Antonio Scurati / M. Il figlio del secolo

19 Novembre 2018

La prima, fondamentale considerazione che bisogna fare sul libro di Antonio Scurati su Mussolini – il primo d’una trilogia, come da tempo annunciato – non può che essere un convinto apprezzamento. M. Il figlio del secolo (Bompiani, pp. 842, € 24), sta incontrando un notevole successo di pubblico: cosa non scontata per un libro che parla di storia, anche se inalbera fin dalla sovracoperta (ma non in copertina) l’indicazione «romanzo». Su questo punto torneremo più avanti; va detto tuttavia che, a differenza di quanto avveniva nel 1974 per La Storia di Elsa Morante, non si tratta di un sottotitolo vero e proprio, tant’è vero che non compare nel frontespizio. Sul verso, in compenso, cioè nella pagina del copyright, un’avvertenza non titolata di cinque o sei righe propone la definizione di «romanzo documentario», che forse si sarebbe potuta valorizzare di più. Fatto sta che grazie a Scurati un cospicuo numero di lettori si sono trovati a rinfrescare le proprie nozioni su vicende decisive della storia italiana del secolo scorso; anzi, in molti casi (la maggioranza, forse), le avranno qui apprese per la prima volta. L’effetto culturale complessivo è quindi largamente positivo. Di ciò non possiamo che rallegrarci, e darne merito all’autore. 

 

C’è stato, è vero, l’intervento critico di Ernesto Galli della Loggia, (Il romanzo che ritocca la storia, «Corriere della Sera», 13 ottobre) che ha contestato a Scurati alcuni errori. Nella sua risposta, pubblicata quattro giorni dopo, Scurati li ha ammessi quasi tutti; e meglio sarebbe stato togliere pure il quasi, giacché Galli della Loggia ha avuto facile gioco a replicare. Gli errori (quegli errori) sono errori e basta. Lettore tardivo, io avevo allora appena fatto in tempo a trasalire per l’attribuzione a Carducci del famoso intervento di Pascoli sulla «grande proletaria»; e particolarmente disdicevoli mi paiono sia lo svarione sul numero di vittime della Grande Guerra, nella voce biografica su Antonio Salandra, sia l’incongruo appellativo «professore» con cui Luigi Russo si sarebbe rivolto a Benedetto Croce.

 

Tuttavia non possiamo nasconderci che stiamo parlando di dettagli. Incresciosi finché si vuole, ma dettagli. Ben diverso sarebbe il discorso se a Scurati venissero imputate distorsioni nella presentazione delle grandi questioni storiche: se, per esempio, gli fosse mossa l’accusa di aver fornito un’immagine non attendibile del clima politico durante il biennio 1919-21, o di aver falsificato le dinamiche interne al movimento socialista, o di essersi inventato la psicologia del personaggio di Mussolini. Ma questo non è avvenuto. Insomma, Scurati propone una ricostruzione della storia che certo sarebbe ingenuo definire tout court veridica (esiste una «verità» storica?), ma che nella sostanza si attiene a quanto sostenuto da studiosi accreditati e autorevoli. Quindi ha compiuto un’operazione culturale meritoria: ha fatto in modo che molti italiani si documentassero su un’epoca importantissima del nostro passato recente. 

 

Ciò detto, possiamo considerare un po’ più da vicino il libro: che, come abbiamo visto, preferisce qualificarsi come romanzo, o romanzo documentario, anziché come biografia. M. Il figlio del secolo percorre un arco temporale di poco più di 5 anni, cioè dalla fondazione dei Fasci di combattimento (23 marzo 1919) alla rivendicazione del delitto Matteotti (3 gennaio 1925), da cui prende avvio la vera e propria dittatura. Sui 36 anni precedenti (Mussolini era nato nel 1883), le informazioni sono succinte e desultorie. La narrazione è segmentata in brevi capitoli, ciascuno dei quali contrassegnato dal nome di un personaggio (in pochi casi da due), da un luogo e una data, fatta salva una decina di casi in cui c’è solo un’indicazione generica di luogo (Milano, Fiume, Ferrara, Napoli, Roma). Attorno ai due nodi principali della storia, poi – marcia su Roma, 24-31 ottobre 1922, e assassinio Matteotti, metà giugno 1924 – la scansione si fa più fitta, la registrazione più circostanziata (ad esempio: Milano, via Lovanio, 27 ottobre 1922 // Sede de Il Popolo d’Italia, ore 2.40), senza nomi di persona, ma con titolazioni interne (In marcia; Cento ore terribili, A qualunque costo, Il paese opaco, Cloroformio, Il cadavere, Precipizio, Palude, La muta).

