Tutti sono stati bambini. Conversazione con Giuseppe Caliceti

12 Settembre 2011

 

Da quando sono un insegnante ho notato che tutti gli adulti, indipendentemente dalla loro professione, quando parlano di scuola rimuovono costantemente la loro esperienza di studenti, dando giudizi di taglio vagamente sociologico che magari si appoggiano sulla vicenda dei loro figli o di adolescenti che conoscono.

Chi non lavora nella scuola – e spesso anche chi ci lavora – ha a che fare con una rappresentazione ideologica della realtà costruita dai media. Una rappresentazione che dipinge la scuola come il teatro di una catastrofe e il luogo della barbarie, con il preciso compito di servire l’attacco contro la scuola pubblica in corso da tempo, di cui i Gelmini, Brunetta, Tremonti hanno scritto solo la pagina più recente, offensiva e brutale. I problemi reali vengono sistematicamente ignorati e l’invenzione di presunte emergenze serve per legittimare provvedimenti, in genere tagli di spesa o mostruosità burocratiche inconcludenti, che creeranno nuovi problemi: in questo modo in dieci anni la condizione della scuola italiana, e la qualità della vita al suo interno, è peggiorata davvero e sistematicamente.

Il sistema culturale che ha nei media il centro di irradiazione ha rimodellato definitivamente l’economia degli affetti e del desiderio di un paio di generazioni; la scuola è stata in parte in una prima fase luogo di resistenza alla reificazione dei rapporti sociali, contro la logica economicista e contro il nuovo classismo, poi, lasciata sola, è oggi implosa su se stessa per lo sforzo immane. I docenti, sotto un attacco politico incrociato sono più stanchi, invecchiati (si veda l’età media) e a volte logorati, mentre i più giovani sono sistematicamente precarizzati; per poi essere accusati di essere il problema, come se educare gruppi di adolescenti non fosse di per sé un lavoro arduo e soprattutto come se ogni altra agenzia di socializzazione non avesse sistematicamente lavorato contro il modello educativo che trova nel sapere umanistico e scientifico il proprio vettore principale.

La cultura e l’intelligenza non interessano minimamente alla classe dirigente italiana, che al limite se ne riempie la bocca per promuovere le immagini delle aziende, o in chiave paternalistica e di prestigio per accreditare gretti localismi e al massimo pubblicizzare il turismo, secondo i cliché di lungo periodo della cultura di destra, vecchia e nuova. Così la fatica di educare è sistematicamente delegata a una scuola impotente, impoverita e sempre più fragile.

 

Tra i tanti libri sul tema è particolarmente significativo Una scuola da rifare (Feltrinelli, 2011) di Giuseppe Caliceti, maestro di scuola e narratore. Un libro rivolto ai genitori, che pur essendo colpiti direttamente dai tagli all’educazione, non sempre hanno presente quanto è in gioco nel berlusconismo e nelle sue ‘politiche’ rivolte all’istruzione. Del resto la stessa famiglia è al centro di una grave crisi educativa che si avvita a sua volta con cambiamenti culturali più vasti e problemi di comunicazione tra generazioni.

Caliceti ci fa sedere tra i banchi delle scuole elementari e ci racconta in episodi diversi la scuola da un punto di vista microfisico; la sua è una fenomenologia della vita quotidiana per piccoli apologhi zen, incentrata sul mondo dei bambini e che individua nuclei didattici e politici, i quali, colti nel vissuto ‘segreto’ dei nostri figli, acquistano una potenza paradigmatica e oltremodo significativa. Il suo sguardo sul mondo dell’infanzia mostra in modo più chiaro e diretto di tanti discorsi teorici i nodi problematici della nostra scuola e le loro cause.

Il libro contiene anche un manifesto per una vera rinascita della scuola che affonda le sue radici nel meglio della tradizione pedagogica italiana. “La scuola che vogliamo è: laica, gratuita, libera, solidale; in cui si sta bene insieme; che aiuti i nostri figli a diventare adulti felici e responsabili; sulla quale lo Stato sappia investire come una risorsa; che valuti l’apprendimento, ma che tenga conto anche delle emozioni; in cui i nostri figli imparino a lavorare insieme; proiettata verso il futuro; basata sul metodo delle domande e della ricerca; in cui i docenti siano preparati e si ricordino di essere stati bambini. Vogliamo una scuola senza paura di sbagliare e senza fretta: neppure di diventare grandi”. Quanto segue è una conversazione a distanza con l’autore.

