Intorno al risentimento (parte seconda) / Rancore

26 Aprile 2016

Rimorso 

 

Il rancoroso possiede una memoria implacabile, non può perdonare né perdonarsi, e condivide molti tratti simili a chi soffre del sentimento di vergogna: è offuscato dalla memoria di un passato da cui non può separarsi e che non può tenere a distanza. Ciò che manca a chi soffre di questo sentimento è la capacità di ri-vivere, quindi di trovare un senso all’offesa patita, di farla transitare attraverso l’esperienza del proprio vissuto; non si congeda mai dal ricordo della frustrazione, torna a sentire le offese narcisistiche ricevute, edipiche o fraterne, che non si vogliono o non si possono dimenticare o perdonare. Sia nel risentimento, come nella vergogna, appare la figura del “rimorso”, il tornare a mordere o mordersi, sotto la pressione di un’emozione, dice Kancyper, specifica, ripetitiva, alimentando l’attesa di nuove vendette rivolte, prima di tutto, contro se stessi.

 

Lo psicoanalista sottolinea come il rimorso sia ben altra cosa rispetto all’odio; mentre il rimorso promuove una circolarità regressiva e sadica, l’odio può invece promuovere un movimento centrifugo della libido. Rifacendosi al Freud di Pulsioni e loro destini (1915), Kancyper sostiene che l’odio non è un amore in negativo: l’odio trae le proprie origini da pulsioni di autoconservazione, mentre l’amore ha origine da pulsioni di tipo sessuale. L’odio non ha dunque a che fare con la sessualità, ma può benissimo trasformarsi in risentimento assumendo così un carattere erotico nel perpetuarsi del vincolo sadomasochistico proprio di questa emozione.

Vergogna e rancore alimentano l’ira, un’altra delle compagne consuete della nostra vita quotidiana. Così Martino di Braga, teologo medievale, descrive questo vizio difficile da nascondere: “Il sangue rifluisce dal profondo del cuore, gli occhi infiammati sprizzano scintille, le labbra tremano, i denti sono serrati, il petto è scosso dal respiro accelerato; i gemiti si fanno affannosi e le parole si accalcano in suoni poco comprensibili, la voce che erompe rabbiosa gonfia il collo; le mani diventano irrequiete, le dita si serrano con frequenza eccessiva, i denti stringono”.

 

Se infatti la gola e la lussuria, altri due peccati capitali, possono, almeno in parte, essere celati, lo scatenamento incontrollato dell’aggressività umana è un vizio assai difficile da occultare agli occhi degli altri. Carla Casagrande e Silvana Vecchio, due studiose del mondo medievale, spiegano come, da valore positivo nel mondo greco, l’ira sia diventata un peccato che Cassiano fa discendere dall’avarizia, mentre Gregorio direttamente dall’invidia. L’ira è una forma di follia breve, dicono i sapienti, e tuttavia nel mondo greco “arrabbiarsi per una causa giusta si addice ai nobili, ai grandi, ai potenti; chi lo fa dimostra di avere un animo coraggioso e generoso”.

 

L’ira

 

L’Iliade si apre con i celebri versi che una volta i liceali mandavano a memoria: “Cantami, o diva, del Pelide Achille, l’ira funesta…”. Ma com’è potuto accadere che un sentimento positivo sia diventato negativo, espressione evidente dell’uomo che non sa controllare le proprie reazioni emotive? Sono stati i filosofi, Platone, Aristotele e gli stoici, a trasformare l’ira in “passione, dato emozionale che appartiene alla zona irrazionale dell’anima umana, e perciò elemento patologico e disgregatore”. L’ira è definita essa stessa una “malattia dell’anima”, e man mano che l’antropologia e la psicologia si medicalizzano nel corso dell’età moderna, i filosofi provvedono a descrivere l’eziologia dell’ira che culmina, scrivono Casagrande e Vecchio, nella classificazione minuziosa dei filosofi stoici. Da loro passa nel cristianesimo che, almeno dal punto di vista della concezione dell’uomo, è fortemente influenzato dai testi dei filosofi pagani della tarda antichità. 

 

 

Tuttavia c’è una contraddizione evidente che, almeno per i cristiani, fa a pugni con la condanna dell’ira: la presenza di un Dio terribile e vendicativo nell’Antico Testamento, o anche l’immagine irata di Gesù che nel Vangelo scaccia i mercanti dal tempio. E c’è anche la drammatica scena del Giudizio finale, che i fedeli dell’epoca medievale trovavano dipinta sopra il portale della chiesa, nella controfacciata, mentre s’apprestavano a uscire dalle funzioni religiose: la scena è dominata da un Dio terribile che condanna in modo inappellabile. Grazie ad alcuni abili passaggi, i teologi, tra cui Girolamo e Cristiano, hanno svuotato di senso letterale l’ira divina trasformandola in un elemento allegorico e morale: la collera di Dio è molto diversa da quella umana; e non comporta alcun turbamento emotivo, ma è la manifestazione della somma giustizia di Dio. 