 

I segmenti focalizzati su un personaggio sono comunque oltre un centinaio. In poco meno della metà dei casi si tratta di Benito Mussolini; quindi seguono, intorno alla decina di occorrenze, Giacomo Matteotti, Amerigo Dùmini, Italo Balbo; un gradino sotto troviamo Leandro Arpinati, Nicola Bombacci, Margherita Sarfatti, Gabriele d’Annunzio; intestazioni sporadiche toccano infine a Cesare Rossi, Albino Volpi, Filippo Tommaso Marinetti, Pietro Nenni. Ogni segmento è seguito da una breve appendice, che riporta citazioni da articoli, lettere, telegrammi, documenti vari, di norma già ricordati e parafrasati nel testo. Nei brani di apertura e di chiusura, Mussolini parla in prima persona; in tutto il resto del libro il resoconto è condotto da un narratore esterno, che in genere si attiene alla relazione dei fatti, ma a volte lascia trapelare un chiaro giudizio. Si veda ad esempio il brano identificato con Nicola Bombacci/ Roma, 1 dicembre 1919/ Montecitorio, dedicato alla prima seduta del Parlamento dopo le elezioni che hanno registrato un’affermazione straordinaria del partito socialista. All’arrivo di Vittorio Emanuele III, mentre tutti si alzano gridando «Viva il re!», i socialisti rimangono seduti; e quando prende la parola, escono dall’aula. 

 

 

La scena è memorabile, il suo effetto teatrale fortissimo. I deputati dissidenti, usciti all’aperto sulla piazza di Montecitorio, si rallegrano, si congratulano e si abbracciano a vicenda. Le loro risate sono genuine, spensierate. Il sogno di una vita libera e giusta si avvera. Nel tiepido sole invernale di una piazza romana sono in questo momento i rappresentanti di un popolo tornato bambino. La gioia dura qualche istante. Poco dopo, onorevoli e senatori si accorgono con sgomento di non avere nessun progetto per il resto della giornata. I socialisti hanno conquistato l’Italia ma non sanno che farsene. 

Poiché quegli uomini non sanno che fare, vengono picchiati. Cominciano a picchiarli già nel pomeriggio, bande di nazionalisti… (pp. 153-154). 

 

Ora, quali sono le implicazioni di questa struttura episodica? Che cosa ci dà in meno, e che cosa in più, di un’esposizione organica e continuata? La prima conseguenza della strategia messa in atto da Scurati è senza dubbio una forte impressione di immediatezza. Ogni segmento è una scena, e una scena particolare; del passato vengono recuperate poche notizie indispensabili, e non c’è alcuna anticipazione riguardo agli sviluppi futuri. La storia sembra così procedere passo dopo passo davanti ai nostri occhi: cosa che in qualche modo avvicina il lettore alla condizione dei contemporanei, che ovviamente non potevano sapere cosa avrebbe loro riservato il futuro. A me pare che questo sia un effetto quanto mai salutare. In ogni fase storica, il presente ci si propone come un ventaglio di congetture e di possibilità. Con il senno di poi è facile giudicare; spesso, quindi, cediamo alla tentazione di ritenere i nostri predecessori – in questo caso, i nostri nonni o bisnonni – più sprovveduti, ingenui o miopi di noi, illusione fallace e presuntuosa, che induce a sopravvalutare oltre misura la nostra comprensione del presente. Ben vengano, dunque, i racconti di epoche passate capaci di restituirne i tratti di plasticità, imponderabilità e indeterminatezza che avevano agli occhi di chi le ha vissute.

D’altro canto, l’abbassamento della visuale al livello del presente, unito alla rinuncia a un tessuto espositivo d’insieme che avrebbe di necessità intrecciato narrazione e argomentazione, provoca anche un’altra conseguenza. Il carattere frammentario del racconto esalta il ruolo del lettore, chiamato a una cooperazione testuale più assidua e impegnativa del consueto. Come sempre accade, le lacune sono più o meno consapevolmente colmate strada facendo. Ma poiché parliamo di un libro di oltre ottocento pagine, la parte del lettore si sgrana e si dissemina, fin quasi a polverizzarsi; e in questo modo i vantaggi potenziali della costruzione a episodi finiscono per vanificarsi, al cospetto dell’investimento di tempo che la lettura richiede. Gli spazi bianchi non fungono più da cassa di risonanza che conferisce al detto una superiore ricchezza di senso: diventano semplici intervalli, cambi di scena d’un interminabile montaggio incrociato. E allora si finisce per sentire la mancanza di un’istanza interpretativa superiore, di un punto di vista sintetico. 

 

Non che i singoli segmenti siano privi di efficacia; a volte, anzi, risultano davvero ben ritagliati. Prendiamo ad esempio, il brano datato Fiume, 18 marzo 1920, intitolato naturalmente a Gabriele D’Annunzio. A sei mesi dalla presa della città, la situazione sembra senza via d’uscita. Mentre il Vate lavora di lima sulla Carta del Carnaro, la Costituzione che mai si tradurrà in realtà, a teatro va in scena la Fiaccola sotto il moggio, il dramma che lo stesso d’Annunzio aveva scritto nel 1905. Ma la recitazione è modesta, e i legionari non usano frequentare le belle lettere. Così a un certo punto è lo stesso poeta che, dal suo palco, d’improvviso esclama: «Interrompiamo questa noiosissima tragedia e cantiamo le nostre canzoni!»: e tutti cantano in coro Giovinezza, l’inno di Garibaldi, l’inno di Mameli. Un trionfo. Senonché i gusti della truppa presto s’impongono: ed ecco che dai cori eroici e battaglieri si passa a ‘A tazza ‘e cafè. «La canzoncina s’ingrossa, spaventosa, brutale, spietata, e seppellisce nella propria facile allegria i canti ufficiali. // Tutti si fanno dei segni. Perfino gli ufficiali ora trovano la cosa buffissima. D’Annunzio s’è fatto pallido. Il popolo gli insegna la sua canzone. Lui sembra aver capito» (p. 179).