 

Nel tuo libro mostri quanto di falso, ideologico e propagandistico ci sia nel ritorno a una mitica scuola dei bei vecchi tempi, i cui simboli sono il maestro unico e il grembiulino. Viceversa spieghi in modo semplice le ragioni della qualità della scuola pubblica italiana, prima delle riforme che avrebbero dovuto migliorarla…

 

Esatto. Penso infatti ci sia stato in questi tre anni una narrazione bugiarda da parte del governo di quanto è successo a scuola; d’altra parte, affermare che con tagli a fondi e docenti, tagli epocali, la qualità della scuola potesse migliorare, era senza dubbio una cosa impossibile. L’ideologia del ritorno al passato come modello per il futuro della scuola ha avuto buon gioco sui genitori degli alunni di oggi perché fa leva sul loro ricordo dell’infanzia, che però è molto diversa dall’infanzia di oggi. È un modello vecchio, anacronistico, classista, poco solidale verso chi ha più difficoltà di apprendimento: e oggi, i bambini che hanno difficoltà di questo tipo sono tanti e spesso sono anche i nostri figli, non solo quelli degli altri. Una volta un mio alunno mi ha detto che l’infanzia è quando un adulto si ricorda di essere stato bambino; non credo ci sia una definizione più efficace per esprimere ciò che per noi adulti è effettivamente l’infanzia; per i bambini, per chi la sta vivendo, invece, è tutt’altro, di tutt’altra consistenza: l’esistenza qui e ora, non un ricordo.

 

Mi è piaciuta molto la parte sulla valutazione e il modo in cui dai i voti. È un tema delicato anche nella scuola superiore. Colpisce l’attenzione per il mondo dei bambini e la tua denuncia dell’adultizzazione precoce a cui sono sottoposti, che spesso sono i genitori per primi ad auspicare. A questa si collegano lo spirito competitivo e l’ossessione della misurabilità.

 

In Occidente ci diamo molte arie per come trattiamo i bambini, in famiglia e a scuola, ma penso che ci sia ancora molta strada da fare. Il fatto è che il minore è visto – e lo dice anche la parola ‘minore’ rispetto a un presunto maggiore – come un soggetto non ancora politico, come un progetto di adulto, un prototipo. E non come una persona in fase di crescita. Una persona a tutti gli effetti. Questo comporta tutta una serie di miserie. Io invece, come del resto l’inventore degli asili più belli del mondo, Loris Malaguzzi, credo che i bambini siano portatori di una cultura altra, autonoma, completa, che sarebbe utile, in termini evolutivi e politici, anche per i genitori, per gli adulti.

A proposito di voti e di valutazione: credo ci si debba andare piano, con delicatezza, quando si valuta chi è ancora all’inizio o, comunque, all’interno di un processo educativo e di apprendimento, perché il giudizio dell’adulto, specie se negativo, incide pesantemente sul processo stesso e può creare danni enormi nei bambini e nei ragazzi.

 

Affronti un discorso molto interessante sulla gestione del tempo, ormai congestionato e pieno di impegni anche per i più piccoli, laddove invece tempi apparentemente morti e poco produttivi sono momenti preziosi per la vita di un gruppo; allo stesso modo una certa solitudine interiore, l’ozio ricreativo e la lentezza, importanti per la formazione dell’individuo sono scomparsi dalla vita dei ragazzi, che è ormai un flusso ininterrotto di informazioni e immagini. Penso a quando racconti del giorno in cui avete guardato la neve cadere…

 

Il gruppo per me è il luogo principe dell’educazione partecipata: piccolo o grande gruppo che sia. Parlare in gruppo, per esempio, non è facile per i bambini: in una classe di 25 alunni, parli una o due volte ogni 25 volte che ascolti gli altri; generalmente, è qualcosa che per un bambino – ma anche per tanti giovani adulti o adulti – è assai difficile, quasi impossibile, se non sei stato educato a farlo. Tra gruppo e momento individuale non c’è contraddizione, proprio perché parlare in gruppo significa essenzialmente ascoltare. E l’ascolto è degli altri ma anche di se stessi. Poi c’è l’altro problema del tempo libero dei bambini, e qui intendo tempo libero come tempo senza adulti, che ormai pare scomparso dall’infanzia e invece deve essere recuperato perché è fondamentale per promuovere l’autonomia di chi sta crescendo. Invece si tende a riempire di impegni continui i bambini, anche se sono impegni privi di senso e divertimento. Ricordiamoci le parole di Rodari: per sviluppare la creatività occorre anche che un bambino ogni tanto sia solo e si annoi.

 

Educazione al consumo e alla televisione sono obiettivi prioritari di una didattica che non sia aliena dal mondo reale. È importante che questo avvenga alle elementari, e lo dico da insegnante di liceo che si rapporta con ragazzi e ragazze il cui immaginario è quasi completamente colonizzato e sovradeterminato in senso consumistico, edonista e individualista.

 

L’immaginario dei bambini fino agli anni ‘70 era in mano alla Chiesa, almeno in Italia. Poi è stato lentamente colonizzato dalla televisione. Penso sia necessario e urgente, come scrivo anche nel libro, introdurre come materia di scuola la lettura e lo studio dei media. E questo ancor prima di tante altre materie che oggi sono alla moda e sembra siano più importanti: informatica o religione, inglese o altro.