 

L’ira, dice Gregorio, è figlia dell’invidia; compromette la somiglianza dell’uomo con Dio, fa perdere sapienza, vita e verità. C’è un’ira che deriva dall’impazienza e una che viene invece dallo zelo; la prima è un vizio, la seconda una virtù; efficace la distinzione di Alessandro di Hales tra l’ira come desiderare il male altrui e l’invidia come insofferenza per il bene altrui. L’ira è una forma di follia, seppur temporanea; non solo perché durante lo scatenamento del furore si è accecati, ma anche perché è assurdo voler sanare le proprie ferite infliggendole agli altri o vendicarsi con la morte dell’avversario che, dicono i Padri della Chiesa, porta alla morte della propria anima. C’è l’ira di bocca (bestemmie, insulti, clamore), l’ira di cuore (tracotanza, indignazione), e l’ira d’azione (risse, lesioni, omicidio). 

 

I greci avevano dell’ira una visione positiva perché classificavano il desiderio di vendetta, scopo dell’ira, come parte della giustizia. La giusta ira, di cui si è parlato anche nei giorni seguiti alla distruzione delle Twin Towers, si iscrive in questa etica precristiana. Se la restaurazione della giustizia violata è un bene, l’ira diventa un sentimento positivo. È un difficile bilico tra l’ira che vuole l’annientamento della singola persona, che è un sentimento colpevole, poiché rompe il vincolo d’amore tra gli uomini, secondo il cristianesimo, e l’ira che si dirige invece verso la colpa, e punta perciò alla restaurazione della giustizia, e per questo è considerata un sentimento virtuoso. 

 

Ma da dove nasce l’ira per gli antichi? Dalla bile nel fegato umano. È un fatto naturale, sostengono i teologi cristiani; dunque, se Dio ha messo l’umore bilioso nel corpo umano, dicono i teologi, non può averlo fatto solo per condurlo al peccato. La risposta che forniscono è complessa e riguarda la valutazione della parte animale presente nell’uomo. Più di recente gli psicologi descrivono gli elementi “culturali” dell’ira. L’iroso quando si arrabbia segue in ogni caso dei comportamenti fissati dalla cultura in cui vive. Entra, come dice James Averill, uno studioso inglese autore di un libro dedicato alla rabbia umana, in un “ruolo sociale transitorio”, impersona, in altre parole, il ruolo dell’arrabbiato seguendo il copione che la società in cui vive gli suggerisce. 

 

Futuro

 

Gli americani si arrabbiano diversamente dai tedeschi e i cinesi in modo diverso dagli aborigeni australiani. Esiste cioè una “costruzione sociale delle emozioni”, secondo cui la società modella in modo esplicito, ma soprattutto implicito (l’educazione silente che riceviamo in famiglia o dagli amici) i nostri modi di sentire e di esprimerci. La rabbia va collocata, scrive Valentina D’Urso, in un contesto culturale. Perché ci arrabbiamo? Come e con chi lo facciamo più spesso? Rispondere a questa domanda significa fissare le regole della propria grammatica emotiva, che varia secondo l’epoca e i paesi del mondo. E non c’è solo la grammatica emotiva, ma anche la “competenza emotiva”, che è la capacità che ogni individuo possiede di seguire le regole emotive fissate dalla grammatica, che va, scrive la D’Urso, dalla capacità introspettiva a quella di riconoscere i sentimenti altrui, e di modulare le emozioni a seconda delle situazioni e dei contesti. I bambini e i vecchi, scriveva Ruggero Bacone, sono quelli che si arrabbiano di più. Sono loro a dare sfogo più facilmente al rancore, al risentimento e all’antipatia, che condividono con la rabbia la medesima tonalità emotiva. La rabbia e l’ira sono legate senza dubbio a sentimenti di frustrazione, ma anche a modalità aggressive che servono a porre richieste impellenti. 

 

Nei bambini la rabbia ha un evidente scopo esplorativo. Seneca, in modo drastico, scriveva che l’ira è una passione dei deboli, “vizio essenzialmente femminile e puerile. Ma si trova anche fra gli uomini. Perché anche fra gli uomini si trovano temperamenti femminili e puerili”. Dante condanna gli iracondi al fango della palude Stigia: si dilaniano coi loro stessi denti, ossessivi e tristi. Al furore succede una profonda tristezza, l’abbattimento dell’anima. I medievali la chiamano accidia, noi invece malinconia. Per i Padri della Chiesa è tuttavia sempre il segnale del male fatto, la sua consapevolezza. 

