, è stato ascritto anche il lavoro di Lucia Calamaro, autrice e regista romana da sempre alle prese con i suoi più intimi fantasmi. Tumore e Magick. Autobiografiadellavergogna i suoi più importanti spettacoli precedenti quest’ultima fatica: L’origine del mondo. Ritratto di un interno, un’epopea dell’animo umano in quattro dolorosi e ironici quadri che ha concluso in pompa magna le sue repliche al Teatro India di Roma domenica scorsa in una maratona di quattro ore e mezzo più la fila al botteghino. Ma in che modo il lavoro della Calamaro rientra in quest’ottica? Probabilmente perché pone le basi di una letterarietà del linguaggio, assumendo il compito di farsi prototipo per una scrittura che verrà; ha costruito l’unico scheletro possibile e ha iniziato pure a modellare alcune fibre muscolari.

 

 

In scena sin dal primo capitolo Daria Deflorian, interprete sublime, campionessa di leggerezza e semplicità, capace di racchiudere nel suono di una battuta qualsiasi ragionamento sulla recitazione contemporanea, e Federica Santoro, altrettanto irreprensibile nel difficile compito di parcellizzare dentro di sé un caleidoscopio di intenzioni e ruoli, nei due episodi centrali anche Lucia Calamaro a fare da contraltare alle speculazioni esistenziali delle due. Sono una triade familiare: madre, figlia e nonna. Non c’è un’epoca, né tanto meno una storia, Daria e Federica sono anime perdute in una stanza vuota. Daria si interroga continuamente, l’ha sempre fatto, ma negli ultimi tempi questa è la sua unica attività, passa la vita a cercare di capire qual è il suo posto nel mondo, per quali motivi alcune relazioni sociali debbano prendere sempre la medesima e ipocrita strada, oppure si piange addosso per non essere una di quelle persone che la vita la strappano via a morsi, quelle che lottano e sanno sempre ciò che vogliono. Appartiene alla categoria degli indecisi, coloro che per paura di sbagliare se ne stanno in un angolo. Quelli che temono di stringere una mano perché hanno coscienza della ritualità che quel gesto comporta e sanno cosa vuol dire per gli altri una stretta indecisa.

 

 

Daria vorrebbe prima avere una biografia della persona con cui deve relazionarsi e poi iniziare a parlarci. Daria vive dei suoi libri, si rattrista quando viene a conoscenza della morte di Zanzotto, anche se avvenuta mesi prima, e si scopre madre incapace. Cos’è la depressione?, chiede Daria alla sua psicologa, per l’occasione impersonificata dalla figlia, “è come un lutto permanente, come piangere sempre il morto”. I piani si mescolano, ancor di più assistendo ai 4 capitoli nella stessa giornata, si percepisce solo uno slittamento temporale in quello conclusivo, per il resto il dramma è svuotato quanto la scena – che nella sua profondità e nei cangianti cromatismi pastello della luce-poesia di Gianni Staropoli risulta angosciante quanto alcune prospettive di De Chirico. È un anti-dramma nel quale gli unici accadimenti sono epicizzati, dunque raccontati in micro storie, oppure appartengono a una grammatica minima dell’esistenza: tentare di uscire per fare la spesa, andare dalla dottoressa, provare a ricamarsi addosso quel vestito da brava casalinga moderna che la società dei consumi vorrebbe venderci a tutti i costi. O ancora sono accadimenti che ci appaiono improvvisamente come delle epifanie: instaurare finalmente un dialogo con la psicoterapeuta; Federica, la figlia, che nell’ultimo episodio scopriamo essere ormai andata via di casa. Tutto ruota intorno all’origine del mondo, non solo inteso come omaggio al femminile del quadro di Courbet, ma come quesito fondamentale della vita di ognuno.

 

 

Ora, se la lunghezza dell’intera operazione da una parte frena l’attenzione, l’ironia con cui la Calamaro ridimensiona in ogni momento qualsiasi punta di analisi ontologica o dolorosamente esistenziale – “Dottoressa mi sento un barattolo di Morandi” – riuscendo a trovare quasi un punto di contatto tra Nanni Moretti e un Woody Allen depurato di qualunque tensione sessuale, fa sì che lo spettatore venga attirato e respinto contemporaneamente con un moto perpetuo, lasciandolo così in costante attesa ed evidente sospensione emotiva, sostituendo nella sua percezione il pathos con il logos.

 

Andrea Pocosgnich (Teatro e Critica)

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