 

Ecco: se questo libro fosse stato composto da un numero limitato di scene così, la sua efficacia sarebbe stata molto maggiore. Ma questo avrebbe richiesto un lavoro – certo non facile, e per certi versi perfino doloroso – di selezione degli episodi: e, insieme, una non meno ardua opera di concentrazione e distillazione verbale, tale da rendere i momenti prescelti assolutamente esemplari. In tal modo, i vuoti fra l’uno e l’altro sarebbero stati riempiti dalle ripercussioni (non solo emotive!) sulla coscienza dei lettori: i quali, a lettura ultimata, sarebbero stati stimolati a leggere altri libri sull’ascesa del fascismo (tema di un’attualità davvero bruciante), su Mussolini, sul ventennio – nonché a rileggere, dopo qualche tempo, il libro dello stesso Scurati. Che invece, così com’è, si legge, se si legge, una volta sola: cosa che non dovrebbe rientrare nella vocazione di un «romanzo», sia pur documentario. 

Una maggiore sintesi avrebbe anche a mio avviso consentito di mettere in maggior risalto il sistema dei personaggi. Se il glossarietto conclusivo, privilegiando l’informazione storica, individua quattro categorie (Fascisti, fiancheggiatori e affini; Socialisti e comunisti; Liberali, democratici, moderati e uomini delle istituzioni; Parenti, amici e amanti), sul piano narrativo si delinea una struttura sostanzialmente ternaria. Al centro il protagonista, nucleo e perno della vicenda, verso il quale l’autore – come ha scritto Daniele Giglioli sulla «Lettura» del 9 settembre (M. Il nome della sconfitta), «non mostra alcuna condiscendenza, non si dice ammirazione»: un singolare impasto di energia e mediocrità, di cinismo e spregiudicatezza, di furbizia e opportunismo, eppure dotato di una carica magnetica che sa sfruttare come nessuno.  

 

Attorno a lui si dispongono tre gruppi di personaggi: gli antagonisti, gli alleati, le donne. Al primo appartengono Matteotti, l’unico oppositore autentico, Nicola Bombacci, avversario inadeguato che finirà per diventare suo seguace, e per certi versi lo stesso d’Annunzio, modello rapidamente superato e accantonato. Il secondo comprende sostenitori e adepti, più o meno fedeli e suscettibili di diventare rivali: Italo Balbo, Dino Grandi, Amerigo Dùmini, Roberto Farinacci (più avanti ne arriveranno altri, come Rodolfo Graziani e Galeazzo Ciano). Il terzo è qui rappresentato soprattutto da Margherita Sarfatti, amante e ispiratrice, che rispetto al futuro duce riveste un ruolo quasi di pigmalione (ben diverso sarà, dopo la sua caduta in disgrazia, il ruolo di Claretta Petacci).   

 

Concludo. Scurati ha lavorato tanto, in primo luogo sul versante dell’informazione storica, e questo suo lavoro merita rispetto e riconoscenza, a dispetto degli errori che gli sono sfuggiti. Ma forse, come scrittore, non ha lavorato abbastanza. Ha preferito puntare sulla quantità, mentre la concisione è una conquista difficile, che richiede tanto tempo in più. E anche se non mancheremo di leggere scrupolosamente dall’inizio alla fine gli altri due tomi della sua biografia di Mussolini, nel nostro scaffale rimarranno, come paradigmi di narrazioni politicamente ispirate, altri libri. Una cronaca, dedicata alla caduta del governo Parri nel 1945 (ovvero come si passò dalla Resistenza all’Italia democristiana): L’Orologio di Carlo Levi (1950). Un’autobiografia per istantanee, ossessivamente laconica, ma capace di scolpire nel marmo il destino di una generazione: Servabo di Luigi Pintor (1991). L’analisi di un giorno, anzi di pochi minuti di un giorno – il fallito golpe del colonnello Tejero, 23 febbraio 1981 – che illustra l’avventurosa transizione della Spagna dalla dittatura alla democrazia: Anatomia di un istante di Javier Cercas (2009). Libri diversissimi fra loro, ma accomunati dalla capacità di rendere gli eventi memorabili per forza di messa a fuoco. Che è, se non l’unico, uno dei principali contributi che la letteratura può offrire alla storia. 

 

Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani, pp. 842, € 24.

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