 

Riusciremo a depurarci da tutto questo e a trasformare il risentimento che attraversa la nostra società in qualcosa d’altro? Oggi, come ha scritto Peter Sloterdijk, sono scomparse le banche del risentimento, ovvero le istituzioni come la Chiesa o i partiti socialisti e comunisti, che raccoglievano la frustrazione, il rancore, la rabbia, il risentimento, e attraverso un progetto fissato in un futuro prossimo venturo – la promessa del Paradiso in Terra o del Paradiso tout court – tenevano sotto controllo queste manifestazioni individuali e collettive, e davano un senso alla frustrazione e al dolore quotidiano della gente più umile. Il Giorno dell’ira, scrive il filosofo tedesco, quello della rivoluzione come resa dei conti, vittoria degli oppressi e degli umiliati, sfuma in un futuro inesistente. Quando mai si riparerà ai torti subiti da singoli, gruppi sociali, classi, intere nazioni? 

 

La rivoluzione mondiale non è più all’ordine del giorno, e in Occidente neppure la promessa del Paradiso è sufficiente a trasformare in attiva attesa il rancore medesimo. Così la rabbia e l’ira diventano patrimonio di tutti, senso d’irritazione d’individui singoli, o piccoli gruppi, nei confronti di situazioni locali o globali. La collera diventa una valvola di sfogo continuo e conosce forme di esplosione improvvise e momentanee. Lo stesso senso d’insicurezza gioca in questo modo provocando continue tensioni. Forse proprio per questo il fenomeno dell’integralismo si diffonde a macchia d’olio e fa breccia tra le plebi povere e sofferenti del mondo arabo, dell’Africa e dell’Asia. 

 

Lo stesso terrorismo si alimenta di questi meccanismi; la pulsione omicida, a partire dall’11 settembre 2001, dall’attacco suicida alle Torri Gemelle, è diventata un fatto endemico nella nostra società. Le vittime, vere o presunte tali, producono vittime, in un’escalation che non sembra aver fine. Chi interromperà questa catena di rabbia e violenza? Il problema è politico, ma la soluzione non può essere solo di questa natura. La cultura umanistica, oggi disprezzata a vantaggio del sapere tecnico-scientifico, che sembra produrre più profitto della conoscenza dei classici antichi, o contemporanei, ha ancora molto da dire in questa prospettiva.

 

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Marco Belpoliti, Rancore

Questo testo riprende e sviluppa alcune pagine apparse in quotidiani e riviste o in prefazioni di libri, e anche temi già trattati in Senza vergogna (Guanda, Milano, 2010) cui rimando per ulteriori approfondimenti.

Sul risentimento si veda il libro dello psicoanalista argentino Luis Kancyper, Il risentimento e il rimorso Franco Angeli, Milano, 2003; e anche di Stefano Tomelleri, Identità e gerarchia. Per una sociologia del risentimento, Carocci, Roma, 2009; oltre a Itinerari del rancore, a cura di Renato Rizzi, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, che comprende il saggio citato di Valentina D’Urso, e un altro testo di Luis Kancyper. Il testo di Leslie H. Faber sull’invidia è compreso nel volume: Psicopatologia della volontà, Boringhieri, Torino 1973; Slavoj Žižek ha trattato questi argomenti in diversi libri, in particolare in: La violenza invisibile, Rizzoli, Milano, 2007. Di Hannah Arendt si rinvia al volume Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi, Torino 2006, dove è affrontata la questione del male e della disperazione, con esempi letterari. Di Carla Casagrande e Silvia Vecchio si cita il libro: I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Einaudi, Torino, 2000, opera decisiva sull’argomento. Di Melanie Klein il classico: Invidia e gratitudine, Giunti Editore, Firenze, 1998. Peter Sloterdijk ha sviluppato questi argomenti in un volume: Ira e tempo, Meltemi, Roma, 2007; si veda anche il breve e incisivo testo di Remo Bodei, Ira, il Mulino, Bologna, 2010. Sul risentimento italiano si legge ancora con interesse il libro di Marco Revelli, Poveri, noi, Einaudi, Torino, 2010; mentre sul tema in una prospettiva storica “La memoria del rancore: storia e politica” di David Bidussa, in Itinerari del rancore. Per molti dei temi qui trattati in forma rapida, in particolare al nesso con la vergogna, si rinvia a Senza vergogna.

 

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