Occorre tornare a spiegare bene agli studenti, ma anche ai loro genitori, che tra apprendere e informare e/o convincere a fare qualcosa, per esempio comprare un prodotto o pensarla in un certo modo, c’è una grande differenza. Mi colpisce sempre pensare alla grande quantità di soldi che il mercato spende per convincere e alle somme sempre più esigue e esangui destinate a educare e istruire: non credo sia un caso.

 

Un’altra cosa che sottolinei è l’attenzione rivolta all’imparare a imparare, al lavoro di gruppo e alle relazioni affettive, come precondizione per ogni compito cognitivo anche elementare. Si tratta di un’esigenza sempre più attuale, al di là delle retoriche globalizzanti legate al discorso sulla formazione permanente.

 

Certo. E, sottolineo, non solo quando gli studenti sono bambini, sono piccoli. Perché c’è questa leggenda: che l’importanza dell’affettività e delle relazioni affettive siano fondamentali solo nella scuola primaria; in realtà sono sempre fondamentali. E hanno a che fare col rapporto docente-studente e studente-docente: è quello il punto centrale di ogni rapporto educativo. Penso che a questo proposito siano molte le lacune dei docenti. Anche se non è tutta colpa loro. Il nostro sistema formativo è vecchio: prevede che basti conoscere e magari amare una materia, per saperla insegnare, come dicono Mastrocola e Gelmini. In realtà occorre sempre partire dalla didattica e della pedagogia. Se non si parte di lì, non si sta parlando di educazione, di scuola, ma di altre cose.

 

Nei tuoi allievi vedo un’anticipazione della società italiana del futuro; e anche dell’istruzione superiore alla quale sempre più figli di migranti accedono, con conseguenze rilevanti, ma sostanzialmente ignorate, su programmi e canoni culturali. Dici chiaramente che i bambini non sono razzisti e che la scuola pubblica è il vero centro della multiculturalità.

 

Ringrazio molto Girolamo De Michele, autore di La scuola è di tutti, per la bella recensione su “Carmilla” al mio Una scuola da rifare perché credo sia stato fino ad ora l’unico ad aver colto un aspetto per me decisivo di questo mio ultimo libro: il fatto che parlando della scuola parlassi anche della società italiana. Anche se penso che nella scuola primaria, si rispecchi ancora la parte migliore della nostra società. Spesso noi docenti, in questi anni, ci siamo trovati ad insegnare valori e contenuti esattamente opposti a quelli dei politici e dei rappresentati del governo: pensiamo alla questione immigrazione. Il fatto è che i valori costituzionali sono stati messi in discussione da questo governo in più casi. Molti docenti si sono trovati spiazzati. Non sanno più a chi dar retta. Ma la cosa più grave è stato l’attacco frontale e violento nei confronti della scuola pubblica, che è il cuore di qualsiasi democrazia. Al ministero dell’Istruzione, a parte il burattino Gelmini, abbiamo avuto “saggi” come Vittadini, gran capo dì Comunione e Liberazione e fondatore della Compagnia delle Opere: gente che è contro la scuola pubblica e a favore delle private, che vive proprio come una roba privata. Gelmini ha gridato mille volte “viva il merito”, “premiamo il merito”, ma ha fatto esattamente l’opposto con la sua controriforma: ha tolto alle scuole pubbliche italiane che i dati Ocse-Pisa del 2007 reputavano migliori delle private; e la scuola primaria italiana dal 2008 a oggi è scesa dal primo al tredicesimo posto in Europa. Di che merito parla? Tutte falsità.

 

Un tema sottotraccia nelle storie che racconti è la gestione del potere e il rapporto con l’autorità che tu stesso incarni agli occhi dei bambini e con il quale sembri avere un rapporto ambivalente. È qualcosa che riguarda il ruolo di ogni docente – mi ci riconosco – l’inevitabile ‘politicità’ della scuola e più in genere di ogni relazione sociale.

 

Il ruolo di un docente all’interno della scuola è da sempre delicato. Io credo che debba essere fondamentalmente di mediatore e ascoltatore dei bambini, di gestore il più possibile dei gruppi, di osservatore. É una sorta di antropologo che fa la spola mille volte ogni giorno tra il mondo degli adulti e il suo, tra la sua infanzia e adolescenza di un tempo e l’oggi. Non si tratta di ambivalenza, ma di equilibrio.

 

Infine, nel tuo discorso c’è il richiamo a non dimenticare lo ‘sguardo bambino’, dei bambini di oggi ma innanzitutto dei bambini che tutti siamo stati. Uno sguardo che potrebbe essere un buon antidoto al peggio portato dalla trasformazione antropologica che ha investito il contemporaneo.

 

Sì, credo che oggi si tenda a negare il bambino che siamo stati. Il bambino è visto solo come tappa, tutto è proiettato, come d’altra parte sempre accaduto, sull’adulto. Invece è fondamentale, per un docente ma anche per un semplice genitore, per qualsiasi adulto, insomma, mantenere un rapporto aperto con il proprio passato, la propria storia, il proprio essere stato bambino. Perché cambia lo stesso modo di essere adulti. In meglio.

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